«Mi piacevamo di più quando urlavamo…»

db racconta una serata a Bologna con Amiri Baraka

Il meglio del blog-bottega /256…. andando a ritroso nel tempo (*)

«La vera domanda non è come evitare di finire all’inferno, la vera domanda è come uscirne» (da una poesia di Amiri Baraka). «Mi piacevamo di più quando urlavamo e marciavamo concentrati per cambiare tutto» (idem).

«Grazie Bologna, continuate a indagare su Ustica» (Amiri Baraka, ieri sera a Bologna)  

Per il 33esimo anniversario della strage di Ustica, all’interno del progetto «Arte memoria viva» (promosso dall’Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica) a Bologna sono partite alcune iniziative, tutte a ingresso libero. La prima, all’Arena del sole, era ieri sera: «Amiri baraka word music». Poi una serie di appuntamenti al Parco della zucca cioè nello spazio antistante il «Museo per la memoria di Ustica»: il 3 luglio il teatro delle Albe presenta «Pantani»; il 10 luglio «The Plot is the Revolution» di Motus (in scena anche Judith Malina, storica presenza del Living Theatre); il 19 luglio i 4 progetti finalisti del «premio scenario per Ustica»; il 24 luglio «Creature» del Balletto Civile + Julia Kent; il 31 luglio «Italia Numbers», reading-concerto con Isabella Ragonese e Cristina Donà: per chiudere il 10 agosto – «la notte di San Lorenzo» – con una serata di poesia sotto le stelle… cadenti, come d’abitudine in quei giorni. Su www.museomemoriaustica.it altre informazioni.

Ieri sera sono stato a sentire (per la prima volta dal vivo, ero emozionatissimo) il vecchietto arzillissimo che ha scelto per nome Amiri Baraka; di lui ho parlato in blog altre volte e dunque rimando a quei post. Con lui sul palco quattro ottimi musicisti: Renè McLean al sax alto (soprattutto), D. D. Jackson (vero nome Robert Cleath Kai-Nien) al piano, William Parker al contrabbasso e Pheeroan akLaff alla batteria. Un reading-concerto che, come previsto, ha stregato le persone presenti. Baraka ha letto poesie vecchie e nuove; sullo schermo scorrevano le traduzioni di Franco Minganti e Giorgio Rimondi. Se nell’aprire la serata il bel documentario di Enza Negroni sul «museo della memoria» era stato forse troppo lirico e poco politico, poi Baraka ha saputo mostrare cosa significa mescolare arte, rabbia, militanza. Chiedendosi se Chavez è stato ucciso (come Arafat) e da chi; martellando contro l’odiato Bush; nominando un ambiguo «negro di legno» che poteva anche essere Obama; mettendo in guardia contro i succhiatori di sangue che dopo la Terra vogliono vampirizzare altri pianeti e anche dio («o chi per lui, lei, essi» ha detto Baraka, se la memoria non mi tradisce); ricordando John Coltrane e Bird (Charlie Parker); intrecciando e abbracciando Malcom X e Martin Luther King; saltando dall’oggi al passato più lontano e da una religione all’altra; invitandoci a lottare contro la Bestia (il diavolo parla inglese benissimo come lui aveva ricordato); ironizzando da par suo (e l’applauso in sala scatta quando ghigna: «se Elvis era il re, chi è James Brown, dio?»); ora incazzato e ora dolcissimo come quando trascina tutte/i in una specie di nuova genesi dove però lui è arrivato secondo, dopo una donna. Con voce e ritmo –  parlando, cantando, mugolando o in “scat” –  incantatori quanto inconfondibili.

Alla richiesta di un nuovo bis, Amiri Baraka (visibilmente stanco) è tornato sul palco e ha detto: «Grazie Bologna, continuate a cercare la verità su Ustica e sugli oppressori».

Non sapendo l’inglese ho perso molte battute, improvvisate lì per lì fra un pezzo e l’altro, ma spero ne dia conto chi ieri sera c’era e rideva. Posso però – e ringrazio Franco Minganti che ne è il traduttore – postare questa intensa «Mi piacevamo di più» (del 2012) che metteva i brividi ad ascoltarla e leggerla sul grande schermo ieri sera ma, almeno per me, anche a rileggerla oggi.

Mi piacevamo di più quando eravamo pronti a levare il pugno in aria. Mi piacevamo di più quando urlavamo e marciavamo concentrati per cambiare tutto. M piacevamo di più quando i bianchi non ci andavano poi tanto. Quando qualche dubbio almeno l’avevamo. M piacevamo di più quando viaggiavamo in grandi gruppi non bande così piccole ma grandi bande cazzute che minacciavano la gente che ancora ci minaccia. Quando li accusavamo della loro schiavitù, dei loro linciaggi e della loro affiliazione al [Ku Klux] Klan. Ora si sono levati la tunica e l’hanno infilata in quelle loro valigette del Partito Repubblicano quando vanno alla Camera dei Deputati. Ma chi rappresentano? Non noi, ma i nostri assassini, quelli che ci hanno ridotto in schiavitù, la stessa gente che ci ha trascinato in catene fin nel ventre di quelle navi.Mi piacevamo di più quando ce le ricordavamo queste cose e non ce ne stavamo solo lì a pregare certa gente che ci odia di poterci costituire parte civile il che non faranno mai e a quest’ora dovreste averlo capito.Da quanto tempo? 1619, 1719, 1819, 1919 (l’Estate Rossa). Tra sette anni sarà il 2019. Se non li conoscete ancora… non li conoscerete mai…Mi piacevamo di più quando agivamo come Rosa Parks? Sedersi dove? Be’, mi piacevamo di più quando agivamo come Nat Turner, ma poi la facevamo franca e ficcavamo quella pallottola in memoria di Trayvon Martin nell’automobile di qualcuno di Washington.Mi piacevamo di più quando agivamo come il grosso Robert Williams ed ero con lui mentre puntava la pistola sull’ambasciatore americano a Cuba intimandogli di inviare per davvero la polizia per proteggere i suoi familiari nel North Carolina. Mi piacevamo di più quando alcuni dei nostri più giovani erano anche fra i più cazzuti, quando Malcolm e Martin avevano ancora trent’anni e tenevano giuste concioni antirazziste, le più eccellenti al mondo. Tutti ci piacevamo di più allora. E c’è bisogno di rifletterci su. Presidente nero o no che sia, c’è bisogno che vi entri nel cervello che quel fratello è li per tenere tranquilli noi, che eravamo la nazione più militante, più incazzata di questa terra, col fuoco nell’anima e il fumo che ci usciva dagli occhi.E così ci siamo messi buoni e ci siamo persino inorgogliti per il velo di nero che i nostri nemici hanno steso sopra la vittima insanguinata della nostra oppressione che aleggia proprio davanti a noi proprio dentro di noi, nelle strade, nelle prigioni, nelle menzogne contorte dei carnefici, capaci persino di rubare i suoni dell’oppressione e autoconservarsi come reliquie in un Museo del Rock & Roll per mostrarci quanto siamo ignoranti. Mi piacevamo di più quando le prime parole che ci uscivano di bocca erano “Fuck Them!”

LE FOTO SONO DI FRANCO MINGANTI

In “bottega” cfr QUANDO È MORTO AMIRI BARAKA (di Pabuda), Un altro ricordo per Amiri Baraka (di Giorgio Rimondi) e ricordando Amiri Baraka (già Everett LeRoi Jones) ma anche due brevi testi (di db) La fragorosa invisibilità di Amiri Baraka e Su «Black Music» di Amiri Baraka (l’antologia di suoi scritti curata da Marcello Lorrai per Shake edizioni). Infine il suo testo Amiri Baraka: Griot/Djali… ripreso da «Amiri Baraka, ritratto dell’artista in nero»[Bacchilega editore, 304 pagine, 20 euri, a cura di Franco Minganti e Giorgio Rimondi]

(*) Anche quest’anno la “bottega” ha recuperato alcuni vecchi post che a rileggerli, anni dopo, sono sembrati interessanti. Il motivo? Un po’ perché oltre 17mila e 700 articoli (avete letto bene: 17 mila e 700) sono taaaaaaaaaaanti e si rischia di perdere la memoria dei più vecchi. E un po’ perché nel pieno dell’estate qualche collaborazione si liquefà: viva&viva il diritto alle vacanze che dovrebbe essere per tutte/i. Vecchi post dunque; recuperati con l’unico criterio di partire dalla coda ma valutando quali possono essere più attuali o spiazzanti. Il “meglio” è sempre soggettivo ma l’idea è soprattutto di ritrovare semi, ponti, pensieri perduti… in qualche caso accompagnati dalla bella scrittura, dall’inchiesta ben fatta, dalla riflessione intelligente: con le firme più varie, stili assai differenti e quel misto di serietà e ironia, di rabbia e speranza che – lo speriamo – caratterizza questa blottega, cioè blog-bottega. [db]

 

danieleB
Un piede nel mondo cosiddetto reale (dove ha fatto il giornalista, vive a Imola con Tiziana, ha un figlio di nome Jan) e un altro piede in quella che di solito si chiama fantascienza (ne ha scritto con Riccardo Mancini e Raffaele Mantegazza). Con il terzo e il quarto piede salta dal reale al fantastico: laboratori, giochi, letture sceniche. Potete trovarlo su pkdick@fastmail.it oppure a casa, allo 0542 29945; non usa il cellulare perché il suo guru, il suo psicologo, il suo estetista (e l’ornitorinco che sonnecchia in lui) hanno deciso che poteva nuocergli. Ha un simpatico omonimo che vive a Bologna. Spesso i due vengono confusi, è divertente per entrambi. Per entrambi funziona l’anagramma “ride bene a librai” (ma anche “erba, nidi e alberi” non è malaccio).

Un commento

  • L’ultima volta che l’ho visto, ascoltato, è stato all’Auditorium del Parco della Musica a Roma… Serata indimenticabile. Grazie per questo ricordo

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