METAMORFOSI

Metamorfosi
di Mauro Antonio Miglieruolo

A guardarlo pareva un semideficiente, a sentirlo parlare ci si convinceva che lo fosse del tutto. Un po’ lo era, non quanto desse a vedere. Le cosine sue le sapeva articolare.
– Hai cicca? – faceva, e fingeva di spippettare portando medio e indice uniti alle labbra.


Quello che più colpiva spiacevolmente in lui era il colorito. Dava sul verde. Più o meno come gli asiatici danno sul giallo, cioè quasi niente. Era un’impressione, ché quasi non ci facevi caso se proprio non ponevi attenzione. Perché non era neppure verde (o giallo), ma una convenzione intorno a qualcosa di diverso che non sapevi come altro definire. Per farla breve il colore della pelle di quel tipo faceva pensare a un malato cronico, intossicato da un eccesso di attenzioni mediche.
– Cicca! Cicca! Cicca! – esclamava a ripetizione, il vizioso, fremendo, vizioso per vocazione, intemperante, non avrebbe fatto altro che prenderne di nuovi ed audaci. Cicca! Cicca! Allora gli allungavo la mia e per lui diventavo un padreterno, sebbene gli avessi rifilato solo un mozzicone.
Lo cacciavano da tutti i posti in cui cercava di intrufolarsi. Guardavano storto pure me, che ero ben vestito e pareva avessi la faccia giusta, perché a volte me lo portavo dietro e lo facevo bere e mangiare a sazietà.
– E’ un poco di buono, – commentavano le Signore allontanandosi schifate. Già, chissà quali ignobili malattie sessuali erano all’origine di quello strano colorito!
– E’ un ladro, un furfante! – facevano eco i commercianti vomitando furore ad ogni esclamazione. Non era un ladro, lui, lo garantisco. Non aveva il benché minimo interesse per le cose materiali o per i mezzi necessari a procurarseli. Si sfamava come/quando poteva, vestiva idem, i vizi li perdeva l’attimo dopo averli praticati, i desideri duravano meno del tempo che ci voleva a soddisfarli. A volte, però, era vinto dalla curiosità e metteva le mani su cose che non gli appartenevano. Le teneva qualche minuto (a volte qualche settimana), le rigirava da tutte le parti, le portava in bocca, quasi a verificarne la commestibilità e poi, distratto da un evento qualsiasi, le gettava via dimenticandosene all’istante. Anche se si trattava di oggetti di grande valore. Anche se l’attimo prima gli erano sembrate la necessità più impellente esistente al mondo.
A volte invece me le offriva in regalo.
– Prendi, – diceva guardando l’oggetto con rimpianto (lui ancora non l’aveva esaminato). – Bello questo.
Non cercava di ingraziarmisi. Esprimeva la propria gratitudine per le attenzioni di cui lo facevo oggetto.
Era davvero un tipo strano. Provava una specie di terrore inconsulto per gli autobus e poi lo si poteva ammirare mentre tentava di attaccarsi ai tram in corsa. Pareva non vi fosse nulla capace di interessarlo, e restava a bocca aperta davanti ai bambini in altalena. Si faceva le matte risate per un niente e piangeva se qualcuno gli rivolgeva una frase cortese. Rideva anche per i cartelloni pubblicitari che esponevano merci e femminone incredibili al naturale. Non ho mai capito cos’avesse da ridere, sebbene glielo chiedessi e lui cercasse di spiegarmelo.
Rispondeva con frasi del tipo: no buono manciare, oppure: freddo? freddo? niente freddo! Lo scriteriato, forse allo scopo di illuminare lo stupido che ero, nel pieno d’un freddo mattino d’inverno, si tolse lo straccio che fungeva da soprabito e coprì la femminastra nuda. Fu quella, probabilmente, l’unica volta in cui si guadagnò l’approvazione di esseri umani. Due vecchiette che avevano assistito alla buona azione, andarono in brodo di giuggiole e applaudirono. Lui si spaventò e scappò a gambe levate.
– Ma che fai? – gli dissi quando lo raggiunsi. – Copri il meglio del paesaggio?
– Vuoi donne tu? – rispose ridendo. – Subito, se vuoi.
– Anche il lenone fai? Oltre al rimbambito, anche il pappa?
– Vuoi ddroga? ssoldi?
– Soldi? Ma se non li hai per te!
– Prendere, – disse, indicando l’ingresso di una Banca. – Lì tanti.
Capacissimo di entrare e chiedere, con inaudita faccia tosta: centomilioni! Arrestavano lui e me, all’istante.
Una mazzetta di biglietti da centomila apparve tra le sue mani. Banconote nuove, fruscianti, fresche di stampa. Impallidii.
– Sei pazzo? Sei pazzo? Metti via quella roba!
Gettò la mazzetta in un cestino dei rifiuti. Compì il gesto con noncuranza degna di uno sceicco. Occristo! Una mazzetta di diecimilioni! Gettata via così! Fissai allupato la mazzetta. Udii il lontano risuonare d’una sirena. Non attesi di constatare di chi fosse, se d’un’ambulanza, dei pompieri o della polizia. Fui IO a quel punto a darmela a gambe.
Meglio non farsi trovare in prossimità di valori di cui non si poteva credibilmente dimostrare la proprietà
– Da dove vieni? – gli chiesi un giorno, così, tanto per parlare, per sentirlo incespicare sulle parole in quel suo modo buffo. “Uh! Uh!” fece battendosi il petto, tipo scimmione. Una lacrima sgorgò dai suoi occhi chiari, privi di ciglia e sopracciglia (un po’ repellente, vero?).
Attaccò il gran piatto di cannelloni che gli avevo ordinato. Gorgogliò di piacere. Alcune Signore lo fissarono con disapprovazione.
Interruppe il pasto per infilarsi le dita nel naso. Uno dei suoi tanti vezzi.
– Ohei! – sussurrai. – Ci sbattono fuori!
Ritirò le dita dal naso. Una volta, i primi tempi, scoreggiava pure, ma ora aveva imparato. Un bravo ragazzo, era, in fondo. Non era un vero deficiente. Era uno a cui non avevano insegnato nulla. Imparava in fretta, comunque. Molto in fretta. Peccato non averlo incontrato quand’era piccolo, ne sarebbe uscito un essere decente, probabile.
Divorò i cannelloni. Erano sei, giganteschi. Sei bocconi, in pratica. Li vidi passare per l’esofago e mi si bloccò il mio.
– Così non senti niente! – obiettai per la centesima volta. – Nessun sapore!
Ronfò di felicità. Adesso più che a uno scimmione somigliava a un gatto. Animalesco, l’amico.
Indicò il mio piatto. Gli porsi una forchettata, sostanziosa, adeguata ai suoi gusti (questa volta fui io a essere guardato con disapprovazione). Mandò giù al solito, senza masticare.
– Che stomaco hai? – chiesi. – Sei uno struzzo, o che?
Spalancò gli occhi e regalò all’universo un sorriso radioso. Avrei preferito non l’avesse fatto. Avrei preferito una smorfia o un insulto. Brutta dentiera, aveva. Nera, irregolare e smozzicata.
– Stru/uzo, – articolò. – Oh! Oh! Oh!
Ci si divertiva lui, lo scemo. Ridendo sputacchiò residui di cibo.
– Accidenti! – esclamai. – Vuoi farmi vomitare dallo schifo?
Tornò quieto.
Il cameriere portò un piatto di spaghetti anche a lui, e lui lo divorò all’istante, come aveva fatto con i cannelloni. Una cloaca era, non un uomo. Concluse il pasto con un rutto poderoso.
– Andiamocene, va, è meglio.
Chiesi il conto. Il cameriere parve felice. Si sbrigò in un attimo. Tanto avevamo solo coperto, vino e primi piatti.
Pagai. Uscimmo.
Verdino s’era portato dietro la mezza bottiglia di vino superstite. La seconda bottiglia di vino superstite. Me ne offrì.
– Un bicchiere a me basta, – l’informai.
E ne avevo bevuti due: per reggere meglio l’impatto col tipo!
Imparava lui, migliorava, ma aveva troppo arretrato da smaltire, cosicché non cessava mai di riservare sorprese (a parte quel suo carattere singolare). Sempre di nuove se ne inventava e pareva capace di tutto. Di tutto ciò che di disgustoso, di fisiologico, di corporale ed elementare potesse esprimere un essere umano.
Si attaccò alla bottiglia e la scolò tutta. Un intemperante, era. Un intemperante e un maleducato.
– Senti, – gli dissi. – Ti voglio bene. Sei un bravo ragazzo, lo si capisce che sei a posto. A parte quei tuoi piccoli furtarelli, non fai male a nessuno. Però esageri in disinvoltura. Non si può essere tanto asociali! Non così tanto. Va bene portare via la roba che serve, fregarsene delle buone maniere, non prendersela troppo calda, ma tu esageri: non fai che sbattere in faccia al prossimo la tua diversità. Per non parlare di come ti compiaci della tua fondamentale animalità, ricordando costantemente a tutti quella loro. E’ una cosa insopportabile, comprendi? Dopo tutto quello che hanno subito da piccoli per poter fingere di non esserlo più, fargli crollare ogni illusione è veramente crudele, per non dire pericoloso. Ti sbraneranno, se continui. Finirai per mettere nei guai anche me.
– Micropsia, – commentò staccandosi dalla bottiglia.
– Come?
– Micropsia…
Gettò lontano la bottiglia vuota e si frugò nelle tasche. Cioè, in quella specie di sacche che aveva per tasche (non ho parlato di come vestiva per carità di patria. Basterà dire che i suoi vestiti erano 3/4 misure più larghe del necessario). Ne trasse un libricino squinternato dal lungo uso. Un vocabolario filosofico! Caspiterina! Quel tipo non ne voleva proprio sapere di smettere di sorprendere.
Lo sfogliò rapidamente e me lo presentò a una certa pagina. Lessi. MICROPSIA. Alterazione patologica del senso della visione… gli oggetti sono percepito con dimensioni minori del vero.
Gli restituii il libro.
– Non mostrarlo a nessuno, – raccomandai. – Ti odierebbero di più. Non amano quelli che considerano stupidi e minacciano di rivelarsi più svegli di loro.
Scrollò le spalle.
– Non importanza, – sogghignò.
Ruttò ancora.
– Bisogno, – aggiunse. – Urge.
Tirò giù i calzoni e, prima ancora che potessi rendermi conto, la lasciò andare sul marciapiedi. Uno stronzo bello fumante, attorcigliato.
Non sapevo più come mettermi, dove mettere gli occhi e le mani.
– Io non ti conosco, – l’informai cercando la direzione giusta verso cui defilarmi.
– Sì, – annuì rialzandosi. – Non conosci.
La gente osservava esterrefatta. Qualcuno iniziò a sbraitare. Un vecchio minacciò col bastone. I cani si comportavano in quel modo, non gli uomini. Aveva ragione. Gli uomini, se non la fanno nel water, la fanno sulla faccia dei loro simili, mai su una pubblica proprietà.
Per un attimo fui tentato di profittarne per lanciare una qualche battuta scema del tipo: “perdonate, ma si è purgato stamattina”, oppure: “non diciamo tutti che questa città è un cesso?”, e una scrollata di spalle. Rinunciai. Le minacce facevano presto a trasformarsi in vie di fatto.
Passò una volante e la gente si agitò per attirarne l’attenzione. La volante si fermò. Scesero per constatare cosa vi fosse. Videro lo stronzo e noi che ci allontanavamo e afferrarono al volo. Risalirono e tornarono a marcia indietro. Non tentai di scappare. Non sarebbe servito a niente (sono lento) e avrei solo rischiato di beccarmi una pallottola nella schiena. Si fa presto a inciampare dentro una volante e impiombare qualcuno.
Sentii che me la stavo facendo sotto anche io.
– Non importanza, – ripeté lo zozzone. E aggiunse: – Finito tempo purgatorio. Ora metamorfosi.
– Ehi! Voi due! – Chiamarono gli agenti facendo segno di avvicinarsi.
Mi avvicinai.
– Anche il tuo amico…
– Non è mio amico.
– Quello che stava con te.
Lui continuò a camminare, indifferente, come se la cosa non lo riguardasse. E non lo riguardava, in effetti. Procedeva su una strada, verso una meta, che lo poneva su un livello estraneo al nostro. Gli agenti scesero e gli andarono dietro. Smise di muovere i piedi, ma non di procedere. Continuò scivolando apparentemente sull’asfalto. Gli abiti caddero in terra e fu nudo.
Nudo si ridusse a niente. Magrolino. Piccolino, tutto bello verde pallido. Solo le penne erano bianche.
– Fermati! – intimarono gli agenti. – Cosa stai combinando?
Li ignorò. Arruffò le penne, sbatté le ali. Si alzò di un palmo, di due, salì aldisopra dell’altezza dei cofani delle auto.
Gli agenti si fermarono. Aprirono la bocca. Non c’era altro da fare. Il tizio continuava a salire. Restarono lì a fissarlo con la bocca aperta. Tutti noi restammo lì a fissarlo con la bocca aperta, cercando di renderci conto, di capire se vedevamo effettivamente quel ritenevamo di vedere.
Il cagone continuò a salire, e salì, salì, sbattendo le ali, solenne, maestoso, andando incontro alla luce e alla libertà.
Sparì oltre l’orlo dei palazzi.
Richiusi la bocca e mi infilai in un vicolo.
Mcriopsia, pensavo, siamo tutti malati di micropsia.
Malattia cronica. Brutta malattia.
Domani già non avremmo più saputo di quel che avevamo visto.

Mauro Antonio Miglieruolo

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

  • questo bel racconto inaugura i merc-migl ovvero da oggi tutti i mercoledì saranno gestiti in autonomia da Mam ovvero Mauro Antonio Miglieruolo
    in a-s-s-o-l-u-t-a libertà
    (che ve lo dico a fà)
    neanche io, che sono il portiere dello stabile, so di cosa parlerà
    fantascienza (o dovremmo dire fantascienze?) e cosiddetto mondo reale, racconti o riflessioni, aforismi o saggi… penso di tutto un poco.
    uno, due o tre pezzi (intorno alle canoniche 00, 12 e 19) come gli parrà
    breve ticchettare di bacchette, pizzicco di contrabbasso, sax che sale per degnamente introdurre il mio BENVENUTO – in modo stabile – a Miglieruolo in questo asteroide
    (db)

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