Narrator in Fabula – 33

   dove Vincent Spasaro intervista Mauro Antonio Miglieruolo

MauroAntonio

   Chi segue abitualmente questa “blottega” ben conoscerà Mauro Antonio Miglieruolo, considerato uno dei più importanti autori di fantascienza, italiana e non. Evito dunque presentazioni inutili e mi lancio subito in quella che sarà una lunga, interessantissima intervista dove Mauro ci racconterà tanto di sé e della sua opera.

Mauro, vuoi parlarci dei tuoi primi approcci alla lettura?

«Volentieri. Sono cresciuto, si può dire, a pane e fantascienza. Anche se gli inizi sono lontanissimi. I primi libri non li ricordo, credo di non averne avuto, non ne circolavano nel rione poverissimo (Bofia) dove sono nato. A parte quelli scolastici dei quali, fin dalle elementari, facevo pessimo uso, credo di non aver avuto alcun sentore della loro esistenza. A Grotteria, fra i poveri, chi è che ha potuto usufruire di un libro per ragazzi, un fumetto, una rivista? Facevano parte di un mondo che non era “di quel mondo”, del quale non si aveva neppure il sospetto. Peggio che se il resto dell’Italia fosse il territorio sperduto di un pianeta extragalattico, dall’altro lato dell’ Universo. Dicevo del pessimo uso che facevo dei libri scolastici. In quinta elementare sono stato rimandato a settembre (anno 1952) e poi bocciato per non essermi presentato all’esame. Non potevo. Ad agosto ero stato “deportato” a Roma, dove per altro ho scontato un anno di fermo. Cosicché pur avendo iniziato la “carriera” scolastica con un anno di anticipo ho completato l’iter scolastico con uno di ritardo. Racconto tutto questo, e il resto che segue, perché sono decisivi per comprendere la mia formazione culturale. Non racconterò del trauma del passaggio dal paese alla città, che pure conta e molto (non mi sono mai adattato a Roma, città grigia, priva di dignità e di rispetto per le persone. I romani certamente sanno essere meravigliosi, ma sanno pure bene incarognire nei loro difetti: come nessun altro popolo in Italia). Racconterò invece ciò che la deportazione ha provocato: il rifiuto, nonostante gli entusiasmi dell’età, di ciò che mi veniva proposto dagli adulti. Accompagnando il rifiuto con una inflessibile inclinazione a soccombere alla malattie, dalla quale non mi sono mai emendato. Ancora oggi scandisce ferocemente i ritmi obbligati della mia vita (tranquillo, non mi dilungherò sui perché e per come un alunno brillante, cocco della maestra, che competeva nelle gare atletiche a pari con gli adolescenti, si trasforma rapidamente, dopo una passata di morbillo con complicazioni broncopolmonari, nel “classico” bambino cagionevole, bolso, esposto a ogni aggressione esterna).

Giunto a Roma, ci fu la scoperta di quello che stava succedendo nel mio corpo (nessuno si è preoccupato della psiche, né io ho mai chiesto o permesso che avvenisse). Lo stesso che in tanti, con minore fortuna della mia, al loro paesello sono rimasti per trovare morte precoce. Il braccio destro è infetto, l’apparato respiratorio minato da una pleurite non curata. Mio padre decide che non solo non darò “esami di riparazione” (alle elementari dovrebbero essere i maestri a darli, non i loro poveri allievi) ma che è opportuno salti l’anno. Il braccio destro presenta segni di necrosi, occorre intervenire urgentemente, pena l’amputazione. La pleurite può trascendere, richiedere il ricovero. Per molti mesi vengo sottoposto a varie medicazioni e terapie antibiotiche presso l’ambulatorio di piazza Adriana, dove era un ente utile straordinario (infatti è stato sciolto) cioè l’Enpdep: forniva assistenza sanitaria totale ai dipendenti parastatali ed era pure in attivo! Quelli che non servono rimangono, gli altri vengono inesorabilmente tagliati.

Ignoro dove e come avessi contratto la pleurite. Ricordo bene però i giorni a letto per l’esplodere di una malattia esantematica, probabilmente il morbillo, con complicazioni polmonari. Potrebbe essere stata quella l’origine della pleurite e della cagionevolezza che poi sempre mi contraddistinse. Sta di fatto che fra i problemi agli arti e quelli alle vie respiratorie scontai il fermo di un intero anno che aggiunto all’altro perso per la bocciatura in quinta hanno provocato il ritardo scolastico. Del quale non mi lamento: mi permise di reggere meglio l’urto dell’aggressività di tanti compagni di scuola; e le conseguenze di un ritardo che solo faticosamente (e da adulto) ho potuto superare. Sembrerà paradossale, per anni ho ignorato come si scriveva l’H in maiuscolo corsivo, la grafia esatta di tante parole, ed ero già alle medie superiori.

Di un certo interesse, anche narrativo, credo possa essere la descrizione delle circostanze che hanno portato l’iniziale cancrena al braccio (il braccio destro, l’unico di cui mi servo per fare le cose: soprattutto per scrivere). Sicuramente lo troverà interessante chi ama dare un significato “destinale” a ogni incidente della vita. Un giorno dell’estate del 1952, forse luglio, seppi che i genitori si erano accordati: per il mio bene era opportuno raggiungessi mio padre a Roma. Mamma e papà erano separati di fatto, sebbene ci fosse ancora amore tra loro (non temere, non racconterò le condizioni impossibili, shakespeariane, nel quale la divisione si consumò). Mia madre non era favorevole all’idea che partissi (io solo) ma dietro insistenze del medico, del maestro di scuola e immagino che anche il prete ci abbia messo il becco, sempre per il mio bene accettò. La decisione mi fu comunicata a una settimana, o giù di lì, dalla partenza. Pochi giorni prima che fossi caricato sul treno commisi un atto che un freudiano probabilmente catalogherebbe sotto la voce “autolesionismo”, ma che a me pare a tutt’oggi uno dei tanti nei quali può incorrere un discolo incurante dei pericoli come in genere si è a quell’età. In effetti tante ne combinavo (mi dovrò decidere a parlarne, un giorno o l’altro, prima di morire). Avendo trovato un pettine mancante di molti denti, in presenza di una congerie di ragazzini delle mia stessa età e incoscienza, diedi fuoco al pettine. Grida di entusiasmo accolsero l’azione. Grida che mi incitarono a fare meglio: a roteare il pettine nell’aria. Azione estremamente pericolosa, ma che ne potevo sapere io? Coincidenza da far gridare al miracolo, o al malocchio, un frammento in fiamme si staccò dal resto e un grumo di plastica infuocata cadde sull’arto destro. Proprio sulla connessura braccio e avambraccio. Cadde dunque in prossimità dell’incavo e lì continuò a ardere. Non so per quanto tempo restai a fissare il braccio che bruciava. Intorno a me il silenzio. Guardavano tutti attoniti, spaventati: credo non sapessero cosa fare, come reagire. Non provavo dolore, non gridavo, guardavo soltanto. Un incantesimo, l’incantesimo del fuoco che però non scaldava un focolare, consumava carne e sangue. Ignoro come ne uscii. Mi sembra di ricordare la voce allarmata di una adulta, ma non so bene. So che parecchi secondi dopo l’inizio del rogo portai la mano sinistra sul braccio e mi liberai dal grumo di materia in fiamme. Si era scavato una nicchia della profondità di alcuni centimetri e larga cinque/sei – la stessa larghezza di un ascesso sulla schiena che ho dovuto operare d’urgenza mentre ero in Messico, ad agosto 2015. Solo a quel punto, a incendio spento, provai dolore. Gridai. Accorsero in tanti e fui medicato; medicato come nel mio rione – Bofia, il più povero del paese – sapevano. Partii con l’impiastro sul braccio. Vedendolo mio padre impallidì. C’era di tutto, dentro. Credo persino una ragnatela. Spero non piscio di gatto. I medici ai quali fui esibito da mio padre, pieno di vergogna quasi fosse lui il responsabile, dopo aver debitamente trasecolato constatarono che la ferita era suppurata, era urgente una terapia antibiotica. Non si fosse provveduto con immediatezza, o non avessi reagito positivamente alla terapia, probabilmente si sarebbe dovuto ricorrere all’amputazione del braccio. Io non pretendevo tanta punizione per me per poter punire il mondo. Reagii. Vinsi. Anche perché era già stata inventata la penicillina, della cui esistenza però si aveva solo remota conoscenza nel rione nel quale vivevo, né soldi sufficienti a procurarne. Si provvedeva quindi all’antica, confidando nella fortuna e nella reattività della persona. Potei avere quelle cure a Roma non perché la situazione fosse poi tanto diversa – la povera gente soldi per curarsi ne aveva pochi all’epoca come forse oggi, dopo oltre 80 anni “di progresso” e una produzione che è cento volte superiore – ma perché, essendo mio padre dipendente dell’ospedale Forlanini, aveva diritto di chiederle all’Enpdep.

La faccenda non si risolse tutta a mio danno. Non amando aggirarmi per le strade di Roma, abituato ai chilometri di sentieri e aperti paesaggi montani, il chiuso degli orizzonti cittadini mi respingeva e mi annoiava. L’esuberanza giovanile non trovava spazi adeguati nello spazio ristretto di un appartamento moderno. Ero quindi costretto ad aggirarmici, in via Lavinio 20, come un leone in gabbia. Compensai sviluppando quella che considero una sorta di vocazione: il piacere della lettura. Intorno a me però nessuno leggeva. Libri in casa non ce n’erano, come per altro in tutte le case del rione Bofia. Il libro per me continuava a essere un vero sconosciuto. Per mia fortuna nell’appartamento accanto c’era una vecchia signora che, cosa rara, possedeva uno scaffaletto il quale all’epoca a me sembrò enorme, con decine e decine di libri messi in bell’ordine. Una vecchia silenziosa e schiva, come spesso sanno essere le persone di qualità. Ci venivo mandato per piccole commissioni, il sale, l’olio, un po’ di spesa… Non usciva, quell’eccellente persona: che io ricordi non si affacciava nemmeno sul pianerottolo, non so se per paura o schifo del mondo. Non apriva se non dopo aver chiesto, a battente chiuso, chi fosse davanti l’uscio, implicitamente sottintendendo era meglio si tornasse sui propri passi, non avendo alcuna voglia di impeciarsi con la pazzia d’ognuno (evidentemente ne aveva abbastanza della propria). Dopo tante volte mi azzardai a chiederle il prestito di un libro. Nicchiò, negò, insistetti, lo concesse. Quando glielo restituii e vide che era nuovo come me l’aveva dato, si ammorbidì e diede via libera all’accesso allo scaffale. Lo saccheggiai, naturalmente. Prima scegliendo a caso, poi prendendo i libri utilizzando una certa sistematicità. Finito uno, quello accanto. Senza badare a titoli, alle dimensioni del volume, a grafici allettamenti.

Impiegai settimane a completarlo. In quelle settimane non solo scontai un più libero accesso alla casa ma notai anche che non avvertiva più la mia presenza come intrusione. Diceva grazie se le portavo la spesa, ma il grazie dovuto delle persone bene educate non un grazie che sgorgava dal cuore. Col tempo notai che, addirittura, si soffermava volentieri a parlare con me di ciò che leggevo.

Solo uno di quei tanti libri mi restò impresso nella memoria. Lo scaffale conteneva i libri che ci si può aspettare legga una fanciulla che rimane tale in età avanzata (a meno che non fossero testi vecchi di decenni: non so dire); per lo più romanzetti d’amore ma di un livello dignitoso. Nulla a che vedere con gli orribili racconti che, quand’ero in crisi di inedia, trovavo sui giornalacci (Bolero e GrandHotel) che leggeva una mia cugina. Quei libri avevano un certo spessore, non però da soddisfare la mia ancora ignota fame di mirabilia e avventure. In parte la soddisfai con i fumetti, Tex Willer, Hondo, Nat del Santa Cruz, Akim ecc. In parte con un mirabolante volume rilegato (e squinternato) che mi diede mio padre e di cui – pur avendolo letto diverse volte – nulla rammento. Ricordo invece uno dei testi trovati nella libreria della signora vicina: “Il padrone delle ferriere”. Letto e riletto fino alla nausea. Ma la nausea è di adesso: all’epoca mi coinvolse come solo i migliori romanzi di fantascienza.

Quando la quarantena del corpo finì e tornai in circolazione (cioè a dire a scuola, perché per anni non mi mossi dal triangolo piazza dei Re di Roma, viale Manzoni, via Magna Grecia dove abitava l’unico romano che frequentassi) avevo ormai contratto, mercé la vicina, la nuova speciale benevola malattia, del quale ho accennato: ero diventato lettore compulsivo. Per altro in subitanea e prematura crisi di astinenza, conseguente alla morte della dignitosa e solitaria benefattrice. Una mattina trovarono la porta di casa socchiusa. Temendo l’opera dei ladri, si provvide a chiamare la polizia, che entrò e la trovò morta. Il medico legale accertò che si era spenta naturalmente. Presentendo la morte e volendo fino all’ultimo non disturbare il prossimo, si era alzata nella notte, aperto l’uscio e tornata nel suo letto per darsi all’ultimo sonno. In quello stesso modo sanno – o sapevano – morire solo gli indiani delle praterie.

Non so dire quanto tempo sia passato dovendomi contentare di Tex Willer (che poi era un bel contentarsi) e dei tremendissimi Bolero e GrandHotel (me ne contentavo ben poco, sempre e solo per disperazione). So che un giorno, ignoro il perché, si formò in me la convinzione che io dovevo e volevo leggere fantascienza. Che si trattava del mio destino. Chi mi aveva parlato di fantascienza? Lo ignoro. Ignoro anche dove avessi appreso l’esistenza del termine. Probabilmente era nell’aria e io l’avevo respirato.

Non appena ebbi le prime 120 lire a disposizione, ottenute risparmiando sulle 20 per il tram che mi si dava per tornare a casa (tragitto viale Manzoni/via Lavinio) comprai “Il cittadino dello spazio”. Grande delusione. Non era quello che volevo. Pur non avendola conosciuta, sapevo che doveva esserci una fantascienza più ricca e significativa di quella. Insistetti. Fui premiato. Qualche tempo dopo scopri, nelle vicinanze del cinema Appio, un carrettino gestito da un seconda benefica vecchina un po’ burbera e popolaresca, dove trovai finalmente la fantascienza per come me l’ero immaginata. Trovai Van Vogt, Heinlein, Williamson, Hamilton, Clarke, Wyndham, Sturgeon, Simak, Russell, Hubbard, Campbell ecc. ecc. ecc. Trovai consolazione anche nei romanzi western e nel fascino esotico del dimenticatissimo messicano Mallorquì alla lettura dei quali mi dedicai tra un Urania e l’altro, traendone una qualche consolazione. Lessi e apprezzai anche i famosi Gialli Mondadori: confesso però che, salvo qualcuno, non produssero mai in me vero entusiasmo. Solo un quarto d’ora di evasione dalla realtà.

Per anni dunque fonte esclusiva della mia formazione furono le letture popolari. Col tempo aggiunsi quelle più impegnate e impegnative di autori: non italiani però, che avevo imparato a non stimare. Mi ero infatti formato la convinzione, convalidata dalla lettura di colui che era considerato il migliore fra loro, Moravia, che non valesse la pena frequentarli. Non dunque pregiudizio nei confronti degli scrittori di fantascienza, ma dello scrittore italiano in genere incluso l’autore di fantascienza. Da questo ultimo errore mi emendai ben presto, in seguito alla scoperta dei vari Sandro Sandrelli, Lino Aldani, Vittorio Catani e altri. Nel campo mainstream invece in seguito alla folgorante scoperta di Beppe Fenoglio e Giuseppe Marotta; e a seguire – cito a caso – Primo Levi, Italo Svevo (grandissimo), Italo Calvino, Elsa Morante e oggi Camilleri. A livello europeo e mondiale aveva già scoperto Grass, Solgenitzin, il Bukowsky russo e Joyce (merito di Aldani, che mi diede in prestito “Ulisse” raccomandandone le lettura); più tardi il Bukowsky americano, nonché Guimaraes Rosa (il più grande di tutti), il cui libro principale, “Grande sertao”, è diventato una sorta di Bibbia. Quando voglio dilettarmi e dire a me stesso “è così che si scrive”, questo l’orizzonte a cui tendere sapendo che mai verrà raggiunto, apro a caso una qualsiasi pagina, leggo alcuni paragrafi o alcune pagine di “Grande sertao” e mi acquieto. Mi metto buono dicendomi: scrivi pure ma sappi che, a confronto di questo dire, quel che tu dirai resterà sempre ancorato ai margini del nulla.

Non posso però affermare che Guimaraes Rosa abbia avuto influenza decisiva sul mio modo di scrivere, non almeno visibilmente. Troppo al di là dalle mie possibilità è il brasiliano perché possa anche solo presumere di imitarlo. L’hanno invece esercitata autori più modesti quali Alfred A. E. Van Vogt e, all’esterno dell’immenso campo letterario detto fantascienza, Charles Bukowsky, dal quale mi sono allontanato, ahimé, solo di recente. Solo in quel “recente” nel quale mi ritrovo smarrito a constatare che sto cercando e procedendo verso ignote regioni, una destinazione che non riesco a intendere. Il massimo che mi è dato capire è: la via la sto cercando ma a tentoni, come cieco, sperando si illumini un buio inquietante, un oscuro che non produce stimoli, produce sconcerto.

Sul personaggio Bukowsky ho costruito uno dei miei racconti formalmente più riusciti: un racconto che nonostante sia tra i più formalmente riusciti, ha ricevuto ben poca attenzione. Forse il lettore classico si scoraggia per il titolo, “La seconda più veloce pistola del West”, che dice abbastanza non però trattarsi di un racconto di pura fantascienza (anche se l’ambientazione è quella classica western). È sul mio blog, un racconto lungo: lo si può scaricare qui https://miglieruolo.wordpress.com/about/la-seconda-piu-veloce-pistola-del-west/ .

Aggiungo un particolare sulla vicenda che ho narrato. Dopo essere stato l’ultimo della scuola a Grotteria e l’ultimo a Roma, arrivato intorno ai quindici/sedici anni mi sono ridimensionato, contentandomi di essere solo l’ultimo della classe; per diventare infine, intorno ai venti anni, al termine degli studi (diploma di ragioneria) il primo della sede distaccata del Quintino Sella, ponte Garibaldi (non ricordo più l’indirizzo preciso)».

Sei calabrese d’origine come il sottoscritto. Che ricordi hai della tua terra?

«Qualcosa della domanda credo di averla anticipata. Aggiungo che, a parte il senso di libertà e la bellezza dei luoghi, eguagliati in qualche angolo remoto della Terra ma mai superata, continuo a apprezzare il bel caldo estivo, esagerato ma non opprimente perché asciutto – basta un riparo qualsiasi per poterlo sopportare. E a rimpiangere la intensità dei legami, il rispetto fra le persone, l’innocenza con la quale si affrontava l’esistenza. Poi naturalmente c’era l’invivibile di una esistenza di prescrizioni asfissianti, l’angustia delle prospettive, soprattutto culturali; e l’orientamento autoritario che persiste, effetto ma anche causa dei disvalori condivisi che costituiscono la base del fenomeno ‘Ndrangheta».

Possibile che un calabrese si appassioni alla fantascienza? Pare che al sud sia più facile parlare di mafia e sole. A prima vista sembrerebbe uno dei luoghi più lontani dall’ispirazione fantascientifica.

«No, è il più vicino. Per tanti versi. Il verso del racconto popolare che scivola facilmente nel mito (la fantascienza è fondatrice oltre che consumatrice di miti). Lo è per i suoi luoghi, selvaggi e poco abitati, quasi da pianeta alieno. Lo è per il suo costume e i suoi costumi: ma questo vale per tutto il Mezzogiorno – basta un piccolo spostamento, per fargli assumere le caratteristiche di possibili ambienti alieni. Mi limito a citare la realtà dei mercati, le feste patronali, la dittatura dell’omertà, fortissima nel reggino, luogo di nascita della ‘Ndrangheta che ha solo sfiorato il cosentino e solo in tempi recenti; nonché quella particolare predisposizione al silenzio, allo starsene chiusi dietro le persiane per fissare attoniti il creato. Si può pensare si tratti di un che d’arcaico e lo è; ma nello stesso tempo rappresenta il nostro avvenire. Non l’avvenire dell’Italia: il futuro del Mondo.

Fantascientifico lo è specialmente per il modo omerico di comunicare, che scivola facilmente nel grandioso e nell’iperbolico. Racconto in breve due episodi, risalenti ambedue agli anni ’70-’80.

Il primo. Siamo in montagna dove abbiamo portato un anziano signore, uomo di rispetto, che in quel luogo aveva una casetta e provava nostalgia. Il luogo antico dei primi, faticosi, battagliati anni della gioventù durante i quali quel rispetto si è assicurato. Il vecchio si avvicina a un dirupo antistante la casetta e con un tono che ha lasciato basiti mia moglie e me, chiede: dormunu jacassutta i genti? (“è ancor abitato qui sotto?” – dormire sta per abitare). Compostezza e dignità, non mi sento d’usare altre parole. Mia moglie, romana di nascita e terracinese d’origine, invece parlò di inflessione omerica. Non potei che concordare.

Il secondo. Siamo in albergo situato fra, mi sembra di ricordare, Marina di Gioiosa Jonica e Roccella. Un signore molto espansivo ci ha appena chiesto il favore, dato che siamo di ritorno, di accompagnare una sua cara amica a Roma. Naturalmente non abbiano difficoltà ad acconsentire. Il giorno della partenza, a pranzo, si volta verso di noi tenendo in alto un grappolo d’uva e declama (unica parola legittima per descrivere ciò che fa, come lo fa): mi staju mangiando na pendola i racina! (“mi sto mangiando un grappolo d’uva”). Nulla di straordinario, anche noi, anche altri, chissà quante volte, hanno mangiato un grappolo d’uva. Come lo diceva lui però sembrava un’impresa epica, un Orlando a Roncisvalle… Non abbiamo più visto quell’uomo, morto ammazzato. Il gesto e la declamazione però mi ritorna spesso, continuo a vederlo e incontrarlo».

Com’è avvenuto l’avvicinamento alla SF?

«Credo di averlo spiegato rispondendo alla prima domanda. Aggiungo l’altro che mi sembra necessario: che mi sono avvicinato alla fantascienza d’istinto, senza pensiero, così come il neonato avvicina per sfamarsi il seno della madre».

Come ti sei avvicinato alla scrittura?

«Assecondando qualcosa dentro di me che spingeva in quella determinata direzione. Che io ricordi, da una certa età in poi, ho sempre pasticciato con lo scrivere. Ma mi ci sono avvicinato anche in ragione degli stimoli ricevuti da un amico, Franco, il cui personaggio ho introdotto nel romanzo “Assurdo Virtuale” (Perseo Libri, ora Elara), il quale si dilettava a scrivere poesie; e che mi sono dilettato a mia volta di stupire con frasi, poesiole, trovate e raccontini di alcuni dei quali rimpiango la perdita. Il tutto ha preso corpo in consapevole velleità intorno ai primi anni ’60, a causa del progressivo rarefarsi delle letture di buon o ottimo livello. Dal numero 100 in poi dei Romanzi di Urania il declino diventa visibile. Della ubriacante fantascienza presente nei primi trenta/quaranta o anche cinquanta numeri della collana mondadoriana non c’è quasi più traccia. Da qui la necessità, sorta piano piano, di scrivere io qualcosa in grado di ripetere pur in modesta misura quella sorta di età dell’oro, almeno gli echi, che avevo conosciuto. In quest’ottica è stata una meravigliosa sorpresa l’avvento – contemporaneo al declino di Urania – di Galaxy, Galassia e altre collane, più tardi lo SFBC, che rivitalizzarono per un buon decennio e più lo spento panorama dell’editoria italiana».

Vuoi parlare dell’atmosfera del fandom anni sessanta? Un momento magico, quasi leggendario.

«Certamente magico e ancor più leggendario. Molto leggendario. Quel che si viveva era funzione del molto a disposizione di lettori e addetti ai lavori. Un grande momento certo, un lungo periodo di ineguagliabile letteratura. Della quale pochi intellettuali si sono accorti. Siamo stati grandi per aver saputo riconoscere e onorare quei grandi e averne non solo celebrato le imprese, ma pure ripetute nel nostro piccolo – non tanto piccolo. Grandi dunque per la grandezza del momento, che ci ha trascinati oltre noi stessi. Riconosco insomma quantomeno il merito agli appassionati di allora di avere tentato di ascendere all’altezza delle mitiche opere che maneggiavano. Per altro è stato anche un periodo oscuro, di grande distruttività. Di chiusure mentali e di interessi, ognuno limitato dalla propria personale visione. Invece di farne un trampolino di lancio per la crescita personale e quella della fantascienza, l’ideologia di ognuno ha contribuito a creare quella gabbia di cui poi è anche morta la fantascienza, vittima di molteplici cause e ragioni».

I tuoi primi racconti?

«Le trovate erano buone, sommaria la forma, a volte insufficiente lo stile. Alcuni hanno mantenuto un po’ di validità, altri sono rapidamente invecchiati. A qualche archeologo che se ne voglia interessare, consiglio “Dittico burocratico” pubblicato credo su Galassia, e anche “Gli arpionatori”, “L’agenzia riparatorti”, “L’automazione di Detroit” e “Circe”; quest’ultimo famoso/famigerato perché pornografico: ma solo nella forma esteriore, poiché si trattava e si tratta di un apologo sul potere. Il racconto è valido oggi altrettanto che ieri. È già stato edito due volte, varrebbe la pena riproporlo la terza. Fra i peccati di gioventù mi sento in obbligo di citare “Don Giovanni Minimo”, fra i primissimi scritti e uno dei pochi che sono usciti completi dalla penna già alla prima stesura. Il racconto aveva ricevuto l’approvazione di Maurizio Viano, ultimo superstite della redazione che aveva promosso la pubblicazione della rivista unanimemente conosciuta come “Futuro Aldani”. Viano, al quale l’avevo inviato quando ancora ero a Belluno, aveva accettato di pubblicarla sul numero 8 della rivista. Avrebbe rappresentato il mio esordio, uno specialissimo esordio. Il numero però non è mai uscito. Malaguti, con il tempo suo, lo ha poi pubblicato su NOVA SF. Nei suoi limiti anche questo racconto meriterebbe di essere ripreso».

Come sei approdato a Galassia?

«All’epoca leggevo tutto quello che veniva stampato sotto l’etichetta fantascienza. Ho notato che in calce al fascicolo, si era iniziato a pubblicare italiani, ho inviato anche io qualcosa. Racconti. Mi è andata bene, per fortuna. Naturalmente il discorso non vale per “Come ladro di notte”, che è arrivato alla redazione di Galassia per merito del mai abbastanza compianto Lino Aldani. Una vera iattura per me, la sua morte».

E la genesi del famosissimo «Come ladro di notte»?

«In una fase particolare della mia vita, nel corso della quale personalità, cultura e sentimento hanno assunto una nuova forma, dando il via quasi a una nuova persona. Come tanti avrebbero fatto poi, qualche anno più tardi, mi tolsi il peggio che mi era stato cucito addosso e iniziai un percorso personale di approccio alla realtà. La personale Weltanschauung subì una mutazione radicale. Ero in una congiuntura culturale favorevole, della quale profittai, senza per altro accorgermene se non quando il percorso era stato ormai praticamente completato. La congiuntura: l’atmosfera culturale dell’epoca, alcune sofferte esperienze personali e di lavoro, l’incontro con la grande musica e in particolare quella feconda dell’Ottocento, Wagner e la sua Tetralogia; nonché il marxismo, all’inizio filtrato dagli scritti di Trotsky, personaggio conosciuto prevalentemente come dirigente rivoluzionario, ma che è stato anche uno scrittore e uno storico di ineguagliabile valore; questa specifica congiuntura fece maturare un sentire che poi travasai in “Come ladro di notte”. Un testo che ebbe il merito di rappresentare il nuovo nel quale ormai navigavo e nello stesso tempo il difetto del vecchio nel quale restavo ingabbiato. Vedo oggi che l’intransigenza di Zanzotto ha ben poco a che vedere con le aspirazioni di diventare comunista che nutrivo a quei tempi; e molto a che fare con un certo cattolicesimo del quale ero stato imbevuto. Fondamentale fu il contatto con la Tetralogia, il cui tema guida è diventato, con un piccolo spostamento tematico, quello di “Come ladro di notte”. Nell’Oro del Reno il tema è ciò che dà senso, dall’inizio alla fine al dramma. Il mondo è innocente e continuerà a esserlo finché l’oro non contaminerà il fluire dell’innocenza. L’avidità del nibelungo Alberico, frustrato nei suoi desideri sessuali, interverrà a spezzare quell’innocenza con il furto dell’oro. Dopo di lui la furia e l’egoismo dei giganti, che se lo disputeranno fino ad arrivare all’omicidio. Lo stesso avverrà con gli dèi deboli nei confronti dell’essere. Per la loro superba mania di grandezza sacrificheranno ogni possibilità di riscatto. L’oro è tornato nelle loro mani e invece di restituirlo alle ondine (Woglinde, Wellgunde e Flosshilde) che ancestralmente lo custodivano, lo usano per riscattare Freia, dea dell’amore, della seduzione e della fertilità, presa in ostaggio quale garanzia del pagamento del loro lavoro. Gli dèi infatti hanno commissionato loro la costruzione della loro dimora, il Walalla. Nel mondo, sembra dirci Wagner, anche a mezzo di un discorso che Loge fa a Wotan, c’è posto per tutto, fuorché per la possibile redenzione dell’amore. Wotan non solo cede l’oro, ma redarguisce severamente le ondine che della sua decisione si sono lamentate. Prende avvio da questa sua decisione una catena di avvenimenti che porteranno al “Crepuscolo degli dèi”. A parte il fascino di questo presentimento dell’essenza del capitalismo e della sua inevitabile caduta, che pure non mi sfuggì, fu il tema della contaminazione dell’innocenza primordiale a colpirmi. E da lì che nacque il tema centrale dell’ideologia della Congrega. L’universo innocente è corrotto dalla presenza dell’intelligenza, cioé degli uomini. Bisogna avviare la sterilizzazione del mondo, per poterlo salvare e ricondurlo allo stato iniziale di silenzio e contemplazione. Una speranza, questa della pacificazione – questo tipo di pacificazione – propria di un disperato. L’idea mi fornì d’una sorta di febbre creativa che durò il tempo delle prima stesura. Poche settimane di febbrile attività (risalente, se non ricordo male al 1967); poi le nuove esperienze nel frattempo maturate, la primissima attività sindacale e politica, uno studio più approfondito del marxismo, mi proiettarono di là dall’orizzonte del romanzo. D’improvviso avvertii che non mi rappresentava più. Che ero nella speranza, non più nel buio di una società folle abitata da demoni inconsapevoli di esserlo. Per altro il romanzo era stato scritto mettendoci troppo di me, delle mie passioni, per poter continuare a lavorarci senza problemi. Così, quando tentai di completarlo, dovetti constatare di non riuscirci. Non disperai lo stesso, e a posteriori sembra abbia avuto ragione, anche se dopo la pubblicazione lo considerai con sofferenza. Con una certa sofferenza lo considero ancora oggi, dopo 4 edizioni prodotte da ben quattro editori diversi. Lo presentai ad Aldani che si mostrò disponibile a leggerlo e darmi un parere. Si prese quindici giorni. La sera successiva già però mi telefonava per dirmi che, dopo averlo iniziato, non aveva saputo staccarsene. Suggeriva inoltre di spedirlo a Curtoni e Montanari. Il resto è storia».

Che reazioni hai avuto alla sua uscita? Cosa ne pensi oggi, dopo la ristampa anche su Urania?

«In questi giorni credo sia uscito anche in formato digitale per la Delos… Sembrerà strano, un’alzata d’ingegno intellettuale, ma la maggiore soddisfazione, dopo l’inaudita impresa di comparire sulla ormai gloriosa Galassia – non l’avrei mai creduto – fu proprio sapere della ristampa molti anni dopo. Pulp Edition, che si azzardò nell’impresa, proprio con “Come ladro di notte” inaugurò la nuova collana nel quale il romanzo fu inserito. Una assoluta, graditissima sorpresa, quella seconda edizione: la conferma che non si era trattato di un fuoco di paglia; e continuavo a essere ricordato e stimato. Dato che lo chiedi, confesso che del romanzo ho sempre pensato molto male. Troppi squilibri, troppi temi accennati e lasciati cadere. Consideravo questo e non il motivo del persistente successo del testo. Perso dietro esigenze estetiche, non vedevo, neppure lo prendevo in considerazione, il fondo fascinoso sul quale poggiava il romanzo; fascino di fondo che per altro non sfuggiva ai lettori più attenti. Personalmente questo fondo l’ho colto tardi, in seguito alla pubblicazione su Urania Collezione. Anche questa fu una pubblicazione inaspettata; e però rispettata. Ho infatti voluto capire, rileggendolo con il dovuto spirito – spirito da lettore, non d’autore critico di se stesso. E finalmente ho visto, in profondità, il gigantismo che anima il romanzo, non un gigantismo esteriore, solo detto, ma uno strutturale, legato intimamente alle pagine, ai protagonisti, agli ambienti rappresentati. Un gigantismo adeguato all’epos della vicenda, abitata da personaggi sempre sopra le righe e mai eccessivi; e portatore di una storicità organica. In quest’ottica il gigantismo delle astronavi, dei volumi di mezzi messi in campo, sono ben poca cosa, anche se fanno buon contorno, rispetto alle vicende consumate sotto gli occhi dei lettori. E poi Zanzotto. Un vero eroe. L’eroe come lo concepivo all’epoca. E forse un po’ anche oggi».

Che legame c’era quando eri giovane tra la science fiction e la politica?

«Si tratta di un legame che personalmente ho sempre visto, ammesso e praticato. Altri rifiutavano di vederlo, però praticandolo. Un rifiuto facile, il loro. È su chi si propone il cambiamento che cade l’onere di sviscerare, far apparire ciò che è nascosto, svelare i luoghi comuni e proiettarsi oltre. Chi lavora in favore dell’esistente non ha bisogno di darlo a vedere. Gli basta affidarsi all’inganno della più stretta evidenza e cioè all’ideologia. I sacerdoti dell’anti-ideologia possono condurre senza darlo a vedere le loro battaglie di inibizione e censura contro le voci furori dal coro, proprio perché si muovono nell’ambito della stretta evidenza. Non hanno che da mostrarla. Aggiungo solo che la pratica della fantascienza, se è pratica attiva e seria, di per sé risulta eversiva nei confronti dell’esistente. Lo è già nell’atto di rappresentare un mondo trasformato, prefigurando un futuro che cambia, la possibilità di esiti differenti nella costituzione dei presenti. Essendo la fantascienza storicità di futuri alternativi, anche se manipolato da un individuo di destra, di per sé può condurre a esiti disastrosi per i “Padroni del Vapore” perché l’esito differente fa presto a diventare esito alternativo; aprendo in questo modo la strada – ahi! – all’ipotesi di un mondo senza più capitale, sciagura suprema, bestemmia, eresia. Il passo non è stato dato, ma avrebbe potuto essere dato. Dal che il paradosso: la fantascienza, attività letteraria piena di suggestioni scientifiche, ha sempre ignorato il marxismo, salvo un certo Miglieruolo al quale Daniele Barbieri ha fatto l’onore di definirlo – esagerando – “scrittore marxista”. Avesse la fantascienza travalicato certi limiti, sarebbe stata oggetto di una repressione mastodontica, pari alla pericolosità del suo essere».

Hai militato nell’estrema sinistra romana. Vuoi farci un quadro di quel periodo?

«Solo un piccolo cenno. Che si è trattato di un periodo straordinario, di gran risveglio delle coscienze, un risveglio tale che ha fatto pensare a quella rivoluzione protestante che fa da viatico all’affermazione del capitalismo. Oggi la parola d’ordine di “tutto il potere ai lavoratori” sembra più lontana che mai. Verità o disillusione? Il problema è che i tempi della storia non hanno niente a che vedere con quelli brevi della vita umana. È su quest’ultima che noi tendiamo a misurare gli avvenimenti. In ogni caso, essendo stati i protagonisti degli anni straordinari che vanno dal ’67 al ’72 (al quale seguono otto anni operai) quasi tutti appartenenti alla piccola e media borghesia, qualche dubbio sul ruolo complessivo svolto (a parte che si trattò di un grande momento che fece fare passi giganteschi in avanti a tutta la società e anche di aver innescato il lungo periodo operaio 68/80) occorre sia formulato. Non per altro: per ragionarci sopra e vedere limiti e possibili insegnamenti».

Come vedi la situazione politica attuale?

«L’epoca nella quale viviamo è quella in cui stanno prendendo corpo le tendenze assolutistiche (non solo dunque autoritarie) del capitalismo nella fase di egemonia del capitale finanziario. Ignoro quanto lungo possa durare il processo ma se non vi sarà a breve una nuova offensiva operaia, guidata da forze che si collocano in una prospettiva apertamente NON capitalistica, esso si concluderà con una sorta di dispotismo orientale che avrà le seguenti caratteristiche:

  1. probabile assunzione in prima persona del potere da parte di membri del capitale; impoverimento progressivo delle masse popolari; ridimensionamento del ruolo della piccola e media borghesia; abnorme espansione del ruolo dei tecnici e della tecnologia; controllo capillare sull’attività umana e sugli stessi pensieri; contemporanea espansione della “società civile” e diritti civili, quali unico velo alla realtà della dittatura;

Tutto questo si intravede già oggi, e per questo mi permetto di dirlo. Non una mia fantasia o timore, ma direzione di marcia di quella che oggi è la punta di diamante della trasformazione del comando capitalistico in dittatura: l’Europa. Non è lontano il giorno in cui ci diranno non solo che tipo di carta igienica usare, ma quanti “strappi” si possono e anzi debbono adoperare».

Hai scritto molti racconti e alcune antologie personali. A sei più legato e perché?

«Li elenco: “Ognuno Uno”; “Pazza metamorfosi”; “Incontro con Lucifero”; “Circe”; “La seconda più veloce pistola del West”; “Sotto il suolo di Marte”; “Don Giovanni Minimo”; “Il Giardino dei rovi”; “L’ubriacone errante”; “Come ho salvato la Terra da una orrenda invasione”; “L’automazione di Detroit”. Perché? perché sono in perfetta sintonia con le mie esigenze, racconti con un loro ritmo, una cadenza, una interna coerenza logica; scritti per altro in discreto italiano. I contenuti poi mi rappresentano perfettamente. Costituiscono infine, pur senza esplicitazione ideologica, un vero e proprio programma politico».

Vuoi parlarci delle tue antologie? Analizzandole una per una, se ti fa piacere

«Credo le migliori siano quella pubblicate dalle Edizioni della Vigna: “La bottega dell’inquietudine” e “Storie alla melanina verde”. In particolare la prima, probabilmente una delle cose migliori che abbia prodotto. Si tratta del contenitore di tre romanzi brevi, dei quali due li considero una sorta di piccoli capolavori di fantascienza. Mi si perdoni la sincerità. Come ho ammesso di essere stato molto in imbarazzo per “Come ladro di notte”, nonostante l’indubbio successo, così non intendo sottrarmi nell’esplicitare la soddisfazione per “La bottega dell’inquietudine”. L’antologia è formata appunto da tre romanzi brevi il primo dei quali, “Oniricon”, era già stato pubblicato su NOVA SF Special n.1; collana dedicata agli autori italiani (nello stesso numero ricordo almeno un eccellente lavoro di Catani) che però non è andata oltre il volume d’esordio. Di “Oniricon” è stato detto (da qualche parte esiste la citazione, mi pare di Riccardo Valla?) che io scrivevo i racconti che Sheckley avrebbe voluto scrivere. “Oniricon”, il primo e forse ultimo testo che ha realizzato l’iniziale ambizione, naufragata a causa delle mie caratteristiche espressive, di creare da me per me i fascinosi racconti che non trovavo più in abbondanza sui periodici di fantascienza. Un racconto che è la summa dei luoghi e della situazioni tipiche della nostra amata forma letteraria. Che ha ricevuto anche l’onore di una recensione negativa da parte di Lino Aldani, amico prima della sincerità che dei suoi amici. In quella recensione Aldani stigmatizzava il taglio umoristico che gli avevo voluto dare, considerando che la comicità mal si accordava con il modulo fantascientifico.

Il secondo racconto, che considero senza infamia e senza lode e che invece sembra a qualcuno sia piaciuto (“Nelle nebbie della realtà”) è uno dei primi tentativi consapevoli di costruire vicende basate sui mondi alternativi (anche “Oniricon” lo è, ma venuto al mondo da sé, senza mia intenzione, come tanti figli nati in seguito a momenti di spericolato abbandono). Non arriva però, come invece accade in “Oniricon” e in “Assurdo virtuale” a mettere in questione la solidità del mondo. La descrizione della precarietà dell’essere resta in gran parte detta, esteriore: per questo a me poco piace anche se, sostiene l’editore, è buono come gli altri. Infine il terzo, “Arrivano” è un lavoro per me motivo di grande orgoglio. Realizza infatti l’obiettivo di costruire un testo ideologico che però non soffre della legnosità tipica dei testi “impegnati”. Forse perché non è impegnato nel senso tradizionale, pur essendo a tema: la storia di una presa di coscienza, la maturazione di un piccolo borghese prodotta dal combinato disposto di un’ingiustizia subita, un innamoramento e l’universale convinzione che “stanno arrivando” cioè arrivano gli alieni e metteranno a posto le cose che noi tutti, che le abbiamo guastate, non siamo in grado di raddrizzare.

Particolare invece è “Storie alla melanina verde”, incrocio contronatura tra fantascienza e giallo hard boiled. Uno scalcagnatissimo investigatore privato, alle prese con una indagine degna della di lui scalcagnataggine; e soprattutto degna di una cliente che lo assume senza mai confessare i suoi veri propositi. Non il meglio che abbia scritto, ma dopo anni e anni riesco ancora a aprire quelle pagine senza provare imbarazzi, noia o vergogna».

Qual è il romanzo cui sei più legato?

«Fra quelli editi, oltre a “L’uccisore di robot” (Futuro Europa 46) cito un libro che ha subito un trattamento indegno. Rimasto trenta anni nei cassetti di una casa editrice che non nomino per carità di patria, stava morendo di rinvii e di “sarà per il prossimo anno”, sempre presso la medesima casa editrice. Per fortuna, merito del buon Daniele Barbieri, nelle more ho trovato un neo editore che ne ha almeno fatta una edizione digitale. Un clamoroso fallimento! Un tentativo precoce, quello del neo editore; che è andato incontro a un inevitabile fallimento, proprio a causa della precocità. Avesse iniziato oggi, forse l’esito sarebbe stato meno sfavorevole di quel che è stato. Il libro in questione è “Memorie di massima sicurezza” un testo sul quale ho poco da dire. Che si può dire di un libro che ha venduto 2 o tre copie (non so bene)? Nulla. Solo tacere, e taccio. Quel poco ammissibile lo esprimo subito: un testo leggibilissimo, la cui leggibilità è data dallo stile sempre commisurato al dunque di ciò che deve esprimere. Cioè la desolazione e la follia di un protagonista che racconta le sue disavventure: l’essere di quel che tutti in effetti siamo, prigionieri politici di una società manicomiale che adopera gli splendori della scienza per rendere la vita un inferno».

Sei considerato uno degli autori più personali e innovativi che la nostra fantascienza abbia avuto. Cosa ti contraddistingue, secondo te? Qual è la tua poetica? E come pensi che il pubblico internazionale possa identificare Mauro Antonio Miglieruolo?

«Mi caratterizza l’essere tutt’uno con la fantascienza. Lo scopro oggi che a volte mi sorprendo a produrre o concepire racconti “mainstream”. Nell’atto di scriverli mi rendo conto della “differenza”: la costrizione emotiva, quasi una inquietudine, che comporta ogni “uscita” dalla fantascienza. Quasi si trattasse di un atto di normalizzazione, la rinuncia in favore della normalizzazione. Mi sento sempre in pericolo di cadere nella banalità e nella piattezza. Grave per uno come me che della varietà ha fatto la cifra caratteristica del suo scrivere.

Mi sembrerebbe quasi di poter dire che è la varietà ciò che sono ed è lo stesso che mi costringe alla pagine. Dir cose nuove, inusitate. Per questo scrivo fantascienza. Perché la varietà è anche la cifra tipica della fantascienza. Ci intendiamo bene noi due, io e la fantascienza. Facciamo sangue. Ed è anche per questo che una volta un tizio mi disse che i miei racconti erano diversissimi tra loro; che sembravano scritti ognuno da un autore diverso. Stroncatura o complimento? Chi lo sa? Nell’osservazione però mi sono riconosciuto. Possiamo dire allora, riassumendo, che la cifra che identifica i miei lavori e la varietà degli stessi?».

Vuoi raccontarci qualche aneddoto della tua vita letteraria?

«Li ho già raccontati in varie raccolte promosse dalla World SF Italia. Racconterò in breve l’ultimo, simile a tanti altri nei quali mi sono imbattuto. Una signora che mi conosceva, durante un seminario, mi chiede della mia attività di scrittore. Sapendo ormai dei miei clienti a sufficienza come la pensano, mi affretto a chiarire che sono uno scrittore sì, ma (orgogliosamente) scrittore di fantascienza. La signora fa tanto d’occhi, e osservandomi quasi con orrore, dice: “Uno bravo e intelligente come te, non ti ci facevo, sai”. E che mai le ho detto? Di essere un molestatore di bambini, forse? Qualcosa del genere, quantomeno di paragonabile. Molestatore delle belle lettere, della letteratura corrente».

Cosa pensi dello stato attuale dell’editoria?

«Fino a poco tempo fa avrei detto: un disastro. Ma l’abbattimento dei costi necessari per pubblicare un libro dato con l’editoria digitale apre spazi insperati in precedenza. C’è ancora molta confusione sotto il cielo, troppi sono quelli che scrivono e sempre meno quelli che leggono… Il peggio resta l’editoria che si muove sul piano cartaceo, stante la difficoltà residua, e però quasi insormontabile, della distribuzione. Qui l’attore tende rapidamente a diventare uno solo. Spero nel prossimo futuro che un governo amico, cioè un governo che abbia effettivamente a cuore la libertà di opinione e la cultura, apra canali distributivi accessibili a tutti, spezzando l’attuale situazione di monopolio».

Cosa possiamo attenderci in futuro da Mauro?

«Dall’editore Tabula Fati è imminente l’uscita del romanzo “I fiori del bene ovvero, come scrivere la fantascienza”. Un testo dato non solo per divertire, ma anche per riflettere. Il Prof. Addotto Ridotto ha organizzato un seminario sulla letteratura del 40° millennio: la fantascienza. Sei racconti preceduti da una breve introduzione dell’esimio professore. Ben poco di simile è stato tentato prima. Presumo. Presumendo palpito nel timore di essere smentito. Questo dei “fiori del bene” è un primo assaggio. Vagheggio infatti un più avanzato esperimento, un’antologia della quale fin’ora esiste il solo “L’arte del finale”. L’antologia divisa in tre parti e intitolata “L’Arte del Racconto” prevede tre sezioni: 1) Canoni 2) Contrappunti 3) Fughe a specchio. Riuscirò mai a scriverlo?

Due altri romanzi brevi inoltre sono nel cassetto. Romanzi in cerca di editore: “La cognizione del dolore” e “Stefano Imbelli, eroe”. Di quest’ultimo è pronto il raddoppio, ma deve essere trascritto al pc. Riuscirò a completarlo? Credo di sì, a patto mi decida a chiudermi da qualche parte e concedermi il tempo necessario (un mese?) per la rielaborazione. Altri romanzi sono in gestazione o da trascrivere. Devo proprio chiudermi da qualche parte. Nonché decidere di darmi tregua con le mie molteplici malattie…

Presto però, prima che la grande falciatrice mieta ancora. Spero mi dia il tempo di completare una raccolta (romanzi e racconti) in gran parte pronta. Spero lo faccia per vanità, perché potrebbe essere interessata: il “Transitus Animae”. Alla dea suprema l’ardua sentenza».

(*) In un primo ciclo di «Narrator in Fabula» – 14 settimane – Vincent Spasaro ha intervistato per codesto blog/bottega autori&autrici, editor, traduttori, editori dalle parti del fantastico, della fantascienza, dell’orrore e di tutto quel che si trova in “qualche altra realtà”… alla ricerca di profili, gusti, regole-eccezioni, modo di lavorare, misteri e se possibile anche del loro mondo interiore. I nomi? Danilo Arona, Clelia Farris, Fabio Lastrucci, Claudio Vergnani, Massimo Soumaré, Sandro Pergameno, Maurizio Cometto, Lorenza Ghinelli, Massimo Citi, Gordiano Lupi, Silvia Castoldi, Lorenzo Mazzoni, Giuseppe Lippi e Cristiana Astori. «Non finisce lì» aveva giurato Spasaro. Nel secondo ciclo: Angelo Marenzana, Gian Filippo Pizzo, Edoardo Rosati, Luca Barbieri, Giulio Leoni, Michele Tetro, Massimo Maugeri, Stefano Di Marino, Francesco Troccoli, Valerio Evangelisti, Alberto Panicucci, “Jessie James”, Silvio Sosio, Luca Masali, “Rick DuFer”, Gianfranco Nerozzi e oggi Mauro Antonio Miglieruolo. Fra 7 giorni o magari 14 la valanga sarà finita? Una bella valanga, no? L’idea di completarla con un’ultima intervista martellante e cattiva… a un certo Vincent Spasaro è stata raccolta da un ardimentoso. Adesso voi ingordi vorreste sapere chi tanto osò? Pazientate ancora un poco, qui “ai confini della realtà”. (db)

 

 

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

9 commenti

  • In attesa di leggere qualche commento che auspico favorevole, nonostante qualche refuso di troppo, al quale rispondere preciso, con smodata soddisfazione, che Memorie di Massima Sicurezza dovrebbe uscire per i tipi della Elara in un ancora imprecisato giorno di aprile del corrente anno. Grazie Elara. Lo ammetto, ci tenevo come non ho mai tenuto. Ognuno ha piacere a vedere pubblicate le proprie cose, personalmente non mi sono scalmanato eccessivamente per ottenerlo. Con Memorie di Massima Sicurezza avverto la differenza è la confesso.
    Speriamo di poterci ritrovare qui a parlarne.

    • Daniele Barbieri

      Dei refusi non mi ero accorto, colpa mia che dovrei rileggere i testi con la stessa concentrazione del circense prima del triplo salto mortale. A me pare una grande, lucidissima e anche divertente intervista, controcorrente dal punto di vista fantascientifico e da quello politico. Contentissimo esca “Memorie di massima sicurezza” che ho apprezzato assai… anche se il “mio Miglieruolo preferito” è altrove. Non so come finire; sono incerto fra “Verranno altri computer e avranno i tuoi refusi” oppure “Ha da venì Tablèt”. Nel gran circo c’è l’abile saltatore ma io sono quello lì, a sinistra col naso rosso.

      • Tanto sconbinato è Come Ladro di Notte quanto compatto Memorie di Massima Sicurezza. Lo è almeno nel tono dolente che unisce i frammenti di memoria. Per un autore come me, meno coinvolgente di altri, ma piú di altri attento ai problemi formali, questo è tutto. O quasi tutto. Perchè c’ è di mezzo quel che è detto nella dedica a spiegare le ragioni della mia preferenza. Ho attraversato l’inferno e ne sono uscito vivo. Memorie è il mio testimone; testimonia che io sono innocente. Come tutti noi colpevoli di quella generazione, che abbiamo mancato al nostro fondamentale dovere di portare a compimento ciò che avevamo bene iniziato.
        Siamo tutti prigionieri politici, prigionieri di noi stessi, il che ci rende prigionieri dello stato.

  • Scusate I refusi nel commento. Sono ancora in buone condizioni, il computer principale irrimediabilmente rovinato.

  • NON sono ancora in buone condizioni: la tastiera del Tablet fa come gli pare…

  • Francesco Masala

    un’intervista come un romanzo, bella davvero.

  • Chiaramente i refusi sono responsabilità mia e non di Daniele.
    You know.

  • Comincio ad avvertire nostalgia per il blog. Se qualcuno conosce a Roma e dintorni un supergastroenterologo che sia anche un essere umano, me lo segnali, per favore, aumenterebbe le mie possibilità di rientrare. Non lo credevo possibile, ma sono finito al pronto soccorso per ‘sta roba. È proprio il caso di dire: è quest’ acqua qua!
    Concludo con ciò che ho vergognosamente omesso: grazie Vincent, grazie Spalato, grazie intervistatore. Che Renzi sia sempre lontano da te. Renzi, malattia dell’anima.

  • Per il Tablet Spalato e Spasaro equivalgono. Tengo a precisare che non è lo stesso per me.
    Fatemi sapere, ad ogni buon conto, se Spalato /Spasaro ha in casa una doppietta o meno. Così comincio a correre.

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