Loretta Emiri: extraterrestri

Si autodefinisce extraterrestre chi, in cuor suo, ha già scelto di esserlo. Tale consapevolezza dovrebbe evitargli di sentirsi solo, ma ciò non avviene. D’altronde, se circondato da una moltitudine con interessi e valori diversi dai suoi, avverte una sensazione di solitudine ancor più devastante. Se può intraprende viaggi per andare a conoscere o rivedere gli sparuti extraterrestri che abitano sulla Terra; non si sente solo esclusivamente quando è accanto a qualcuno di loro. Il senso di appartenenza a una razza esotica, seppur minoritaria, gli infonde l’entusiasmo necessario per sviluppare meccanismi di sopravvivenza. A Lucca, durante un seminario di quella che è definita Letteratura della Migrazione, dissi che nell’Italia in cui sono nata non mi sento una straniera, ma un’extraterrestre.

Ci conoscemmo a São Paulo all’inizio del 1984. Per tre mesi lavorammo fianco a fianco. I nostri nomi appaiono, come collaboratori, su una pubblicazione del più importante Centro di Documentazione e Informazione sugli indios in Brasile, che ha fomentato il movimento indigeno e indigenista brasiliano. Robin aveva realizzato la sua tesi di dottorato fra i Baniwa. Nello svolgere il suo lavoro era metodico, infaticabile e molto riservato; ma quando apriva bocca le sue parole erano sempre coraggiose. Attraverso lui capii che anche fra gli odiati imperialisti nordamericani c’è qualcuno che si salva, che pensa con la propria testa, che non ha paura di esporsi. Mi raccontò che nel 1973, negli Stati Uniti ci fu uno scontro armato tra nativi e forze federali che avevano assediato un villaggio; rimasi impressionata perché il 1973 era molto vicino, mentre pensavo fossero ormai lontane le violenze contro gli indiani. Mi parlò anche del massacro di Wounded Knee in cui furono uccisi trecento nativi. L’idea di scrivere qualcosa a proposito di stragi di pellirosse, e di quell’americano in gamba, si insinuò nel midollo delle mie ossa; ma lasciai passare troppo tempo, per cui la memoria si incaricò di trasformare le informazioni in una sola, e cioè che nel 1973 erano stati ammazzati molti indiani.

Decisi di recarmi ad Imola, dove avrei ritrovato due simpatici extraterrestri conosciuti a Lucca. Scelsi la data del viaggio in concomitanza di uno degli eventi programmati nell’ambito dell’iniziativa intitolata “Alieni per casa (o per caso?)”.  Assistetti così alla presentazione di una raccolta di poesie del nativo americano Lance Henson, di ascendenza cheyenne. A pagina quarantacinque di Un canto dal vento che si leva, si legge: “All’alba del 29 novembre 1864 un reparto di circa 700 uomini dell’esercito americano, comandato dal colonnello John Milton Chivington, attaccò un villaggio cheyenne e uno arapaho, situati presso il fiume Sand Creek in Colorado, in cui si trovavano soprattutto vecchi, donne e bambini, poiché molti uomini si erano allontanati alla ricerca di cibo. Gli indiani, ritenendo di essere sotto la protezione dell’esercito, furono colti di sorpresa e alla fine della giornata si contarono, tra essi, circa 150 morti”.

Da vari anni Lance è in esilio volontario per protesta contro la politica del governo degli Stati Uniti verso i nativi. Le sue poesie richiamano lo stile dei canti tradizionali cheyenne e sgorgano da lui in modo del tutto naturale. È impegnato a livello internazionale con il movimento dei popoli indigeni. Come lui stesso afferma (a pagina 8 del libro di cui sopra):“non ho rispetto per la lingua inglese … ma la lingua è uno strumento … un’arma ben affilata”; per cui scrive anche in inglese, però non usa le maiuscole, la punteggiatura, né altri segni grafici.

Ho scritto in  “Quadernetto”(nel libro Amazzonia portatile): “Acuta è riaffiorata l’avversione che sento per la lingua inglese, che ai miei occhi simbolizza la globalizzazione del presente, l’imperialismo del passato prossimo. Se attraverso l’inglese si riducono al silenzio tante esotiche e originali lingue, attraverso il rifiuto del suo uso esprimo io la personale protesta contro tutto ciò che è colonialismo, sia esso culturale, politico o economico”. Una interprete a Imola tradusse l’intervento di Lance. Ultimata la presentazione, ebbi modo di avvicinarlo ma mi morsi le labbra non riuscendo a comunicare in inglese e quindi non potendo dialogare con lui. Lo rividi l’indomani in occasione di un laboratorio di poesia (a Bologna); provai a seguire i suoi suggerimenti: esprimersi in prima persona; lasciarsi andare alle sensazioni scrivendo di getto; dedicare i versi a una persona cara.  Quanto annotai durante il laboratorio non si sarebbe potuto definire poesia ma, nei giorni seguenti ci lavorai su pazientemente con martello e scalpello riuscendo a frammentare il blocco amorfo e a ricavarne tre composizioni. Tradotte con intelligenza, le parole di Lance e il suo carisma hanno fatto uscire dal midollo delle mie ossa l’antico proposito di scrivere qualcosa sui massacri dei nativi americani e sull’amico Robin. Una facile ricerca bibliografica ha ridistribuito i ricordi e ampliato la conoscenza dei fatti.

Negli ultimi giorni del 1890, alla notizia dell’assassinio di Toro Seduto, un gruppo di Sioux guidato da Piede Grosso partì dall’accampamento sul torrente Cherry per recarsi a Pine Ridge, sperando nella protezione di Nuvola Rossa. Il ventotto dicembre vennero intercettati da quattro squadroni di cavalleria del Settimo Reggimento guidato dal maggiore Samuel Whitside, che aveva l’ordine di condurli in un accampamento militare sul Wounded Knee. Centoventi uomini e duecentotrenta tra donne e bambini vennero scortati sulla riva del torrente, circondati da due squadroni di cavalleria, tenuti sotto tiro da due cannoni Hotchkiss. Più tardi, il resto del Settimo Reggimento marciò da est e bivaccò a nord degli squadroni di Whitside. Il comando delle operazioni fu preso dal colonnello James W. Forsyth, che fece piazzare altri due cannoni, anch’essi in posizione tale da colpire le tende degli indiani da un capo all’altro dell’accampamento. L’indomani gli uomini di Piede Grosso, ammalato gravemente a causa di una polmonite, vennero disarmati. Coyote Nero, un giovane sordo, tardò a consegnare il suo fucile; fu circondato dai soldati e, mentre deponeva l’arma, partì un colpo. Era il pretesto che gli yankee aspettavano per procedere al massacro. I cadaveri rimasero a cielo  aperto, i feriti che riuscirono ad allontanarsi morirono assiderati: un’agghiacciante serie di fotografie ce li mostra  irrigiditi nel gelo e nello strazio. Alla frettolosa stima iniziale seguì la constatazione che, su un totale di trecentocinquanta, erano morti  trecento indiani.

Il ventisette febbraio 1973 nella riserva di Pine Ridge, nel Sud Dakota, esplode la disperazione indiana. I Sioux si ribellano al governo statunitense gridando quanto misere siano le loro condizioni di vita; denunciano l’amministrazione delle riserve in cui sono stati relegati, svelandone la corruzione, gli abusi, le irregolarità, la violazione degli impegni, l’incapacità di fornire lavoro, gli attentati ai  diritti, alla cultura, al proprio modo di vivere. Circa duecento pellirosse, fra cui donne e bambini, si asserragliano a Wounded Knee, nello stesso luogo in cui nel 1890 la cavalleria massacrò i loro avi. Sono appoggiati dall’Aim – American Indian Movement. Assediando la zona, il governo mette in campo tiratori scelti della polizia federale, uomini, mezzi blindati ed elicotteri. La resistenza indigena dura più di due mesi; cessa il dieci  maggio dopo scontri armati e la morte di due pellirosse. Sembrerebbe che anche questa volta gli indiani abbiano perso la loro battaglia. In concomitanza di quello che passerà alla storia come il Wounded Knee Incident, Marlon Brando ricusa l’Oscar attribuitogli per la performance ne Il Padrino. Le motivazioni del suo rifiuto vengono lette da una giovane squaw  che viene definita Sioux o Apache, mentre per altri è un’attrice californiana. L’identità della donna nulla toglie al messaggio che Brando dirige alla stirpe di celluloide: “non posso accettare l’Oscar … l’industria del cinema è più di altre colpevole della degradazione degli indiani”. A parte le sporadiche o recenti eccezioni, effettivamente la cinematografia ha contribuito a creare  stereotipi e preconcetti; ha messo in ridicolo un grande popolo, scimmiottandone i guerrieri, riducendoli a pagliacci e ubriaconi; ha forgiato la menzogna che i “buoni” sono sempre i soldati. “Massacri dei nativi americani” corrisponde a “genocidio degli indios brasiliani”: sono locuzioni differenti che dicono esattamente la stessa cosa. Nordamericani in gamba, sensibili, che pensano, denunciano, si battono, resistono; ovviamente, possono solo essere di ascendenza extraterrestre…..

Bibliografia

Un canto dal vento che si leva, Lance Henson, Edizioni La Collina, Cagliari, 2009. (Lance ha pubblicato, di recente, altri libri e presto ne parlerò su questo blog – nota db)

“Quadernetto”, in Amazzonia portatile, Loretta Emiri, Manni, Lecce, 2003.

Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, Dee Brown, Oscar Storia, Mondadori, Milano, ristampato nel 1994.

“Images of Wounded Knee”, http://hoist.hrtc.net/~wbt/woundedknee.htm

“Ghost Dance”, Wu Ming 1,  http://www.wumingfoundation.com

“10 maggio 1973: la resa di Wounded Knee”, http://www.ilsole24ore.com

NOTE BIOGRAFICHE

Loretta Emiri è nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si è stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader. Ha pubblicato il Dicionário Yãnomamè-Português e il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver. In italiano ha scritto Amazzonia portatile, e gli inediti Amazzone in tempo reale, Quando le amazzoni diventano nonne. Fa parte del Cisai, il Centro interdipartimentale di studi sull’America Indigena dell’Università di Siena.
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