L’innocenza in pericolo

di Lily Pourzand (per «The Huffington Post», 8. 11. 2012; traduzione di Maria G. Di Rienzo)

Successivamente alla rivoluzione islamica del 1979 la mia identità cambiò. Non ero più semplicemente Lily Pourzand. Divenni invece «Lily, figlia di Siamak Pourzand» (mio padre, famoso giornalista imprigionato) o «Lily, figlia di Mehrangiz Kar» (mia madre, famosa avvocata e attivista per i diritti umani, imprigionata).

Avevo solo 11 anni quando, una sera di primavera, ricevetti una telefonata di due minuti dalla prigione di Evin. Ero in casa con mia sorella di un anno e la sua babysitter, perché mia madre avrebbe lavorato sino a tardi nel suo studio legale. Udii la voce di mio padre, spezzata, dall’altro capo del filo: stava tentando di soffocare l’emozione. Lo sentii dire a qualcuno: «Signore, mia moglie non è in casa. Come posso dire una cosa del genere alla mia figlioletta?». Una voce irritata, in tono di comando, gli ordinò di fare quel che lui non voleva fare.

Mio padre disse: «Leily Jan (Lily cara), non preoccuparti per me. Questi gentili signori mi porteranno a essere giustiziato domani all’alba. Sarò in pace, dopo. Non volevo darti questa notizia, ma sono stato costretto. Mi vergogno di non aver ne’ denaro ne’ proprietà da lasciarti in eredità, ma Leily Jan, tu sii orgogliosa e tieni alta la testa». Lo udii piangere e qualcuno gli ordinò di piantarla. Mio padre disse ancora: «Addio, Leily Jan. Abbi cura di te stessa e della tua sorellina». Io dissi «Addio» e rimasi a tremare là dov’ero per parecchie ore. In effetti, mio padre non fu giustiziato il giorno successivo. Non sono sicura che abbia mai superato lo shock di quella chiamata telefonica. Lo scenario era parte delle torture inflitte a mio padre per estorcergli confessioni contro se stesso e altre persone. Tuttavia, lo scenario coinvolgeva una vittima silenziosa di 11 anni che non ha mai parlato degli effetti che la tortura di suo padre ha avuto su di lei.

La prima volta in cui incontrai Nasrin Sotoudeh, l’avvocata iraniana e attivista per i diritti umani, fu nel 1995, quando io ero una studentessa in legge e lei si era diplomata di recente nella mia stessa università ed era stata chiamata a far parte dell’Associazione degli avvocati. Nasrin trovò la strada per lo studio legale di mia madre nei sobborghi di Teheran, per avere i suoi consigli su come essere non una semplice avvocata, ma un’avvocata attivista. Mia madre la mise in guardia sulla sicurezza: «Tu sei giovane, Nasrin. Potresti volere una famiglia e dei figli, più tardi. Il sentiero che hai scelto è pericoloso». Mia madre ricordò a Nasrin che le vite degli attivisti sono sempre sotto controllo e che innumerevoli cose possono accadere a loro e alle loro famiglie, bambini inclusi. Ma Nasrin aveva già deciso, aveva una missione da compiere.

Nel 2000, mia madre fu arrestata di ritorno a Teheran da una conferenza sulla democrazia in Iran tenutasi a Berlino. Nasrin non la abbandonò, nonostante le minacce che dovette fronteggiare. Più tardi, mia madre fu costretta all’esilio e mio padre, 75enne, fu arrestato e tenuto in prigione per parecchi mesi. Nel 2004 lo rilasciarono, perché vivesse il resto della sua vita agli arresti domiciliari. Non molte persone avevano il coraggio di mettersi in contatto con lui, neppure per chiedergli come stava o chiacchierare del più e del meno. Non era prudente essere in contatto con un prigioniero politico agli arresti domiciliari. Ma Nasrin non si è mai curata molto di cose simili ed è rimasta in contatto con mio padre durante quei bui giorni.

Il 9 gennaio 2011, le autorità iraniane hanno condannato Nasrin a undici anni di galera, per reati che includono «azioni contro la sicurezza nazionale» e «propaganda contro il regime». In aggiunta, è stata bandita dalla professione legale e dall’uscire dal Paese per vent’anni. Più di recente, le sono stati negati gli incontri settimanali con il figlio Nima e la figlia Meharveh. Nasrin ha risposto entrando in sciopero della fame (beve solo acqua) nella prigione di Evin dov’è detenuta. Sono oltre venti giorni che Nasrin non mangia, e io non riesco a immaginare come fa il suo minuscolo corpo a sopravvivere. Le autorità hanno risposto alla sua protesta trasferendola in cella d’isolamento. La comunità internazionale è preoccupata per la sua salute. Nel frattempo, il Premio Sakharov per la libertà di pensiero è stato conferito la settimana scorsa a lei e a un regista iraniano parimenti imprigionato, Jafar Panahi.

Anch’io sono angosciata come tutti per la sua salute e la sua sicurezza, ma ho anche un’altra grande preoccupazione: i suoi due bambini. Nasrin ha sacrificato la sua libertà personale lottando per la libertà di coscienza e la democrazia. Ora sta lottando contro l’ingiustizia con l’unica arma in suo possesso, la sua delicata e preziosa vita. Ho molta paura per Mehraveh e Nima, le due vittime silenziose ben consapevoli dei pericoli che la loro madre corre solo per riottenere il diritto di vederli. Sono preoccupata per il loro futuro, per la sfida che dovranno affrontare durante la loro vita, quando cercheranno disperatamente una buona ragione che giustifichi ciò di cui fanno esperienza oggi. Dobbiamo ricordare che le violazioni dei diritti umani di una persona non fanno una sola vittima. Sono come un’onda che increspandosi va ad affliggere altre generazioni. Gli individui direttamente soggetti alle violazioni possono restare nella Storia come eroi, ma la perdita d’innocenza della generazione successiva resta sempre una triste vicenda non detta.

La vita di Nasrin e l’innocenza dei suoi bambini sono in pericolo.

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