Narrator in Fabula – 32

     dove Vincent Spasaro incontra Gianfranco Nerozzi (*)

Spasaro-NEROZZI

Il Nero, cioè Gianfranco Nerozzi, è uno dei più importanti scrittori di genere del nostro Paese. Con il suo nome o sotto pseudonimo ha infestato i sogni di molti lettori grazie a horror e thriller di grande impatto. È inoltre pittore, musicista e marzialista. Lasciamogli la parola: scoprirete che, oltre a essere simpaticissimo e ad avere tanto da raccontare, è uno che non ve le manda certo a dire. Facciamo due passi nel buio. Seguitemi e attenti a non battere la testa.

Mi farebbe piacere conoscere il tuo approccio alla lettura. A che età e in che situazione ti sei innamorato dei libri, in che contesto familiare e sociale?

«Io ho perso mio padre quando avevo appena quattro anni e mezzo. E mi sono serviti da subito rifugi dove stare per ripararmi un poco, personaggi da indossare, come armature della fantasia contro i mostri che incombono. Non ero ancora in grado di leggere da solo a quell’età. Così costringevo mia madre a farlo per me, con me, recitando ad alta voce qualche capitolo di qualcosa, tutte le volte che poteva. Perdermi dentro la storia di un libro (ma anche in un fumetto) è stata quindi per me soprattutto un’esigenza, oltre che una necessità assoluta, qualcosa che dovevo fare per forza per tornare a guardare il cielo senza sentire paura. Quello per i libri è stato quindi un amore necessario, come tutti gli amori che si rispettano: una forma di sopravvivenza, nata da subito, in un modo istintivo e allo stesso tempo macinata con il cuore e con la mente nel mulino (nero) della mia creatività interiore. Entravo dentro a mondi fantastici, paralleli da morire, respiravo atmosfere diverse, vivevo storie e ne immaginavo di nuove. Combattevo così i mostri del dolore. Sognando avventure impossibili. E mi sentivo un eroe invincibile, nonostante il vuoto».

Sei cresciuto in Emilia e in qualche modo i tuoi romanzi fanno spesso riferimento a questa terra. È un luogo che ti ha segnato per il magma culturale che si respirava anni fa? E come la vedi oggi?

«Amo la mia terra e la mia gente. Nel bene e nel male. Ambientare i miei romanzi in Emilia è stata soprattutto una necessità concettuale, ma non solo. Esplorare i nostri luoghi oscuri, credo sia importante per capire il senso di quello che siamo, di quello che vorremmo diventare. Poi Bologna nella fattispecie è sempre stata una città incredibilmente stimolante. Straordinaria, sotto molti aspetti. Io che vengo dall’ambiente musicale, prima che da quello letterario, lo so molto bene. Quando ero un musicista rock con i capelli lunghi fino al culo e battevo come un forsennato sopra ai tamburi di una batteria e componevo canzoni, mi guardavo attorno e vedevo balenare scintille di rivoluzione culturale dappertutto, e, se allora aprivi la bocca, respiravi in automatico desiderio di libertà, voglia di cambiare le cose a ogni costo. Gli anni settanta, gli anni ottanta… Con tutti gli splendori e gli orrori da superare. Poi gli anni novanta. La rivoluzione portata avanti da un manipolo di scrittori di genere che sono riusciti a sovvertire l’ordine costituito, dimostrando che si poteva scrivere una storia made in italy degna di essere vissuta. Non so se ricordi il Gruppo 13, gloriosa compagine di scalmanati pionieri della scrittura senza arte ne parte… Un contagio creativo che è partito da noi per poi propagarsi ad altre città. La nascita della scuola milanese, la scuola romana, oltre a quella bolognese. Contro tutte le altre “scuole” del mondo. La dimostrazione che potevamo essere all’altezza. Sono fiero e onorato di aver fatto parte (attiva) di questa rivoluzione generazionale. Allora si cercava comunque di lottare contro le cose che non andavano bene. Il senso di speranza, la redenzione, il desiderio di cambiare, la facevano da padrone. Poi queste priorità artistiche si sono un poco spente, nelle nuove generazioni. O forse sono mutate in un qualcosa d’altro che spero con tutto il cuore non sia una forma di rassegnazione. Oggi come oggi, quindi, la vedo male. Ma forse è solo perché sono invecchiato, ed è normale dire: ai miei tempi sì che… Sono invecchiato, proprio così, e ho bisogno degli occhiali da vicino per leggere… Eh! Quindi dai, non chiedermi mai più come la vedo, giovinastro che non sei altro».

Quali sono state le tue letture da giovane? Cosa prediligi adesso?

«Io leggo di tutto. Adesso come allora. E prediligo qualunque romanzo che mi possa far battere il cuore e provare un brivido. Non solo di paura. Un brivido e basta».

Se dovessimo entrare in libreria domani, cosa ci consiglieresti?

«Oltre che tutti i miei libri? Consiglierei di seguire il cuore e l’istinto come per conquistare una nuova notte di amore con una nuova donna… Bella da morire».

Sei un appassionato di musica e questo tuo interesse traspare dai romanzi. Vuoi parlarci della militanza rock, di quello che ti è piaciuto e ti piace ora, e anche dell’incidenza del rock nei tuoi romanzi e racconti?

«Come ho già accennato sopra sono stato musicista, proprio nel periodo in cui si respirava – a Bologna ma non solo, in Italia e nel mondo – musica rivoluzionaria e voglia di cambiamento. I tempi di Bologna Rock, tanto per intenderci. Fu tutto molto entusiasmante. Il mio gruppo si chiamava Assoluto Naturale. Un nome criptico ispirato da un film di Bolognini tratto da un libro di Goffredo Parisi… una scelta molto letteraria, bisogna dire… Durante la nostra carriera siamo riusciti a ottenere qualche bella onorificenza, tipo vincere la prestigiosa rassegna nazionale Incontri di Musica Alternativa nel 1978. Ricordo ancora una bella intervista che ci fece Luzzato Fegiz, il quale poi nel suo articolo, storpiò fra i tanti, proprio il mio nome, chiamandomi Neruni (il Fegiz non si smentisce mai, n.d. Vincent) Poi abbiamo fatto da supporter a gruppi importanti come gli Uriah Heep, al Palasport di Bologna, e anche al grande Lucio Dalla, in una serata indimenticabile dove lui si esibì (naturalmente!) assieme agli Stadio nella formazione originale, quando ancora Curreri suonava solo le tastiere, e addirittura usando il nostro impianto di amplificazione. Ma per saperne di più, basta dare un’occhiata al mio sito, dove c’è una pagina intera che parla delle mitiche imprese dell’Assoluto Naturale. Ma tornando al punto, questo passato musicale, come hai detto giustamente tu, ha creato un retaggio che mi ha influenzato moltissimo nei lavori letterari. In ogni mio romanzo infatti non manca mai una colonna sonora, come se si trattasse di un film. Pensa che fino a quando non ho capito bene che tipo di musica deve esserci sotto alla mia storia, non riesco ad iniziare a descriverla veramente. Ho esigenza sempre di una colonna sonora. Per tutte le cose che scrivo. Anche mentre sto rispondendo a questa tua entusiasmante intervista (scoprirai alla fine per quale canzone ho optato!). Le mie storie sono sempre piene stipate di riferimenti musicali. Sono arrivato al punto di inventarmi un gruppo che non esiste veramente, i Z Mastema. Una band di metallo pesante in odor di rock satanico, che ho cercato di rendere assolutamente credibile, inventandomi strofe di canzoni, citazioni di album, aneddoti sui componenti, tanto da spingere molti lettori ad andarli a cercare nei negozi di dischi, quando c’erano ancora. Poi nel tempo il gruppo è stato formato veramente, per l’occasione del reading dedicato allo show Cerchiomuto Redivivo. I Mastema interpretati dai bravi propheXy, con la magnifica singer statunitense Irene Robbins a dare loro musica e voce… Un vero delirio, non trovi?».

Sei praticante di karate. Come hai deciso di intraprendere la via delle arti marziali? Cosa ti piace del karate?

«La via delle arti marziali in generale, il Ninjutsu, ma soprattutto il Karate, hanno rappresentato un percorso molto importante nella mia vita. Non stiamo parlando di sport naturalmente, ma di una vera e propria filosofia psicofisica e spirituale. Ricordo ancora adesso, l’emozione che ho provato il giorno in cui sono diventato cintura nera. Mi sembrava di aver raggiunto un traguardo inarrivabile. Era come, in un certo senso, essere entrato a far parte di un mito, di una leggenda. Non dico che mi sentivo una specie di super eroe, ma quasi. Poi nel tempo ti rendi conto di come qualunque traguardo raggiunto serva soprattutto a farti prendere consapevolezza di nuove debolezze, di nuove imperfezioni da vincere. In poche parole: tutte le volte torni a essere principiante. Solo a questo servono i passaggi di cintura. Altro che super eroe: si tratta della consapevolezza di una fragilità rinnovata. Cresci e diventi più bravo e più forte e poi… Torni da capo. Torni a essere un principiante su una sfera superiore. Con un’altra salita di combattimenti sempre più difficili da affrontare, fino alla prossima vittoria e alla conseguente ricaduta. In fondo è così anche nella vita, no? Ed è così nei romanzi. Un passo alla volta, un pugno alla volta, cresciamo. Con coraggio e sincerità. Perdiamo sangue e sudore e frammenti di specchio. Senza diventare mai perfetti. La nostra fragilità è anche il nostro punto di forza».

Pratichi ancora?

«Una volta che diventi un karateca, non smetti mai di esserlo. La cintura nera non è una striscia di tela che ti metti in cintura, ma è un concetto che ti circola nel sangue. Negli ultimi anni ho smesso di frequentare il dojo in modo canonico, perché mi manca il tempo per riuscire a farlo. Sono però rimasto in stretto contatto con il mio sensei, il grandissimo maestro Giuseppe Perlati. E con i miei companeros… E ogni tanto ci troviamo. Per riuscire ad allenarmi quotidianamente, lo stesso, mi sono allestito una palestra super attrezzata nella taverna di casa, con tanto di passaggio segreto (a proposito di super eroi!). Con tanto di sacchi, mahiwara, uomini legno, nunchako, bastoni da escrima, katane e bo, e chi più ne ha più ne metta. Poi certe volte ci troviamo io e mio figlio Samuele, che è pure lui cintura nera, e facciamo degli incontri dai quali esco pesto e dolorante ma felice. Vecchio leone che non sono altro…».

Quando hai iniziato a scrivere?

«Dopo aver praticato svariate forme artistiche, dalla pittura, alla musica, alla scultura, comprese le arti marziali, dopo l’ennesima dipartita dell’ennesimo cantante dal gruppo e la terminazione del sogno di diventare una star del rock, mi ritrovai (non in un selva oscura ma quasi) a scrivere, guidato da un impulso irresistibile, usando una macchina da scrivere Olivetti Lettera 32 a cui mancavano anche dei tasti, per partecipare a un concorso letterario di romanzi fantasy/horror che si chiamava Premio Tolkien. Non vinsi, ma fui segnalato dal presidente della giuria, Gianfranco De Turris, il quale mi volle incontrare. E mi disse: tu hai molta stoffa ragazzo! Allora mi gasai da matti, mi comprai un computer: un Amiga 500, che manco sapevo come usare e riscrissi quel romanzo. Ripartecipando al Premio l’anno seguente e stavolta lo vinsi. Prendi su e porta a casa!, come si dice qua da noi. Ecco, quelli furono i miei primi vagiti. E diciamo che da allora non mi sono più fermato. Un pianto dopo l’altro, ho pubblicato già 24 romanzi, quasi uno all’anno, non è male, dai».

Quel romanzo con cui partecipasti al Premio Tolkien, era «L’urlo della mosca», giusto?

«Esattamente. Il primo romanzo che ho scritto, non il primo che ho pubblicato. Sono dovuti passare quasi dieci anni perché potesse essere dato alle stampe, come si dice… in pasto ai lettori (grazie alla mitica casa editrice Addictions nel 1999) a causa di tutta una serie di vicissitudini editoriali di cui parlo esaurientemente nella prefazione di “Cryfly Trilogy”, lo speciale Urania Horror di Mondadori uscito nel 2006, che raccoglie l’intero ciclo della Mosca».

Il tuo primo romanzo pubblicato, «Ultima pelle», è uscito firmato con uno pseudonimo nel 1991. Perché questa scelta?

«Non una mia scelta, comunque. Si trattava di una operazione di marketing editoriale che un tempo veniva fatta spesso. Camuffare gli autori italiani con nomi fittizi anglosassoni, alla luce (o al buio?) del fatto che i prodotti nostrani non venivano ancora considerati alla stregua di quelli stranieri. L’idea era fare un intera collana di autori mascherati dietro a nomi fittizi anglosassoni, per poi creare il caso, una volta (e se) i libri avessero venduto. Voi li avete comprati pensando fossero stranieri, invece… Da da da! Questi sono italiani veri, e quindi… Era una cosa che nel cinema anni settanta è stata fatta innumerevoli volte. Pensa che anche il grandissimo maestro Sergio Leone firmò la prima uscita di “Per un pugno di dollari” con un nome straniero, mi pare: Bob Robertson. La mia scelta invece fu per Frank Jonathan Crawford. Per cercare di aggirare questa cosa assurda, piegandola ai miei voleri di romanziere, feci poi in modo che la protagonista femminile de “L’urlo della mosca”, Sara Vanti, scrittrice italo americana di horror, si firmasse proprio in quel modo lì.

Tanto: delirio per delirio…».

Stai anche firmando tuttora la serie di spionaggio Hydra crisis, pubblicata ormai da anni su «Segretissimo» di Mondadori con lo pseudonimo francese di Jo Lancaster Reno.

«Ecco, questa operazione, ideata da Sandrone Dazieri nel 2003, voleva essere più che altro una provocazione. Il gioco infatti venne rivelato quasi subito. La cosiddetta legione straniera… il manipolo di autori italiani che scrivono spy story, è a tuttora una vera e propria compagine di guerrieri della scrittura. In fondo siamo un poco come una banda di super eroi che indossano costumi adatti per affrontare quelle trame lì. Io dal canto mio, ho inventato lo scrittore, il buon (grandissimo puttaniere) Jo Lancaster Reno, come se fosse un personaggio vero e proprio. Quando devo scrivere dei giorni dell’Hydra, io mi calo in lui, indosso la sua pelle, e la sua maschera e scrivo quello che immagino lui scriverebbe. Anche Sara Vanti sarebbe fiera di me!».

A parte questa parentesi spionistico-avventurosa, sei classificato più che altro come romanziere horror. Quanto ti riconosci in questa definizione? Cos’è per te l’orrore?

«Io romanziere dell’orrore? Ma quando mai… Io scrivo storie d’amore! Sembrerebbe una battuta. Ma sotto sotto, pensandoci, non lo è più di tanto. L’amore per come lo vedo io è sempre qualcosa che fa sanguinare, che parte dalla carne, dal dolore. In qualche modo l’amore è una forma di paura! Quindi la mia provocazione non è del tutto fuori luogo, né campata in aria. Il genere deve sempre essere solo un mezzo per farti raccontare il grido che senti nella pancia. Un vestito da indossare tipo il costume da super eroe di cui dicevo prima. Un mezzo di locomozione per spostarsi in un viaggio verso una meta precisa. Il genere orrorifico, grazie alla possibilità di poter inserire elementi misteriosi, fantastici, paranormali, ti permette di lasciarti andare a ruota libera. E di rendere la tua storia ancora più forte e intensa. In poche parole puoi far sì che la tua fantasia si esplichi allo stato brado, in modo selvaggio e senza limitazioni di sorta. Io vedo la scrittura e l’arte in generale come una grande possibilità di evasione dalle gabbie che ci contengono giocoforza, giorno per giorno, dal momento che nasciamo fino alla nostra morte e oltre. La libertà di per sé è un inno alla gioia e alla distruzione dei limiti preposti. La strada è impervia e difficile e non potrebbe essere altro che così. Ci piace che sia così, in fondo, dannazione. Ho portato avanti questo mio discorso senza propormi alcun tipo di censura, diventando famoso ma vendendo molto meno di altri autori che hanno compiuto scelte più furbe, più strategiche. Per qualche oscura ragione in Italia la parola horror non la si vuole manco nominare. I miei libri vengono definiti, pensa te, thriller soprannaturali, per aggirare l’ostacolo. Roba da matti, ma del resto siamo nel Paese dove i film del cazzo con le vacanze di Natale del cazzo sono ancora campioni al cazzo di botteghino. E dove intere famiglie si trovano a bearsi nella visione di belle fighe con le tettone di fuori e ridono a crepapelle di scorregge e pernacchie come si fa quando si va ancora all’asilo. Quindi come stupirsene? Siamo nel Paese dove i calciatori e la gente famosa televisiva si mette a pubblicare libri (dopo averli fatti scrivere ai ghost wtiter, oltretutto – una cosa grottesca e che non ha proprio senso) che poi vendono tante copie. Di certo le etichette lasciano sempre il tempo che trovano. E forse bisognerebbe parlare sempre e solo e comunque di romanzi veri, degni di essere vissuti. E fanculo tutto il resto».

Spesso tu, però, cerchi di fondere i generi. Immagino sia una scelta precisa.

«Ecco, sì, una profonda e spontanea scelta precisa che in fondo vuole essere una piccola e necessaria ribellione: scrivere un genere formato da tanti generi, come in un cocktail, agitati (e non mescolati!) fra loro, per arrivare a quello che io amo definire un romanzo de-genere. Sembra un gioco di parole, e in fondo lo è per davvero. Un gioco al massacro, però. Trattandosi del sottoscritto. Un gioco che si esplica e perdura nel tempo e si svolge in infinite supposizioni di mondi ignoti e pulsioni, lacrime e sorrisi e gocce di sangue da condividere fra una storia e l’altra. Con la sincerità di una cintura nera…».

Nella tua produzione ci sono moltissimi cicli che si intersecano fra loro…

«Una cosa che ho ribadito spesso. Tutta la mia produzione sembra fare capo a un immenso puzzle che si sta lentamente formando: ogni romanzo, ogni racconto, un frammento che suggella un quadro. Come se avessi avuto fugace visione di uno scenario definitivo e di cui devo portare testimonianza. La cosa forte è che non si tratta di una cosa studiata o calcolata prima. Io tiro fuori idee, produco situazioni che magicamente si trovano a collegarsi fra loro. Si potrebbe dire: magicamente. Una forma sciamanica di preveggenza creativa? Delirio allo stato (im)puro? Tutte e due le cose assieme? Naturalmente non ho risposte certe. Solo supposizioni di indagine. E tanta voglia di raccontare quello che sento dentro e fuori. Anche in questo caso, comunque, vi rimando al mio sito www.gianfranconerozziofficial.com per curiosare sui futuri prossimi venturi delle diverse linee seriali».

Cosa pensi dello stato attuale dell’editoria?

«Domanda di riserva?».

Cosa pensi degli ebook?

«Un mezzo nuovo, necessario, interessante. Un mezzo che può aprire strade e prospettive e chiuderne altre. Io stesso ho in previsione di riprendere mie cose vecchie, tipo la mia saga vampirica “Ogni respiro che fai” e riproporla, opportunamente ampliata e modernizzata, a puntate in digitale con un montaggio simile a quello di un serial TV. Per affrontare qualsiasi tipo di mezzo nuovo ci vuole sempre una buona dose di coraggio e di apertura mentale. Per adesso, l’avvento dell’ebook sta creando più che altro confusione nelle grosse case editrici che non sanno ancora come usarlo e non sono preparate a usarlo. Non sanno se considerarlo un nemico o un alleato. Poi ci sono i librai che attraversano la peggior crisi di tutti i tempi e che l’avvento del digitale non potrà certo aiutare a superare. Sono tutti nel panico e non pensano più a fare cultura, ma si preoccupano solo di non saltare in aria (o saltare a casa, tanto per dire) vista la crisi. Gli editori temono di perdere il posto e puntano solo sui best sellers o sui libri di sicura vendita nella fascia dei non lettori (ma che ridere!) che la fanno ancora da padroni, dall’alto della loro totale dipendenza da scorreggine e ricette di cucina. Ecco, in qualche modo sto comunque rispondendo alla domanda sull’editoria che mi avevi posto e a cui avevo cercato di evitare di rispondere. Mi hai fregato, amigo!».

Cosa possiamo attenderci nel prossimo futuro da Gianfranco Nerozzi?

«Quante pagine hai ancora a disposizione per questa intervista? Perché ho talmente tanti progetti in previsione e in working progress per romanzi, cinema, televisione, che potrei stare qua a scrivere ancora per tre quattro cartelle, solo per stilare elenchi. Quello che potrete attendervi, quindi, potrà essere davvero tanto tanto. Ma quello che effettivamente arriverà, considerando tutto in questo momento del cazzo e per quello che stiamo vivendo… Non so… Mi viene in mente una stupenda canzone di Jannacci: “Io e te” Andatevela ad ascoltare, è bellissima e toccante (https://www.youtube.com/watch?v=ArJ3UrL39AE) E così io, per l’avvenire, proprio come il grande Enzo Jannacci, vi consiglio di tenere d’occhio i buchi in fondo al tram… Prima o poi, proprio lì, sulla linea di confine fra malinconia e terrore, qualcosa di nuovo dal Nero riuscirete a trovarlo ancora».

(*) In un primo ciclo di «Narrator in Fabula» – 14 settimane – Vincent Spasaro ha intervistato per codesto blog/bottega autori&autrici, editor, traduttori, editori dalle parti del fantastico, della fantascienza, dell’orrore e di tutto quel che si trova in “qualche altra realtà”… alla ricerca di profili, gusti, regole-eccezioni, modo di lavorare, misteri e se possibile anche del loro mondo interiore. I nomi? Danilo Arona, Clelia Farris, Fabio Lastrucci, Claudio Vergnani, Massimo Soumaré, Sandro Pergameno, Maurizio Cometto, Lorenza Ghinelli, Massimo Citi, Gordiano Lupi, Silvia Castoldi, Lorenzo Mazzoni, Giuseppe Lippi e Cristiana Astori. «Non finisce lì» aveva giurato Spasaro. Nel secondo ciclo: Angelo Marenzana, Gian Filippo Pizzo, Edoardo Rosati, Luca Barbieri, Giulio Leoni, Michele Tetro, Massimo Maugeri, Stefano Di Marino, Francesco Troccoli, Valerio Evangelisti, Alberto Panicucci, “Jessie James”, Silvio Sosio, Luca Masali, “Rick DuFer” e oggi Nerozzi. Fra 7 giorni o magari 14 chissà se la valanga sarà finita o avrete ancora interviste in tabula … cioè in fabula. Alla fine qualcuna/o inevitabilmente mancherà (per i motivi più vari e/o strani) ma insomma è una panoramica… come mai – io credo – tentata in Italia. Certo bisognerà completarla questa saga di “Narrator” con un’ultima intervista martellante e cattiva… a un certo Vincent Spasaro. Che ne dite? Qualcuna/o già si offre? Vi vedo divis* in due mega-partiti: “l’auto intervista sììììììì” e “l’auto intervista nooooo”. Vedremo. In ogni caso restate in zona, qui “ai confini della realtà”. (db)

 

Redazione
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