Nigeria e nuovi vel-Eni

Corruzione Eni in Nigeria, le ragioni di Re:Common e Global Witness

di Antonio Tricarico (*) e Simon Taylor (**)

Corruzione Eni in Nigeria. Se raccontata come una storia di Hollywood, di alcuni occidentali che scoprono le presunte tangenti pagate a nigeriani corrotti, alcuni elementi sgradevoli di questa rischiano di perdersi.

Quella passata è stata una settimana da dimenticare per il gigante petrolifero Eni. Nel giro di poche ore dalla notizia che il nuovo amministratore delegato, Claudio Desclazi, e la società erano sotto indagine per corruzione riguardo a un affare in Nigeria, il titolo ha perso valore in Borsa. Anche se si è poi ripreso, e nonostante l’Eni abbia negato le accuse, ben 1,4 miliardi di dollari del capitale si sono persi quel giorno.

La storia, come è emersa sulla stampa italiana, è degna di una sceneggiatura di Hollywood. Un ministro del petrolio nigeriano che si è assegnato da solo un campo petrolifero, intascando per questo 1,1 miliardi di dollari quando è stato venduto a Eni e Shell. Intermediari russi e nigeriani che combattono per ottenere la loro parte in tribunali inglesi e statunitensi. Scatole societarie vuote che sembrano esistere solo sulla carta. Soldi per un valore di 190 milioni di dollari (tenuti dalla società del ministro e da un intermediario) confiscati nel Regno Unito e in Svizzera da un magistrato italiano.

Se raccontata come una storia di Hollywood, di alcuni occidentali che scoprono le presunte tangenti pagate a nigeriani corrotti, alcuni elementi sgradevoli di questa rischiano di perdersi. Perché non è solo una storia di nigeriani corrotti. Dai magistrati italiani e all’Alta Corte del Regno Unito è stata anche formulata l’accusa che manager dell’Eni abbiano cercato di organizzare tangenti per loro stessi nell’affare.

Non che si capisca bene questo da quanto riportato sulla stampa e nelle reazioni pubbliche generate. Si deve notare che questa accusa è stata negata dall’Eni, che non era parte del processo all’Alta Corte inglese. Negli atti processuali l’accusa è stata enfaticamente rigettata dal giudice per mancanza di prove e la non affidabilità della fonte. Si può vedere al riguardo e per maggiori dettagli la dichiarazione dell’Eni e le sue risposte alle accuse rilasciate per iscritto all’ultima assemblea degli azionisti.

Questa accusa non si adatta bene con la linea pigramente razzista (sostenuta da internauti troll e dai principali commentari e politici) secondo cui le società occidentali si macchiano di corruzione solamente quando sono costrette a pagare tangenti dagli africani, gli asiatici e i latino-americani corrotti.

È molto più comodo se la storia è narrata con il focus piazzato sui nigeriani corrotti. Da cui la reazione riportata sui media di un azionista dell’Eni: «Non è una grande notizia, ma temo che questa sia roba standard in Paesi come la Nigeria».

Né questa è una storia che riguarda solo alcuni europei che si muovono per prevenire la corruzione, sebbene i magistrati si siano finalmente mossi per bloccare i fondi. Invece questa è una storia di tribunali occidentali che si turano il naso quando presiedono alla disputa fra i presunti beneficiari di quelli che sono chiaramente affari macchiati di corruzione. Una storia di istituzioni finanziarie occidentali che hanno permesso il trasferimento di fondi ottenuti in maniera corrotta.

Una storia di occidentali, quali società come la Shell, che muovono cielo e terra per provare a smantellare la legislazione che rende la corruzione più difficile obbligando le società a rendere pubblici i propri pagamenti ai governi. Non si capirebbe nulla di tutto ciò leggendo solo quanto riportato dalla stampa.

E non è una storia che riguarda solo gruppi occidentali che fanno campagne per esporre la corruzione. È anche una storia (per niente coperta sulla stampa) di attivisti nigeriani anti-corruzione che chiedono, spesso prendendo grandi rischi, che i politici e le corporation che profittano dalla Nigeria siano controllate e rese responsabili – e che l’Occidente affronti il proprio ruolo nel facilitare e, ahimé sì, promuovere la corruzione in Nigeria e altrove. È stato un attivista nigeriano, Dotun Oloko, che – insieme a noi – ha spinto affinché il caso fosse investigato in Italia e nel Regno Unito. E l’esistenza di un’indagine inglese nell’affare Eni-Shell è venuta alla luce solo quando alcuni gruppi nigeriani hanno protestano fuori l’Alta Commissione del Regno Unito in Nigeria.

Nessuno, almeno per quel che riguarda tutti gli attivisti nigeriani, mette in dubbio che la Nigeria è oggi una cleptocrazia. Ma è una cleptocrazia alimentata direttamente dalle attività di società e ufficiali stranieri. A dire il vero prospera principalmente in quei settori dell’economia dove le multinazionali sono più presenti. E si basa sul fatto che le azioni e gli attori più importanti siano omessi dalle storie di corruzione. È ora di fermare questa mistificazione. È giunto il tempo per il pubblico italiano di costruire una politica contro la corruzione che insista sul guardarsi allo specchio.
(*) Re:Common
(**) Global Witness

PICCOLA NOTA

riprendo questo articolo da «il manifesto» del 18 settembre (db)

 

Redazione
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