«Nero Riflesso»: le 6 mani di Elias Mandreu

Un delitto dopo l’altro nella piccola città sarda. Possibile che c’entri il commissario, Nero Di Giovanni, appena arrivato? In realtà quel tipo torna nel luogo dove nacque da sola madre, visto che è«il bastardo» di un potente. Si vorrà vendicare? O invece è lì spedito dai Servizi che hanno fiutato qualcosa? Magari è lui la miccia. O il capro espiatorio… Si vedrà.

Bell’esordio per il trio di nuoresi– un magistrato, un pubblico funzionario e un ingegnere – che si cela dietro il sardissimo pseudonimo di Elias Mandreu: «Nero riflesso» (Il maestrale, 19 euri) forse intimidirà qualche acquirente con le sue 564 pagine ma chi ha letto con gusto «Uomini che odiano le donne» o simili lo inizi a cuor leggero: la trama è altrettanto ingarbugliata e appassionante, forse più politica; la scrittura piacevole con l’oscillare fra azione e riflessione, con schizzi di sangue e sprazzi riflessivi, pizzichi di sardità, ironia qb (per dirla in cucina) e qualche «donna perduta» non banale.

Siamo nella tipica vicenda che il giornalismo più stereotipato racconterebbe con un «gli investigatori brancolano nel buio». In effetti il primo livello narrativo, quello poliziesco con al centro il commissario Di Giovanni, è incasinato di suo con gli sbirri di alto grado che quando non sono intenti a coprire il culo dei potenti si fanno guerre e ripicche fra loro ma comunque se ne azzeccano mezza è per caso o per merito della «bassa forza». Se a casa di un «morto ammazzato» chi indaga trova i rapporti di Legambiente sulle ecomafie e libri sull’Africa nessuna lampadina si accende. Chi legge forse è meno cieco dello sbirro «che tiene famiglia e non tiene cervello» ma, in questo libro, è avvantaggiato dal saperne sempre più dei poliziotti perché c’è da subito un livello parallelo di narrazione dove incrociamo il Dottor (maiuscola d’obbligo) Silvano Bortolazzi, uomo d’affari di una ditta che potremmo anche chiamare Mafia e se sbagliamo … deve trattardi d’ una cugina di primo grado.

Così lettori e lettrici sanno (come Bortolazzi piombato lìproprio  per quello) che nelle «zone a Obiettivo Uno, il terzo mondo dell’Europa» arrivano molti finanziamenti e dunque si possono fare buoni affari. Meglio se si imbroglia un po’. Funzionari e politici in vendita se ne trovano. Il rischio maggiore è che due squali si incrocino nelle stesse acque e si facciano la guerra. Ma perfino le stragi criminali hanno una logica. Nella città senza nome di questo romanzo invece alcuni delitti non hanno senso. Sta a vedere che davvero c’è dietro la «x» della gelosia, quelle «corna» che tanto piacciono agli inquirenti conniventi con i palazzi per non avventurarsi fra mazzette e corruzione. Il trio che si cela dietro Elias Mandreu ovviamente detiene il potere di nasconderci qualcosa: c’è un terzo livello narrativo (sospeso fra amori sporchi, ricatti e sadismo) che offrirà la soluzione, davvero sorprendente per due ragioni. Il primo motivo di sconcerto è che dopo 44 colpi di scena – e persino fugaci sguardi sul possibile “lieto fine” – una mazzata così stenderebbe un mammuth. Un secondo soprassalto è ritrovarsi gabbati (per la 300esima volta?) dal meccanismo della «lettera rubata» alla Poe: cavolo, la soluzione era lì sul tavolo, perché non l’abbiamo vista? Nel terzo livello della narrazione, come nel primo, tutto è in bella mostra: per capire ci serve solo trovare «la giusta distanza» (come nel film omonimo di Mazzacurati) cioè non stare troppo dentro ma neppure fuori.

Una lettura particolarmente adatta a chi odia il cattivo giornalismo; agli appassionati di fumetti; a chi si ricorda del rasoio di Occam e di filosofia; a chi ha ben capito che certi conti miliardari sono intestati a inconsapevoli barboni o a immigrati che hanno perduto persino il nome.

Da non dimenticare la descrizione di una città annichilita e «asfissiata dallo sforzo quotidiano di estendere i limiti volumetrici massimi del proprio io». Simpatica l’auto-ironia sul «giallo» che ormai «è più un mezzo che un fine» e subito dopo sui «noir nichilisti». Eccellente la battuta di Nero sulla matematica dei questurini che vale riassumere. Visto che i conti dei panettoni (è Natale) non tornano e un collega la prende come un «gravissimo attacco alle istituzioni» ecco il commissario canzonarlo: «Questo episodio mi ha sciolto un dubbio che ho da quando faccio questo mestiere (…) I numeri. Quando ci sono le grandi manifestazioni alla questura risulta sempre la metà dei partecipanti. Alcuni sobillatori insinuano che sia la solita strategia reazionaria (…) ma ora ho capito. E’ che non sappiamo contare. Certe volte la realtà è così semplice e noi ci ostiniamo a complicarla». Ogni tanto il rasoio di Occam funziona davvero.

Ma in un romanzo riuscito e portato a termine senza errori c’è una perla che da sola varrebbe la spesa: l’interrogatorio di «Lupo, Del Bosco di cognome» è un capolavoro di humor. Fra le centomila versioni della psico-favola di Cappuccetto Rosso questa più che da Elias Mandreu sembra scritta da un inedito trio di perfidi geniali: il regista Hitchcock, Salvador Dalì e Wilhelm Reich in versione etilica. Anche perché – come fin dall’inizio chiarisce «il bastardo dei Molinas» ovvero il commissario – «alcool uguale liquido amniotico».

Questa mia recensione è uscita il 15 agosto 2009 sul quotidiano «Liberazione» (db)

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