L’ultima cena di Olmi

di Fabio Troncarelli

L’8 maggio 2018 Ermanno Olmi ci ha lasciato. In silenzio. Con discrezione. A modo suo. Sento la mancanza di un personaggio come lui, così diverso da chi vive in questo desolato presente, in cui la “la vita è un’ombra che cammina… una favola raccontata da un idiota, piena di clamore e furore, che non significa nulla” (Macbeth, Atto V, scena 5). Per ricordarlo come si deve non c’è niente di meglio che riparlare di uno dei suoi film più strani: Lunga vita alla signora.

Era il 1987. La generazione dell’85 – quella degli yuppies rampanti, quella dei “ragazzi concreti” aizzati da Craxi, che piacevano tanto al Corriere della Sera (ve li ricordare?) – scalpitava e ululava dal piacere per il Nuovo Miracolo, che oscurava il ricordo del “Miracolo Economico”: Miracoli come il Decreto Salva Berluconi, estorto al Parlamento l’ 1/12/1985. Ancora non avevamo visto tutti gli orrori a cui saremmo stati costretti ad assistere da quando il Miracolato, dopo avere portato un cero al suo Santo Padrino, decise di scendere in campo. Eppure, quello che c’era da vedere Olmi l’aveva visto benissimo. E decise di farlo vedere anche a noi, che non ci eravamo accorti di niente e che – in tanti – continuammo a non accorgerci di niente.

Dunque, c’è un castello assurdo in mezzo alle montagne, tutto pieno di grate, catene, sbarre come una prigione. Ogni anno una misteriosa signora, potentissima, organizza una cena e riunisce intorno a sé decine di personaggi, esponenti della razza padrona. Gerarchi della politica, dell’economia, della cultura che lei spia, minacciosa, con un binocolo, controllandoli uno per uno.

La signora esige che sulla tavola non compaia neppure un fiore e che la stanza sia circondata da vetri antiproiettile, collaudati da camerieri-poliziotti che scaricano con violenza le loro pistole contro queste barriere che sembrano fragili, ma sfidano l’acciaio.

La cena è un trionfo maniacale che celebra il potere della donna. E gli invitati, divisi intorno a lei come i diavoli nei gironi infernali, vivono della luce riflessa dello stesso potere e sono potenti a loro volta “per partecipazione”. Tutto si svolge in silenzio, in un’atmosfera rarefatta e sinistra, rispetto alla quale i banchetti di Salò Sade sono un girotondo all’asilo.

Per servire questi convitati di pietra, che somigliano maledettamente a vampiri e lupi mannari sotto psicofarmaci, viene assoldato un manipolo di ragazzini e ragazzine di paese, allievi di una minuscola scuola alberghiera, caricati su una jeep, come se fossero clandestini africani per raccogliere pomodori. Il gelido personale del castello li trasforma in foche ammaestrate, con tanto di frac e papillon, educandoli rigorosamente a servire a tavola con la precisione con cui i serial killers dei servizi segreti preparano bombe a orologeria per dare la colpa a fondamentalisti strapponi. Inutile dire che i ragazzini ammutoliti sono annichiliti, terrorizzati dal clima di innocenza violenta intorno a loro. Uso di proposito la definizione “innocenza violenta” che risale al celebre psicoanalista Christopher Bollas e che contraddistingue le società progredite (e civili) e i suoi civilissimi membri, che condannano al rogo le ultime streghe fra uno sbadiglio e l’altro, trattandole come donne di servizio che hanno rubato l’argenteria.

Il punto è che la cena interminabile, mostruosa, il fiero pasto degno dell’Inferno di Dante, è un banchetto funebre in cui si ammanniscono cadaveri come quello di una non più esistente gigantesca Cernia Preistorica, che al tempo dei dinosauri era grande come uno squalo, portata a spalla da quattro persone come la salma del caro estinto.

Gli ospiti, che parlano varie lingue, hanno un posto a tavola rigidamente stabilito dalla signora. E tutti sono serviti e riveriti da un personale “paramilitare”, dalla “signorina” e il suo “assistente” fino al più piccolo cameriere. Ognuno ha il suo posto e ognuno vale per il posto che occupa. La dispotica signora comanda su tutti e non si cura, come la cieca Fortuna degli antichi, se qualcuno non regge ai suoi capricci, si sente male e viene portato via nell’indifferenza generale.

Le regole del gioco costringono i bambini a non partecipare alla cena: i figli degli invitati possono solo accogliere la signora con un inchino e poi sparire nelle stanze a loro riservate, dove una coppia di clown è incaricata di farli ridere ma dove nessuno verrà mai se piangono.

La signora è l’emblema della decadenza. Decrepita, quasi paralizzata, sempre accompagnata da un uomo che parla al suo posto, non ce la fa a mangiare e beve a fatica con una cannuccia Ma il suo arbitrio non ha freni: può decidere all’improvviso di cambiare l’ordine della cena, mettendo a disagio tutti, ospiti e camerieri, che devono solo obbedire e prestarle omaggio.

Ora, in questo mondo di morti viventi l’unico ancora vivo è un ragazzino, che anche se serve umilmente i suoi padroni, conserva ancora la dote infantile di meravigliarsi, di stupirsi. Ha un nome da santo cristiano, Libenzio. Non è un nome scelto a caso per un cameriere. San Libenzio fu il cameriere personale di un papa, Benedetto V, deposto ed esiliato senza troppi complimenti. Libenzio lo seguì, fedele come un cane. E divenne un punto di riferimento per i poveri di Brema alla fine del secolo X, fino a che fu eletto arcivescovo della città. Ma anche allora visse una vita riservata, schiva, senza andare mai alla corte dell’Imperatore e senza mai mettersi a capo di un esercito per proclamare l’ennesima crociata contro nemici veri o immaginari. Beh, dicevo, il nostro Libenzio (Marco Esposito) è come lui: timido, schivo, innocente. E’ rimasto orfano della madre molto presto ed è stato allevato dalla nonna, che gli ha insegnato a rispettare poche regole semplici e umane. Si sente un estraneo nel mondo straniante che lo circonda, che lo avvolge come una ragnatela, pieno di esseri sinistri, che non parlano ma spiano gli altri come la signora che li spia. Spiano con concupiscenza la sua grazia sgraziata di adolescente quasi impubere, invitandolo all’unico divertimento ancora concesso ai morti viventi, un erotismo dispotico cioè da padrone che sfrutta uno schiavo o una schiava: un erotismo raggelante ma invadente, perverso, morboso, che sia eterossessuale o che sia omosessuale.

Libenzio non ne può più e fedele al suo buon nome sceglie di essere libero. Di notte, di nascosto da tutti, fugge, correndo in un prato. Ma dietro di lui compare, misterioso, il terribile mastino della signora, il simbolo stesso della sua ferocia. E questo ricorda il cane che spunta dalla mente del ragazzino che muore alla fine degli Olvidados di Buñuel, a farci capire che quel ragazzino sbandato è solo come un cane. Tutti si aspettano che il cane sbrani il ragazzino e invece gli si sdraia vicino, uggiolando, in attesa di una carezza. Ed ecco il vero miracolo: Libenzio, solo come un cane, è capace di dare una carezza al cane che si sente solo. E questa piccola luce, che brilla per un attimo come quella di una lucciola, questo sospiro, che ci fa capire che i morti sono ancora vivi, fa provare un brivido allo spettatore e gli scalda timidamente il cuore.

  Voi direte: un film del genere è destinato al fallimento. Eppure vinse il Leone d’argento a Venezia e il pubblico di allora, ancora non corrotto dallo stupro quotidiano del Lumpen-Berlusconiat, lo applaudì commosso, disprezzando i “ragazzi concreti” che sgranavano i loro occhietti da Nerd perché credevano fosse saltato l’audio, visto che durante il film nessuno parlava mai, sordi al suono del silenzio degli uomini vuoti, delle ombre che camminano, che si aggiravano sullo schermo come spettri.

Sì, se c’è un film che ha colto lo spirito dei tempi – degno di rivaleggiare con “M” di Lang, che captò l’orrore della Germania che divenne nazista senza rendersene conto –  è questo di Olmi, nel quale l’Italia proba di Non è mai troppo tardi è divenuta un incubo in cui si fa sempre troppo tardi, si resta sempre troppo indietro rispetto alla ressa che banchetta, all’Ultima Cena degli uomini prima degli Ultimi Tempi senza Dio. La vita associata è divenuta un rito. Un servizio funebre permanente, crudele, impersonale, agghiacciante.

Ora, qual è la grandezza del film di Olmi? Di essere un’opera completamente astratta. Olmi ha rifiutato la via facile del film di denuncia. Si è messo da parte rispetto alle “Magnifiche sorti e progressive” di questo secolo e, come il Passero Solitario di Leopardi, non si è curato del furore e del rumore del mondo. Il suo film sembra un quadro di Giorgio Morandi. Si vedono oggetti; e persone ridotte a oggetti. Ma non si può dire che siano rappresentati in modo “oggettivo”. Sono un’allegoria. Nuova parabola di un nuovo Vangelo, in cui alle Nozze di Cana il giovane Gesù decide di non intervenire, di non mutare l’acqua in vino e tutti restano paralizzati, rinchiusi nel loro rancore, nel loro torpore. L’acqua che resta acqua, l’antimiracolo che nega il miracolo della vita, è quello che resta di un’umanità disumana: un mondo gelido, subacqueo in cui la vita è assente ed è presente solo il corpo morto di un essere preistorico spuntato dagli abissi, un mostro senza nome che galleggia senza vita.

Come in un quadro del Caravaggio in cui la Madonna che muore è il ritratto di una prostituta ripescata nel Tevere e sformata dall’acqua. Come nella Terra Desolata di Eliot, in cui la morte per acqua di un oscuro marinaio chiude crudelmente gli occhi che non conoscono più il sonno. O come nel canto desolato di Bruce Springsteen sul corpo del migrante, che affiora surreale sulla riva dei Matamoros Banks.

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

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