“L’uomo che rubò Banksy” di Marco Proserpio

Dal murale di Betlemme alla street-art in vendita su ebay

di Monica Macchi

“Se i media ci seguono,/ li portiamo dove già dovrebbero essere.”

“Quando l’arte sul muro/ varrà più del muro stesso,/ allora il muro cadrà.”

L’uomo che rubò Banksy

In queste due frasi è racchiuso l’intero documentario L’uomo che rubò Banksy” (diretto da Marco Proserpio e distribuito da Nexo Digital) che parte dal contestato mural di Betlemme del soldato che chiede i documenti ad un asino, per seguire poi la storia di Walid la bestia, un tassista e guardia del corpo che aiuta a staccare il pezzo di muro (4 tonnellate di cemento in un unico blocco!) per metterlo in vendita su e-bay sino a diventare uno spazio di dibattito sul mercato dell’arte e in particolare della street-art attorno al cosiddetto “approccio fast food”.

Stralci di BBC News 24 testimoniano la presenza di Banksy a Betlemme, anche se nessuno può dire di averlo visto con certezza ma tutti affermano che considera ogni muro una enorme tela bianca.

Questo specifico mural è contestato da alcuni che lo considerano offensivo perché paragona i palestinesi a degli asini, mentre altri lo considerano un monito alla stupidità umana ed altri ancora come un invito agli israeliani a disertare notando una somiglianza col quadro di Horace Moore Jones “L’uomo con l’asino”.

E anche su Bansky le opinioni non sono univoche: c’è chi lo considera un esaltato che arriva ma non resta a sperimentare la vita quotidiana, chi uno strumento di consapevolezza perché aiuta a puntare i riflettori su quelle realtà, chi gli consiglia di andare a dipingere dall’altra parte del muro, chi lo reputa un filosofo perché attraverso i suoi graffiti si può leggere il mondo e chi taglia corto dicendo che comunque le opere, una volta finite, non sono più sue.

Si passa così ad un dibattito sul diritto d’autore, anche dal punto di vista legale visto che, nello specifico, è stato dipinto su una casa privata, e le considerazioni non sono cero univoche: si tratta comunque di un furto perché la fruizione è indissolubilmente legata allo spazio pubblico o è “come salvare un Michelangelo per il futuro”?

Uno spazio pubblico che del resto è tale in relazione alla privatizzazione dello spazio e che si fonde e confonde con la scelta di un’arte libera, gratuita ed effimera, con il limine tra preservare-commercializzare e con il rapporto di interazione/integrazione con l’ambiente in cui queste opere sono state create.

Ed in particolare molti intervistati paventano proprio il rischio che fuori dal loro contesto originale vengano ridotte alla stregua di souvenir mentre lo storico dell’arte Omodeo sostiene il potere dell’arte anche al di fuori del suo contesto.

L’uomo che rubò Banksy

E questo mural da Betlemme a Copenaghen, poi a Londra esposto in un centro commerciale finisce a Los Angeles da Julien’s restando invenduto.

Il dibattito si allarga e la voce di Iggy Pop presenta la scelta di Blu che decide di cancellare le sue opere dai muri di Bologna dove Genius Bonomiae, una istituzione culturale sostenuta dalla fondazione bancaria e presieduta dall’ex rettore Fabio Roversi Monaco, aveva deciso di staccare alcuni murales (senza il permesso degli autori) per una mostra a Palazzo Pepoli secondo cui “di fronte alla tracotanza dei padroni con modalità coloniali l’unico modo è agire x sottrazione impedendo l’accaparramento” e di Paolo Buggiani, artista visionario e collezionista dei disegni di Keith Erings che sentenzia lapidario “se obbedisci diventi un artigiano, se disobbedisci diventi un artista”.

Un documentario che via via si allarga da un singolo episodio al mondo e al mercato dell’arte, un mondo-mercato che la street art sfida, da un punto di vista legale e commerciale ma anche e soprattutto valoriale perché “Se i graffiti non avessero il potere di cambiare qualcosa, non sarebbero illegali”.

(*) ripreso da Oubliette Magazine

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