Narrator in Fabula – 19

dove Vincent Spasaro incontra Giulio Leoni (*)

GiulioLeoni

Se non conoscete Giulio Leoni, non continuate a leggere questa intervista. Andate a comprare subito uno dei suoi gialli storici che affascinano il pubblico di tutto il mondo, sedetevi, leggete e poi riaccendete il computer.

Ma ritengo quasi impossibile che non abbiate avuto fra le mani un testo di Giulio Leoni e che non siate suoi fan. Quindi, piuttosto che cimentarmi nell’ardua impresa di riassumere la sua carriera lunga e multiforme, vi accompagno nella super intervista che gentilmente ha concesso e lascio parlare lui.

Mi piacerebbe conoscere il tuo approccio con la lettura da bambino.

«Non sono stato un lettore precoce, ho imparato solo in prima elementare. Però poi sono stato velocissimo: a Natale leggevo già i romanzi di Salgari appartenuti a un mio zio. L’ambiente mi ha spinto sicuramente verso la lettura: vivevo in un palazzo della vecchia Roma, in cui ero l’unico bambino e a quei tempi l’andare a giocare in strada era proibito per i figli delle famiglie borghesi. Per fortuna però in casa esisteva, grazie appunto allo zio di cui sopra, un’ampia raccolta di romanzi in edizione anteguerra, Salgari, Motta, Verne che, insieme con i fascicoli Nerbini di Petrosino e Buffalo Bill, ha costituito il mio ingresso nel mondo fantastico dell’avventura.

Ma devo confessare che il libro che più mi intrigò in quei primi anni fu un’edizione illustrata delle “Mille e una notte”, sempre di Nerbini, che conservo tuttora come un cimelio».

Com’è trascorsa la tua infanzia? Hai accumulato e vissuto storie che poi hai riversato in qualche maniera nei romanzi?

«Sì. A fronte di inverni di segregazione e di dura scuola in un istituto di Salesiani, le estati nei luoghi di villeggiatura erano meravigliose finestre su un mondo di libertà oggi forse impensabile. Noi ragazzi eravamo liberi di scorrazzare dalla mattina alla sera, senza nessun controllo in un clima da Via Pal: denso di scontri, sassaiole e tiro di frecce tra bande rivali. Ho costruito fortini del West, zattere per solcare marane, capanne sugli alberi, mi sono innamorato delle sorelle dei miei amici, e insomma tutte quello che un bravo bambino non doveva fare. Non giocavo ai pirati, ero un pirata. Queste esperienze mi hanno segnato, orientando poi tutto il mio lavoro di adulto verso la continua ricerca dell’Isola del Tesoro».

Come ti sei avvicinato alla scrittura?

«Ho cominciato a scrivere durante l’adolescenza, all’inizio essenzialmente poesie. Successivamente mi sono interessato di critica e saggistica varia, poi finalmente sono passato alla narrativa vera e propria».

E gli anni dell’università? Quanto ha influito il tuo percorso di laurea nelle scelte future?

«Direi piuttosto che il corso di laurea fu scelto in base a quelli che sentivo essere i miei interessi già nel corso del liceo. Avere a che fare con i pensieri e le parole degli uomini, in ogni loro forma. Lettere mi sembrò la facoltà che me lo avrebbe meglio permesso. Nonostante tutto, la consiglio ancora: non come fonte di un lavoro certo, ma come fonte di felicità».

Hai dapprincipio percorso le strade della sperimentazione e della poesia per poi avvicinarti al romanzo di genere. In teoria due approcci molto distanti. Vuoi raccontare queste esperienze e le differenti emozioni che ti hanno regalato?

«Come ti dicevo, dapprima tutti miei interessi si concentrarono sulla poesia: erano gli anni del Gruppo 63 e delle neoavanguardie, e per un giovanissimo poeta sembrava un mondo meraviglioso di continue scoperte e di possibilità illimitate. Ognuno in quegli anni si sentiva chiamato a riformulare il mondo e a trovare le forme di quella che doveva essere la poesia dell’assoluta modernità. Era il tempo dei reading e degli happening, in cui una nuova, anzi Novissima generazione si stava facendo largo nel mondo dell’arte. Era un clima effervescente che credo abbia profondamente segnato chiunque si sia trovato a viverlo. Forse per trovare qualcosa di simile bisogna tornare indietro agli anni Venti. Una stagione che non durò molto, poi schiacciata dai cupi anni Settanta e dagli anni di piombo, e purtroppo ormai irripetibile. Tutte esperienze che però, una volta metabolizzate negli anni successivi, a poco a poco si sono trasformate in una nuova esigenza di raccontare, e la forma romanzo di genere – che vuole dire in realtà molte cose – mi è sembrata quella più adatta per dare corpo ai miei fantasmi».

Hai insegnato scrittura creativa all’università. Cosa pensi della creatività? Il talento può essere insegnato o c’è qualcosa che sfugge all’apprendimento? Cosa pensi dei corsi di scrittura che oggi proliferano?

«La creatività è figlia soprattutto dell’immaginazione e questa deriva da una sovraeccitazione della mente che è quasi sicuramente congenita. Non può essere insegnata, ma può essere educata e “tirata fuori” là dove già esiste in potenza. Per questo la regola principe è quella della bottega rinascimentale: studiare i maestri e all’inizio fare come loro. Poi, a poco a poco, si conquisterà uno stile proprio che diventerà sempre più marcato fino alla conquista dell’originalità. Questo percorso sarà più o meno breve in ragione della propria bravura, ma è la strada che tutti devono percorrere. Quanto alle scuole di scrittura, mah. Male non fanno ma, ripeto, la vera scuola è la semplice lettura-studio delle opere dei maestri».

Quali sono i tuoi autori preferiti?

«Moltissimi, tutti quelli che mi hanno insegnato qualcosa. Sarebbero di sicuro centinaia, se mi mettessi a cercare di ricordarli tutti. E per uno scrittore sono maestri tutti, dalla pagina di un fumetto alla frase originale del postino. Quelli che comunque rileggo sempre volentieri sono Thomas Mann, Greene e Proust, per motivi diversissimi ma sempre con soddisfazione».  

Cosa stai leggendo adesso?

«Sto leggendo un libro stravagante, Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay, di Michael Chabron. Una storia di illusionisti e di illusioni, molto divertente. Lo consiglio senz’altro a chi ama gli spettacoli e il mondo della magia».

Nel tempo hai spaziato dal giallo classico al fantasy. Come fai a cambiare così facilmente genere e quali rimandi hai da ciascuno?

«In realtà io ho un solo modo di scrivere che poi applico ai diversi generi senza modificarlo in modo particolare. Una storia deve rispondere ad alcune esigenze della nostra psiche, che sono sempre le stesse a prescindere dal genere trattato. Le differenze stanno soltanto nella maggiore o minore libertà con cui si può dare corso alla fantasia».

Hai scritto cicli romanzeschi famosissimi. Come intendi la scrittura seriale?

«La scrittura seriale in realtà non esiste se non nelle sue versioni più trite e commerciali. Negli altri casi si tratta semplicemente di un lungo, articolato racconto a puntate, in cui personaggi e protagonisti ritornano perché non hanno ancora esaurito il loro ciclo di storie. Questa è la serialità “buona”, quella che poi si esaurisce naturalmente quando il narratore sente di aver raccontato tutto quello che c’era da dire. L’altra, quella commerciale, è forzata, magari dettata dal semplice momentaneo successo di una storia e di un personaggio, e dal desiderio di sfruttare l’onda favorevole senza preoccuparsi troppo di pensare a qualcosa di nuovo. È comprensibile, perché anche gli scrittori devono mangiare, ma in genere non va mai troppo lontano. C’è un metodo semplice per distinguerle: in quella buona le “puntate” successive sono migliori della prima, mentre nella serialità commerciale avviene il contrario».

E i tuoi scritti fantasy sotto pseudonimo? Una parte di Giulio che si è rivelata solo da poco tempo.

«Usai lo pseudonimo solo perché, a seguito di una serie di ritardi editoriali, in quel tempo stavano per uscire tre miei scritti contemporaneamente e, d’accordo con l’editore, si decise di “velarne” uno. Un velo molto tenue, che infatti si lacerò immediatamente, senza che io facessi niente per impedirlo. Anche perché sono particolarmente orgoglioso dei “Canti di Anharra”, e non mi dispiacque affatto che mi venissero presto attribuiti. Si tratta di un fantasy sui generis, in cui ho provato a riprendere in realtà l’antica formula del poema in prosa. Come tutte le opere sperimentali non ebbe un grande successo presso gli appassionati, ma il giudizio di chi lo ha capito mi ha del tutto compensato».

Quali sono i tuoi autori preferiti nella letteratura fantastica?

«Ho gusti molto tradizionali: Borges, Marquez e sul lato horror Lovecraft e Howard».

Giallo, mistero e horror. Mi pare che nella tua vasta produzione questi generi abbiano un rilievo particolare. Come intendi il mistero?

«Il mistero è l’elemento fondamentale di ogni racconto, perché è l’elemento fondamentale della vita. La narrazione stessa nasce dalla necessità di trovare una risposta ai perché dell’esistenza, fornendo quelle risposte che la scienza non riesce a dare. La narrazione ci svela il come e il perché: perché ci innamoriamo, perché soffriamo, perché siamo vili o coraggiosi. E quando pensiamo di aver capito e di sapere tutto, la narrazione ci pone davanti nuovi misteri, e ricominciamo da capo. Ma nella narrazione il mistero, per essere tale, non deve mai essere banale ignoranza. Ha bisogno di spessore e soprattutto di accettazione da parte del lettore, che deve voler entrare in questo gioco di nascondimento e di rivelazione, come il bambino che si diverte a veder sparire e poi riapparire il volto della madre dietro lo schermo delle mani».

Come pensi si debba e possa evolvere la narrativa di genere?

«La narrativa di genere ha resistito bene alla sfide del cinema, fornendo anzi al suo giovane rivale temi e personaggi per molti anni. Ma adesso trova un competitor sempre più forte nelle serie televisive, che stanno rovesciando la situazione. Al punto che ormai molti romanzi appaiono più simili a una novelization che a un’opera originale. Penso che ineluttabilmente il racconto di genere standard si trasferirà sempre più sui teleschermi: sulla carta resteranno meno opere, ma forse più curate e originali, importanti e destinate a durare».

Sei uno degli autori italiani più pubblicati nel mondo. Cosa pensi dell’attuale mercato editoriale mondiale?

«È nel pieno di un passaggio epocale, simile a quello seguito all’introduzione della stampa a caratteri mobili. Mi sembra sovradimensionato rispetto al mercato dei lettori, e le continue fusioni e acquisizioni lo confermano. Bisognerà aspettare che la tempesta si calmi, per valutare a fondo vantaggi e danni della transizione».

Puoi raccontarci qualche aneddoto relativo ai tuoi romanzi, alla loro ispirazione/costruzione o alla loro diffusione nel mondo?

«Uno per tutti, che mi è carissimo. Ero alla presentazione di uno dei romanzi della serie dantesca, quando alla fine mi si è avvicinata una ragazza, studentessa universitaria. Mi ha chiesto di firmare il volume e poi, con un po’ di incertezza, mi ha chiesto: “Ma davvero Dante ha fatto l’investigatore?”. Che per un attimo una persona intelligente e colta possa aver avuto il dubbio che quello che avevo narrato fosse vero, è il più bel complimento all’autore e all’opera che si potesse immaginare».

Ti va di raccontarci la tua ultima opera, “L’occhio Di Dio”, un romanzo storico con protagonista Galileo Galilei?

«Quasi impossibile: è forse il mio romanzo più complesso quanto a trama, al punto che io stesso mi sono trovato in difficoltà a scrivere il sunto di copertina. Diciamo che è un romanzo di scienza, di guerra e di amore, di dolcezza e di ferocia, in cui la mente lucida di Galileo si trova a battagliare con una donna bellissima e soprattutto in grado di tenergli testa proprio in quel campo in cui lui si ritiene più forte. Ma è anche il romanzo di una città straordinaria, Palmanova, eretta intorno a un sogno geometrico e divenuta insieme un grande teatro di illusioni e lo sfondo per una guerra forse mai terminata».

Nel libro si narra di scontro fra cristianità e islam. Come pensi che possano evolversi i rapporti fra Oriente e Occidente alla luce dei recenti fatti di sangue?

«Il problema non è lo scontro tra Cristianesimo e Islam: come tutti i fatti storici, anche le religioni hanno la loro evoluzione, e prima o poi le differenze si smusseranno e diverranno meno critiche. Il problema è il conflitto ben più profondo tra Occidente e Oriente: e in questo io la penso come Kipling, che aveva una buona esperienza di entrambi i mondi: OH, East is East, and West is West, and never the twain shall meet».

Il futuro di Giulio Leoni.

«Un altro romanzo, naturalmente. Ma prima una serie di racconti lunghi intorno ai misteri dell’Italia fra le due guerre. Perché l’Italia, anche se non sembra, è davvero una delle terre più straordinarie e misteriose.

(*) In un primo ciclo di «Narrator in Fabula» – 14 settimane – Vincent Spasaro ha intervistato per codesto blog/bottega autori&autrici, editor, traduttori, editori dalle parti del fantastico, della fantascienza, dell’orrore e di tutto quel che si trova in “qualche altra realtà”… alla ricerca di profili, gusti, regole-eccezioni, modo di lavorare, misteri e se possibile anche del loro mondo interiore. I nomi? Danilo Arona, Clelia Farris, Fabio Lastrucci, Claudio Vergnani, Massimo Soumaré, Sandro Pergameno, Maurizio Cometto, Lorenza Ghinelli, Massimo Citi, Gordiano Lupi, Silvia Castoldi, Lorenzo Mazzoni, Giuseppe Lippi e Cristiana Astori. «Non finisce lì» aveva giurato Spasaro. Ed ecco il secondo ciclo: dopo Angelo Marenzana, Gian Filippo Pizzo, Edoardo Rosati, Luca Barbieri e oggi Giulio Leoni toccherà, fra 7 giorni (non ci sono feste che tengano… per Thor, Shiva e Zeus) a Michele Tetro. Poi, in disordine alfabetico e comunque non in quest’ordine, ad Alberto Panicucci, Massimo Maugeri, Sergio Altieri, Sabina Guidotti, Stefano Di Marino, Francesco Troccoli, Silvio Sosio ma anche un paio di giovanissim* e “mostri sacri”. Così mi sono seduto qui – e lo stesso spero per tutte/i voi – sulla riva del blog, sgranocchiando arachidi, per leggermi altre 14 puntate… almeno: anzi se fate bene i conti già vedete che siamo oltre. D’altronde quando Vincent era piccolo ed era sull’uscio, sua mamma non gli diceva – come da copione – «sei qui intorno a giocare?» oppure «torni presto?» ma «vai oltre anche oggi?». Un destino da oltrista per la fortuna di chi legge queste bellissime interviste. (db)

 

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