Milano, quante storie

da «Corriere dell’immigrazione» (*)

C’è un «quartiere dai destini incrociati» che diventa una mostra (a Milano, sino al 19 ottobre) e un libro. L’una e l’altro hanno per sottotitolo «Due anni di scrittura creativa presso la biblioteca Dergano-Bovisa» e sono a cura di Mihai Mircea Butcovan e di Remo Cacciatori, con la collaborazione di Francesco Cosenza e Raffaele Taddeo che curano la prefazione del volume (Linea BN edizioni). La mostra è in via Baldinucci 76: per info francesco.cosenza@comune.milano.it oppure 02 88445361.

Il titolo e il metodo – semplificando un poco si tratta di una narrazione collettiva, epistolare – si rifanno a un vecchio (1973) libro di Italo Calvino, «Il castello dei destini incrociati», dove – «per qualche strana maledizione» – eroi ed eroine «hanno perduto la parola» e per narrare le loro vite solo possono «gettare sulla tavola le carte dei tarocchi»; sta poi a Calvino e a chi legge penetrare nelle storie e nelle anime. Un gioco vecchio ma sempre nuovo.

Volume e mostra nascono nel 2011 all’interno di «Ci vediamo tutti in biblioteca», un più ampio progetto Cariplo, frutto della collaborazione fra la biblioteca Dergano Bovisa e La Tenda, vivacissimo centro culturale multietnico. All’origine un corso, indirizzato a italiani e stranieri, per «intrecciare un mutuo scambio culturale attraverso promozione e valorizzazione dell’attività letteraria». Nei due anni hanno partecipato cittadini di origine libanese, peruviana, polacca, marocchina, cinese, romena, ecuadoregna e logicamente italiana.

La prima parte dell’antologia è dedicata a racconti ambientati nelle vie del quartiere milanese Bovisa, mentre la seconda è costituita da 37 racconti epistolari, la cui dinamica è illustrata proprio dalla mostra in corso, ma che si possono comunque leggere con gusto anche senza averla vista.

Il libro è arricchito dai racconti scritti, per questa occasione, da relatori e relatrici del corso: Christiana de Caldas Brito, Julio Monteiro Martins, Andrea Vitali, Erminia Dell’Oro e Barbara Garlaschelli; e dal racconto «Legalität» (tratto da «Vivere per addizione e altri viaggi» del 2010) di Carmine Abate.

Si è lavorato alla scrittura creativa puntando a promuovere e valorizzare l’attività letteraria degli stranieri di recente immigrazione e a coinvolgere italiani desiderosi di cimentarsi nello scrivere, ricercando «modalità di mutuo scambio e reciproca collaborazione». Non è un progetto improvvisato: da 20 anni nella biblioteca decine di scrittori “migranti” sono venuti a presentare i loro testi – editi e inediti – nei cicli di incontri chiamati «Narrativa nascente».

Gli stranieri coinvolti sono 19 su 40 iscritti. A fine corso i partecipanti attivi – quelli cioè che hanno prodotto almeno un racconto – sono stati 25 con 8 stranieri. Il 32% del totale rimane un dato molto superiore alla percentuale degli stranieri a Milano, che nel 2012 si aggirava intorno al 16-20% a seconda delle zone della città. «Questa forte presenza – spiegano gli organizzatori – si spiega con la capillare pubblicizzazione del progetto nei luoghi in cui la concentrazione degli stranieri era più alta e con il fatto che La Tenda (anche con la sua scuola di italiano) coinvolge ogni anno centinaia di stranieri. Può aver influito il fatto che in biblioteca gli immigrati trovano un luogo accogliente, libero dall’ossessiva burocrazia».

Il successo è tale da “costringere” la biblioteca al bis nel 2013. Nella seconda tappa gli iscritti sono quasi 60 e quelli che scrivono almeno un testo 38: di questi gli stranieri restano 8 (la percentuale scende ma si mantiene sopra il 20%).

Al solito più donne. «Non ci sono sorprese – chiariscono Butcovan e Cacciatori – con predominanza femminile sia nel primo (17 donne, 8 uomini) che nel secondo corso (28 contro 10). Alto il dato di “fidelizzazione”: 14 dei 25 partecipanti del primo ciclo si sono ripresentati al secondo». Inaspettato invece «il fatto che 24 nuovi cittadini si siano iscritti a un corso il cui obiettivo era scrivere insieme un romanzo epistolare».

Il successo induce la Tenda e la biblioteca di Dergano-Bovisa a tentare di programmare annualmente – nonostante le ristrettezze economiche in cui versano le amministrazioni pubbliche – un corso di scrittura creativa da proporre ogni autunno.

Ci si è accorti, con stupore misto a gioia, che già nel primo ciclo (11 incontri) i lavori prodotti – rielaborati in base ai consigli dei due relatori – potevano essere considerati degni di stampa. Nel secondo più breve ciclo (7 incontri) i partecipanti sono andati oltre ogni aspettativa, riuscendo a costruire un “romanzo” epistolare in cui il quartiere e i destini dei vari personaggi/scrittori si sono realmente intrecciati. Chi leggerà questo volume avrà modo di goderne ampiamente; e con l’occasione gli verrà voglia di leggere o rileggere il quasi omonimo libro di Calvino.

Se il mondo è sempre più meticcio e se dall’incontro fra diversi emerge il meglio, anche i due conduttori (l’italiano Cacciatori e il rumeno Butcovan) dovevano essere in coerenza. Con loro i già citati scrittori-scrittrici (Abate, de Caldas Brito, Dell’Oro, Garlaschelli, Martins, Vitali) ma anche altre e altri a partire da Gabriella Kuruvilla che ha presentato la sua antologia «Milano, fin qui tutto bene». Vi staste forse chiedendo se il titolo vi suona ironico… sì, lo è: Kuruvilla rimanda alla frase che apre il film «L’odio» (del 1995, regia di Mathieu Kassovitz) con un uomo che cade dal trentesimo piano e mentre precipita si dice, con macabra ironia, «fin qui tutto bene»; il problema non è la caduta ma l’atterraggio.

I racconti del primo corso sono apparsi sul sito di La Tenda e su due riviste on line: integralmente su «El Ghibli» e parzialmente su «Sagarana». Buona lettura a chi li sbircia ma… il volume in uscita è più completo e godurioso.

Gli organizzatori hanno fatto i conti con una (felice) sorpresa. «Alla fine del primo laboratorio di scrittura è nato un gruppo di lettura dove non mancano gli stranieri. Gli incontri si svolgono mensilmente e rappresentano uno degli appuntamenti più qualificanti della biblioteca». Così uno degli obiettivi richiesti dalla Fondazione Cariplo – raggiungere nuovo pubblico – è stato raggiunto. Non è poco.

Ecco alcuni stralci dell’introduzione di Mihai Butcovan e Remo Cacciatori alla prima parte del libro.

L’indice e la mappa

Impossessarsi di certe tecniche, utilizzarle senza soggezione, vedere sulla carta i significati che, quasi involontariamente, riescono a fissare, verificare sugli altri le reazioni che generano, sono alcune delle emozioni che può produrre un corso di scrittura creativa. Soprattutto se chi vi partecipa è libero dall’ansia di diventare scrittore ed è animato invece dal proposito di conoscersi e di conoscere. Così, ci pare, è accaduto nel nostro corso, pensato per italiani e stranieri con lo scopo di servirsi della scrittura per permettere a italiani e stranieri di esprimersi ed ascoltarsi. In questa direzione, finalizzata a creare il clima di una comunità interpretativa piuttosto che quello di un salotto erudito o di una competizione letteraria, grazie all’apporto di tutti è stato possibile confrontare, discutere i propri testi, oltre, naturalmente a quelli dei veri scrittori.

[…] Nel sito de “La Tenda”, che ospita l’intera documentazione del corso, i singoli testi sono raggiungibili attraverso la mappa del quartiere Bovisa, nelle cui vie e piazze, come in uno spazio vero e immaginario, anonimo e identitario allo stesso tempo, si svolgono i fatti narrati: cliccando su alcuni punti sensibili della carta digitale, appaiono storie, non si sa quali, non si sa di chi. Questo espediente ha una doppia valenza: da una parte offre ai racconti un comune contenitore, simulando nei casuali accostamenti dei testi nella mappa i casuali rapporti di vicinato delle persone nel quartiere. Dall’altra propone a chi visita il sito una peculiare modalità di lettura. Una mappa offre una quantità di informazioni tra loro simultanee, che tocca alla progettualità di chi la legge mettere in ordine. In un caso o nell’altro sulla scacchiera della cartina si vede bene che è il nome degli autori dei testi a venire volutamente penalizzato, quasi sia una variabile secondaria del gioco delle circostanze o del lettore.

E qui sta invece la novità, non da poco e per noi molto gratificante, della pubblicazione dei testi de «Il quartiere dei destini incrociati» su El Ghibli prima ed ora in volume. […] Il chi e il che cosa hanno preso il posto del dove e del come. […]

Questo timido ingresso nella vastissima sala d’attesa della letteratura non solo è provvisorio e inatteso, ma realizzato da veri e propri intrusi. I testi qui proposti, infatti, nelle intenzioni originarie, non dovevano essere pubblicati, ma costituire delle prove in funzione di testi più lunghi e organici da produrre a fine corso. Durante gli incontri erano stati dati degli esercizi, compiti a casa sugli argomenti trattati: era un modo per cimentarsi con alcune tecniche narrative, per familiarizzare con certi trucchi, per vedere l’effetto che potevano fare. Da parte dei curatori del corso ci si aspettava la semplice esecuzione di consegne, lavori incompleti, zoppicanti, incomprensibili senza le domande a cui facevano riferimento. È successo, invece, che, nella quasi totalità dei casi, quelle che dovevano essere semplici esercitazioni avevano una loro dignità formale e complessità semantica. Analizzati, discussi, a volte sottoposti a piccole varianti da parte del gruppo dei corsisti, questi pretesti diventavano testi, brevi ma autonomi racconti che stavano in piedi senza l’impalcatura dell’esercizio da cui erano partiti. Camminavano sulle loro gambe. Era successo che sollecitazioni esterne avevano toccato istanze interne, nascoste, inibite, smosso desideri, bisogni. E così venivano a galla storie, che, invece di essere risposte a richieste da manuale scolastico, ponevano ai lettori altre domande, altre richieste ben più coinvolgenti. A volte a sorprendere era un intero racconto, a volte un giro di frase inaspettato, una parola. La rinuncia intenzionale a un criterio selettivo, che non guidava a scegliere il testo migliore ma a cercare ciò che di buono c’era in ogni testo, ha senz’altro aiutato a mettere tutti a loro agio. Ed è questo l’atteggiamento che, nel nuovo contesto del volume pubblicato dalla Biblioteca Dergano-Bovisa, può permettere di apprezzare questi brevi racconti, disomogenei nella qualità, ma accomunati dalla stessa ricerca di autenticità e dalla tonalità dimessa e autoironica di chi, anche quando esercita una critica impietosa alla realtà sociale che racconta, sa non prendersi troppo sul serio.

La Bovisa, storico territorio operaio e industriale ora alla ricerca di nuove identità, è stato l’argomento di molti testi, animati dal bisogno di testimonianza e dalla spinta della memoria, divisa tra nostalgia e indignazione; ma spesso gli spazi del quartiere (i suoi negozi, i suoi condomini, la biblioteca, la stazione…) hanno fornito semplicemente lo sfondo per piccole epifanie del quotidiano, incentrate sulle relazioni familiari, sui conflitti di lavoro, su lampi del ricordo, su ritratti di gente comune.

E qui la nostra attenzione si rivolge ai testi di autori stranieri, che durante il corso hanno affidato per la prima volta le loro storie alla lingua italiana. Raccontare se stesso con la lingua dell’altro significa entrare in territori dai confini insicuri, che i manuali di grammatica non possono disegnare, significa adattare i propri pensieri in stampi linguistici inadeguati, esprimere i propri valori in un sistema simbolico grossolano, perché non ci appartiene. Tutto questo comporta una scelta coraggiosa e un atto di fiducia nell’altro, che meritano rispetto, suscitano sempre interesse e aprono nuovi spazi di confronto, per capire ciò che ci divide, cercare ciò che ci può unire e arricchire la nostra convivenza, non solo con gli stranieri, ma tra noi italiani.

Su questo fronte moltissime sono ancora le cose da fare. Per questo «Il quartiere dei destini incrociati» potrebbe essere un modello da esportare, o almeno un metodo da approfondire. Senz’altro, per tutti noi, è un’esperienza da continuare.

Ed ecco stralci (sempre di Butcovan e Cacciatori) che introducono la seconda parte del libro

[…]lesperienza del 2012 andava continuata. Si era creato un clima di amicizia, di reciproco rispetto e interesse che non si poteva disperdere. E poi c’era come una sfida da portare avanti: il corso di scrittura era stato un’esperienza collettiva, uno scambio di storie condivise più che una serie di prove individuali, interromperlo era come lasciare una chiacchierata a metà.

[…] l’idea era di lavorare maggiormente su quel «incrociati». I racconti del primo corso, tutti ambientati nello stesso spazio cittadino, si incrociavano nei condomini, nelle piazze e nelle vie della Bovisa. Adesso, però, dovevamo trovare qualcosa di più radicale, che ci mettesse ancora più in gioco. Da qui l’idea di scrivere racconti epistolari, la forma narrativa che più di qualsiasi altra postula e simula il dialogo. O il conflitto. Ogni lettera ha bisogno dell’altro, a cui si rivolge, per chiedere un incontro, un aiuto, per esprimere un dissapore, una rimostranza. Avevamo per le mani uno strumento dalle forti potenzialità, un consolidato telaio per intrecciare storie. A questo punto dovevamo soltanto usarlo tanto bene da fare meglio dell’anno precedente. E per fare questo, non bastava avere trovato il genere narrativo da sperimentare, bisognava truccarne il motore, per aumentarne la potenza.

[…] Dal momento che al corso i potenziali scrittori erano più di quaranta, tanti quanti gli iscritti, che cosa sarebbe successo se alla moltiplicazione dei mittenti e destinatari immaginari delle lettere si fosse mescolata quella degli autori? Se ciascuno dei corsisti avesse avuto il diritto di assumere i panni di un personaggio creato da un altro corsista? Sì: ogni autore avrebbe potuto diventare il personaggio di un altro autore, interferire liberamente nelle strategie narrative dell’altro, aprendo storie che altri avevano pensato di chiudere, viceversa bloccando trame che però riprendevano vita in modi inattesi o addirittura indesiderati. Certo, era possibile che l’intreccio di certe lettere procedesse secondo la traiettoria voluta, ma l’autore sapeva che in agguato potevano esserci ad ogni tappa personaggi e situazioni spiazzanti, voci che si spacciavano per sue e fraintendevano contesti, introducevano registri linguistici, che alle sue orecchie suonavano stonati. O, magari, interpretavano correttamente le sue intenzioni, coglievano quello che non si era accorto di aver detto. Insomma, ciascuno poteva entrare a gamba tesa nel gioco dell’altro: era il modo che avevamo trovato per “incrociare” i destini, per fare venire alla luce le differenze, provocare contraddizioni. Era un esperimento di scrittura collettiva, che avrebbe prodotto un “romanzo” costituito da una serie di racconti a più mani, ciascuna delle quali, però, agiva all’insaputa dell’altra.

Per un gioco così scorretto bisognava introdurre regole altrettanto anomale e sconvenienti.

La prima fu l’anonimato: all’inizio del corso si era scelto di non fare nessuna presentazione. I corsisti non conoscevano l’identità dell’autore delle lettere che ad ogni incontro leggevamo, che erano a disposizione di tutti in forma digitale o cartacea e a cui tutti potevano, anonimamente, rispondere. Gli stessi coordinatori, pur conoscendo i nomi degli autori, non sapevano a quali volti associarli.

La seconda è stato il rispetto della spontaneità della scrittura. L’attenzione del gruppo dei corsisti era spostata sulle dinamiche relazionali che emergevano dalle lettere piuttosto che sulle loro qualità formali. Il testo epistolare è un genere intimo, che spesso ha imitato quello autobiografico e alcune di queste lettere, per ammissione degli autori, sono vere, hanno mittenti e destinatari reali, anche se sono stati camuffati. Anche per questo le proposte di modifica fatte dai coordinatori sono state minime, e quasi nulle le “lezioni” sulle tecniche narrative.

Un accenno a parte va fatto per l’intelligente e apprezzato intervento della scrittrice Christiana de Caldas Brito, che, chiamata poi in ballo nel gioco delle lettere, ha a sua volta risposto a una.

La terza sregolata regola del corso di quest’anno è stato il numero aperto degli iscritti, che ha avuto una media di frequentanti sulla trentina, sempre italiani e stranieri, anche se quest’anno gli stranieri erano in netta minoranza. Alcuni di loro si sono limitati ad ascoltare, non tutti si sono cimentati nella scrittura, ma il loro numero, per nostra scelta, era decisamente superiore a quello di un corso tradizionale di scrittura creativa, mirato a una formazione di tipo individuale.

[…] collimazione, perché alla fine di questo si trattava: tenere insieme il tutto. Non era solo il bisogno di ordinare in un improbabile “romanzo” la inevitabile frammentarietà, che noi stessi avevamo voluto, nel tentativo di dare cittadinanza alle voci di tutti. In quello che avevamo prodotto c’era l’implicito desiderio di dare espressione a un impegno condiviso, perché tutte quelle singole voci non volevano parlare da sole. Il denominatore comune non poteva essere un tema, perché le lettere ne avevano tanti. Si è pensato, come nei romanzi epistolari tradizionali, a una situazione pretesto, tipo l’amico che trova nel baule la corrispondenza di chi non c’è più o qualcosa del genere. L’idea è piaciuta, ma, anche qui, alla fine sono uscite tante storie, tutte divertenti, tutte divergenti: pacchi di lettere raccolte da ladri sentimentali, epistole scoperte in futuribili ricerche archeologiche… Quello che doveva essere un contenitore, si è trasformato in un altro strumento di proliferazione del senso, in tante fantasiose scatole in cui collocare, nella massima libertà creativa, i disordinati tasselli del corso.

Alla fine, quasi casualmente, tra tante invenzioni, è emersa una storia vera, che parlava di persone che a New York avevano cercato nelle macerie delle Torri Gemelle tracce di identità perdute. Subito, a tutti, è sembrato di poterci riconoscere in questa testimonianza. Non era un tema e neppure una forma che avrebbe potuto tenere insieme il senso del nostro lavoro, ma una volontà, una tensione. Quel testo avrebbe aperto il volume. Nella frammentarietà, nell’incongruenza delle nostre storie irrisolte anche noi cercavamo, seppur gioiosamente, segnali di autenticità e di coerenza. Un valore postumo. Come quello che cerchiamo nella letteratura vera.

(*) questa mia recensione è uscita, con i brani di Butcovan e Cacciatori, su «Corriere dell’immigrazione» (db)

 

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