Martinica rivisitata: veleni in paradiso

di Kumba Diallo

 Entri in libreria, sfogli una guida dei Caraibi e cominci a leggere le pagine sulle Antille Francesi. Ecco la Martinica, la più facile da raggiungere a qualche ora da Parigi, con i suoi paesaggi lussureggianti, mare turchese e coralli, foreste di alberi e fiori che sembrano sculture. Guardi i prezzi: il viaggio prenotato con buon anticipo non costa troppo. Decidi, compri il biglietto, e via! La bellezza dei luoghi, la dolcezza del clima ti soggioga e conquista, il soggiorno è delizioso. Non sospetti che un involucro così smagliante racchiuda insidie; l’occhio è abbagliato dalle apparenze, natura rigogliosa e socialità meticcia. Effettivamente gli scheletri avvelenati celati tra le verdi colline non sono evidenti per il turista standard, che se ne andrà conquistato dalle Antille creole e ne decanterà i pregi, ignaro del lezzo di quelle ossa insepolte che continueranno verosimilmente a diffonderlo ancora a lungo.

Il primo scheletro avvelenato è nascosto sotto lo scrigno smeraldino della vegetazione; dopo una

scorpacciata di crostacei e frutti di mare con contorno di insalata mista ti addormenterai sotto la zanzariera cullato dagli acuti stridii di microscopiche rane coqui e dal ronfare dei grilli, ignaro che la tua cenetta può celare sorprese spiacevoli.

Firt de France gennaio 2018, foto mia

Il secondo scheletro si annida nel cuore dell’umanità meticcia dell’isola, dissimulato nel bailamme gioioso del Carnevale dove folle in festa di corpi colorati di tutte le sfumature possibili si incrociano, toccano, danzano e si dimenano insieme. Ma attenzione: i “bianchi” presenti sono turisti, non locali. Questa integrazione apparente, questo meticciato è sì reale, frutto della storia dell’isola, ma al tempo stesso un teatro d’ombre ingannatore quanto al suo significato, perché i discendenti europei degli antichi coloni, i bianchi creoli chiamati békés, non ci sono,non si mescolano alle folle. Il crogiuolo umano le cui origini si diramano ai quattro angoli del globo, la fantasmagoria di esseri diversi accomunati dal calpestare la stessa terra, “sembra” una popolazione omogenea pur nella varietà dei fenotipi, ma non lo è. Le linee di faglia che si celano al suo interno e la frontiera che la separa da chi si colloca al suo esterno sono il secondo scheletro nell’armadio Martinica. Scheletri/veleni.

IL PRIMO SCHELETRO/VELENO

Ero in un tassì collettivo (li chiamano taxicò) alla volta di La Trinité e il tassista ascoltava il giornale radio di una emittente locale [1]. Mi colpì un termine mai sentito prima di allora: “chlordécone” ripetuto più volte. Finita la trasmissione, ne chiesi il significato. Il tassista mi disse che il chlordécone (clordecone in italiano) è un pesticida che è stato usato per molti anni in Martinica e in Guadalupa, le due isole principali delle Antille francesi, nelle piantagioni di banane, il che ha inquinato i terreni. Da quel giorno cominciai a fare domande a questo proposito ai miei contatti, ma dato che ero alla fine del viaggio mi ripromisi di ricercare su internet chiarimenti sulla natura e la genesi del problema una volta arrivata in Italia. Così ho scoperto l’ennesimo gravissimo ecocidio perpetrato scientemente sul pianeta azzurro, l’ennesimo attentato criminale alla salute di centinaia di migliaia di persone. Ecco di che si tratta.

Molecola di clordecone

Il clordecone è un insetticida organo-clorurato commercializzato sotto il nome di Kepone, Merex, o Curlone [2], classificato cancerogeno probabile e POP (perturbateur organique persistent), che nelle condizioni delle Antille -quantità utilizzate, durata dell’applicazione, natura dei suoli…- ha tempi di decadimento pari a 700 anni, e solo dopo un secolo divide per dieci la sua concentrazione. In Martinica il clordecone è stato applicato nelle piantagioni di banane per sterminare il punteruolo rosso della palma a dosi medie di 3 kg all’anno per ettaro. Appunto, la quantità la cui pericolosità sparirà fra sette secoli [3]. Si calcola che 300 tonnellate di clordecone siano state usate in Martinica dal 1972 al 1993, anno in cui la sostanza è stata finalmente vietata [4]. Ancora più scandaloso è sapere che il clordecone era stato vietato negli Stati Uniti già nel 1976, che in Francia era stato bandito nel 1990 ma una deroga di tre anni era stata concessa ai proprietari delle piantagioni, in gran parte bianchi creoli, e che dal canto suo la Commissione Europea, pur avendo affibbiato un’etichetta con teschio e tibie incrociate al prodotto commercializzato, lo ha bandito solo nel 2003 [5]. E prima del clordecone, a partire dal 1950, le piantagioni di banane avevano ricevuto chili di beta-HCH, poi insetticidi a base di aldrina e dieldrina, quindi lindano [6]. Negli orti privati e su altre coltivazioni è stato usato il Paraquat, commercializzato dal 1961 da ICI, l’attuale Syngenta [7], erbicida anche più tossico del clordecone, la cui pericolosità è nota sin dal 2003 ma la cui vendita e applicazione è stata autorizzata dalla Francia fino al 2007. La Martinica e la Guadalupa detengono il triste record dell’incidenza mondiale più alta di cancro della prostata; il 90% delle donne in gravidanza ha residui di clordecone nel sangue (articolo Libération citato).

I pesticidi hanno inquinato le acque dei fiumi, sono penetrati in profondità nei terreni coltivati e hanno contaminato i pascoli e quindi il latte vaccino, le carni bovine e i prodotti orticoli, in particolare i tuberi (igname, dachines [8], patate dolci). Le acque dei fiumi e torrenti scendendo a mare possono avere inquinato gli allevamenti di gamberi e persino i granchi marini della costa oceanica(ibid.). Interessante il fatto che tale sconquasso ecologico e sanitario sia stato reso di dominio pubblico quasi casualmente soltanto nel 2002, benché i rapporti sulla tossicità dei prodotti fitosanitari implicati si succedessero dal 1977 [9], in seguito ad una soffiata anonima che allertò la dogana francese e provocò analisi chimiche su una derrata di patate dolci provenienti dalla Martinica, avvelenate da clordecone. Paradossalmente, le banane sono le uniche a non essere contaminate, si puntualizza, a meno di non mangiarne la buccia!

Ora dal 2008 i Piani d’Azione per tentare di circoscrivere e limitare i danni si succedono (si è al terzo round); è stata elaborata una mappatura dei terreni agricoli dell’isola [10] identificandone le aree ancora indenni , e si delinea una strategia per la bonifica benché necessariamente parziale delle derrate alimentari, in primis le carni bovine, facendo pascolare gli armenti nelle zone sane [11] prima dell’abbattimento. Ma l’impatto sulla salute umana è tutto da verificare e si preannuncia gravissimo, dato che i perturbatori endocrini possono passare la barriera placentare e trasmettere alterazioni patologiche alle generazioni future. Veleni in paradiso.

 IL SECONDO SCHELETRO/VELENO

 

M. Bernard Hayot, la maggiore fortuna dell’isola, decorato dal presidente Sarkozy nel 2011

Mentre le molecole tossiche dei fitosanitari inquinano sottoterra, altre molecole forse altrettanto nocive e impalpabili circolano nel corpo sociale e creano fratture, risentimenti, conflitti e anomia, termine antitetico a “integrazione”, cioè l’opposto di quell’apparente armonica convivenza che il turista distratto percepisce.

Avevo visitato La Savane des Esclaves e il Museo de la Pagerie a Les Trois Ȋlets già nel 2017, musei che illustrano le efferatezze dell’impresa coloniale nell’isola, e ho riportato le mie impressioni nell’articolo in questo blog su Martinica e Guadalupa.[12] Ma allora non mi ero accorta di quanto la piaga della schiavitù fosse ancora fresca nella memoria collettiva, né di come avesse generato una segmentazione sociale ricalcata sulla sfumatura della carnagione. E di quanto rancore ancora covasse sotto le ceneri, comprensibilmente, se nel 2009 c’è stato chi, bianco creolo straricco, la più grande fortuna dell’isola, il signor Bernard Hayot, ha avuto il coraggio di affermare che “gli storici hanno esagerato, il colonialismo ha avuto i suoi lati buoni, dei coloni erano molto umani…” [13]

Era il 17 febbraio 2009 e un’inchiesta sul terreno del giornalista Romain Bolzinger dal titolo Les derniers maîtres de la Martinique, trasmessa il 30 gennaio da Canal+, aveva illustrato con cifre lo strapotere economico alleato alla spocchia razzista della maggior parte dei békés, gli eredi dei coloni sbarcati nel XVII secolo sull’isola. Un altro magnate béké, Alain Huyghues-Despointes, dichiarava “Nelle famiglie meticce i figli sono di colori diversi, non c’è armonia…Noi abbiamo voluto preservare la razza…” [14]

Posti davanti allo specchio ingranditore che rifletteva l’entità del dominio dei “padroni della Martinica”, la popolazione di colore insorse con una vera e propria rivolta generalizzata; per settimane ci furono cortei, saccheggi e scioperi protratti, sia in Guadalupa che in Martinica. Il grido predominante nelle manifestazioni tumultuose era: “La Martinica è nostra, non loro!”, dove “loro” erano gli odiati békés, che vivono appartati dal resto dei comuni mortali in quel che resta delle antiche proprietà terriere oppure nelle ville lussuose di una zona- enclave, Cap-Est, chiamata Békéland. Anche se esistono in Martinica dei bianchi creoli di condizioni modeste, rappresentano più un’eccezione che la regola [15] né contribuiscono a smussare la diffidenza e i rancori della maggioranza della popolazione meticcia e nera, discendente quest’ultima dal più recente flusso di manodopera importata direttamente dall’Africa dopo l’abolizione della schiavitù nel 1848 per il lavoro nelle habitations [16]. Con questo termine si designava il complesso della magione padronale, delle “cases-nègres” [17], dei giardini, orti e piantagione, incluso l’eventuale zuccherificio e la distilleria del rhum.  Un esempio di habitation si può visitare nella penisola della Tartane: sono le rovine dello Chateau Dubuc.

 

Rovine dello Chateau Dubuc, foto mia

Ci sono circa 3000 békés in Martinica e 400.000 creoli: l’1% scarso della popolazione possiede il 52% delle terre agricole e accaparra il 20% del PIL, controlla il 40% della grande distribuzione e ha in mano gran parte del settore agroalimentare e dell’importazione di auto [18]. Per più di 300 anni i békés hanno costituito un gruppo chiuso, endogamo, “hanno preservato la razza”, radiando irrevocabilmente dal loro seno chi sgarrava. Ho incontrato un signore in un bar che mi ha mostrato la foto di un suo amico béké, ripudiato dalla famiglia in quanto si era scoperto che nella sua genealogia c’era stato un incrocio con un “non bianco” e quindi lui poteva avere “una goccia di sangue nero”. Letterale.

Carnevale a Fort de France, foto mia

Le manifestazioni del 2009 rivelavano quindi un malessere profondo sia in Martinica che in Guadalupa inerenti alla stratificazione socio-razziale, analizzata in un bel saggio di Ulrike Zander nel n.11 della rivista francese Asylon del 2013 dal titolo eloquente: La gerarchia socio-razziale in Martinica tra persistenze postcoloniali e evoluzione verso il desiderio di vivere insieme [19]. Esiste tuttora una classificazione linguistica con termini che designano altrettante sfumature della carnagione: noir, mulâtre, métis, chabin, chabin kalazaza, coulis o kouli, capre, a seconda del tipo di “incrocio” genealogico, etichette che corrispondono per lo più a segmenti sociali in una piramide che vede al vertice “i grandi Békés”, diversi dai “piccoli Bèkés” anche chiamati béké guaiava, fondamentalmente dei poveracci. Gli chabins sono incroci tra mulatti e neri, i chabin kalazaza hanno la carnagione che tende al rossiccio, i kouli sono afro-indiani, i capre sono scuri ma con la pelle color cannella…[20]

Un caleidoscopio infernale, con caselle ben definite, a 170 anni dalla fine della schiavitù.

Credo che il futuro non potrà non sfociare nella costruzione di una umanità integralmente meticcia nella totalità dell’orbe terraqueo, pena l’estinzione per inedia culturale e morale della specie, ma certamente l’impresa sarà titanica: un compito ineludibile per i secoli a venire.

 

Mappa delle zone più o meno inquinate della Martinica, Plan d’Action 3

 

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