Nuove scritture working class: nel nome del pane e delle rose

di Alberto Prunetti (*)

Primo antefatto. Respira e intona il mantra: «Class is not cool»

Un libro racconta la storia di un educatore precario, figlio di un operaio di una fonderia.
Padre e figlio si incontrano a parlare il sabato pomeriggio allo stadio. Come viene descritto quel romanzo inglese in Italia? Come un libro sul calcio.
Ma in realtà quel romanzo è un racconto sulla classe operaia.
Sulla working class inglese, che notoriamente attorno alla birra, al pub e al football aveva costruito elementi di convivialità e socialità.
Dopo la fabbrica, ovviamente, ma quella era già stata smantellata. Così in Italia si adotta come un libro sul calcio quello che invece è un romanzo che racconta una classe sociale. La working class inglese.

Guai infatti a parlare di classe operaia. Ripetere tre volte il mantra ad alta voce: la classe operaia non esiste – la classe operaia non esiste – la classe operaia non esiste.
Poi comprare su una piattaforma on line una penna usb assemblata in una fabbrica cinese e chiedersi quante decine di mani operaie toccano quel singolo oggetto da Shanghai a Piacenza.

Secondo antefatto. La servitù sta al piano basso, reparto «Sociologia»

Un’amica mi racconta un episodio curioso: entrata in una grande libreria di catena di Firenze, chiede una copia del mio libro Amianto, una storia operaia.
La indirizzano al piano di sotto, nel reparto sociologia.
Lei domanda perché non sia in narrativa.
E il commesso risponde: perché c’è scritto «una storia operaia».
Aggiungerei: perché gli operai possono solo essere oggetti dello sguardo sociologico di terzi, meglio se colti e borghesi, mai protagonisti di storie raccontate con le proprie parole.

«Class is under your skin.» (Annette Kuhn)
«La società non esiste.» (Margaret Thatcher)
– Working class hates Mondays.
– You don’t hate Mondays, you hate Capitalism.

Un fatto dopo gli antefatti. Le scritture working class esistono

Appunto.
Quando vuoi umiliare o attaccare un gruppo sociale, gli togli il diritto di parlare con le proprie parole.
Lasci che qualcun altro lo interpreti, parli per lui o per lei. A lungo è stato così per gli indigeni, per le donne, di sicuro è ancora così per gli immigrati.
Ed è così anche per gli operai. I racconti degli operai devono essere fatti da intellettuali, magari progressisti, appartenenti comunque alla classe media.
Mai che gli operai possano raccontarsi da soli.
Al massimo le loro storie possono essere pagine di diario o memoriali, tracce di esperienze che poi altri, intellettuali, borghesi e possibilmente maschi, interpreteranno. E invece no.

Negli ultimi anni sono stati pubblicati alcuni titoli in lingua italiana scritti da operai o da figli di operai, libri che raccontavano il mondo operaio dall’interno.
Queste scritture working class non sono (solo) narrativa del lavoro.
Non sono la narrativa del precariato o la nuova letteratura industriale. Sono la narrativa della classe operaia, fatta da operai o da lavoratori subalterni e sfruttati. Della vecchia classe operaia e della nuova classe lavoratrice, precaria e sfruttata.

Si può raccontare il lavoro senza fare narrativa working class.
Ad esempio, raccontandolo da un punto di vista che esprime lo sguardo dell’oppressore e non dell’oppresso. Si può raccontare il lavoro senza sentirsi parte di una classe subalterna, senza raccontare il conflitto sociale.
Fare scrittura working class significa soffiare sul fuoco, raccontare il conflitto, alimentarlo con le parole scritte. Storicizzare. Ritrovare fili rossi, brandelli di memorie che legano la vecchia e la nuova classe operaia.

Davvero è la nuova letteratura industriale? O un’altra corrente letteraria?

Alcune delle opere che di recente hanno trattato il tema della fabbrica o del lavoro sfruttato sono state inquadrate in un revival della letteratura industriale italiana. Io credo invece che quella stagione (legata al boom economico) sia esaurita, anche se alcuni autori forse non disdegnano quell’etichetta o ne sentono vicina l’eredità.
Personalmente, la trovo problematica. Forse è solo una mia difficoltà, ma lego la letteratura industriale più allo sguardo esterno (quello dell’intellettuale progressista dell’industria olivettiana) che a quello interno (penso ad autori come Guerazzi, Di Ruscio o Di Ciala).
E preferisco alla letteratura industriale italiana la narrativa working class inglese. Perché non è fatta solo di fabbrica e alienazione la vita della classe lavoratrice. Dove sono il calcio, le bevute, le risate, l’umorismo greve, le risse per futili motivi, le prese di culo? Chiedetelo agli inglesi.

Iron TownsPrendete Anthony Cartwright. Pensiamo a Iron Towns. Titolo da letteratura industriale italiana. Ma i protagonisti non sono operai alla catena: i personaggi umani (spesso calciatori falliti figli di fonditori) sembrano solo catalizzatori di uno sfondo, di un paesaggio industriale dove la ciminiera e il campo di calcio, quasi dismessi, rappresentano la bussola della classe operaia dell’Inghilterra del Nord. Un programma di scrittura ben condensato dall’esergo che apre il libro di Cartwright:

«Attraversiamo i nostri labirinti neri, ombre ammassate. I fuochi sono ormai tutti spenti. Noi siamo il fumo che segna il mattone. Siamo il ruggito di ferro che credevate d’aver messo a tacere. Cantiamo al metallo contorto e lungo tunnel allagati, sopra distese vuote d’acqua e campi di detriti. Cantiamo di giorni migliori.»

Senza rimpiangere il passato della letteratura industriale, scriviamo adesso l’epopea stracciona della classe lavoratrice del nostri giorni.

No, sono solo scritture operaie (but I like ’em)

Parlo di scritture operaie, pertanto, limitandomi al dato materiale dell’estrazione sociale degli autori e dei temi trattati. Parlo di scritture, al massimo di narrativa working class e non di letteratura operaia.
E neanche di letteratura industriale, ossia di una corrente letteraria legata agli anni Sessanta, al boom economico, all’industrializzazione del paese, a intellettuali che descrivevano, guardando da fuori, la classe operaia.
Roba lontana. Parlo di scritture operaie o scritture working class per non evocare lo spettro di una nuova wave letteraria.
Non si tratta di stare dentro o fuori una scuola, di una congrega o di un gruppo di lavoro. Si tratta di stare dentro o fuori la nuova classe lavoratrice. Pertanto parlo di scritture working class per riferirmi a scritture sul mondo del lavoro con un punto di vista interno, in anni di deindustrializzazione, fatte 1) da operai o 2) da figli di operai, cresciuti e socializzati nella vecchia classe operaia, o 3) da membri della nuova classe lavoratrice precaria dei servizi, delle pulizie, della ristorazione: dalla nuova working class a cui appartengono anche i working poor e i disoccupati con o senza laurea, i cottimari dei lavori, anche cognitivi, mal pagati e i precari dei lavori a chiamata.

E la loro strada è in salita

La narrativa working class non trova un tappeto rosso che conduca dalle fabbriche o dai centri per l’impiego alle case editrici. Certo, alcuni titoli sono stati mandati in stampa. Ma quanti sono stati rifiutati?
E cosa si pubblica al loro posto? Se siete hipster o o fashion blogger avrete probabilmente più chance di essere pubblicati di un metalmeccanico, di una disoccupata o di un’infermiera.
Non solo in Italia, anche altrove. Working class is not cool. Alle storie di classe, si preferisce un’angolatura generazionale, che depotenzia ogni approccio strutturale e politico: avanti coi millennials, con la generazione Erasmus, con gli young adults,e via di questo passo.

Di recente vari scrittori in lingua inglese hanno tentato di inserire il tema della classe sociale nel dibattito in corso sulla parità di rappresentazione e di opportunità nella sfera letteraria. Ma hanno trovato un muro: le esperienze delle classi inferiori tendono a suscitare poco interesse in editor e recensori.

La letteratura assume volentieri il punto di vista dei ceti privilegiati. A lungo gli scrittori sono stati maschi bianchi di classe media. Ad oggi, i gruppi discriminati stanno parzialmente recuperando terreno. Quel terreno che giustamente è loro dovuto.
Aumentano sì, questo sì (almeno all’estero) i romanzi scritti da donne, minoranze etniche e gruppi oppressi per il proprio orientamento sessuale. Così che adesso si pubblicano con interesse romanzi che parlano di omosessuali e lesbiche, o di afroamericani e ispanici.
Ma c’è una categoria, oltre a quella di genere, razza e appartenenza etnica, che non viene assolutamente considerata intrigante dagli editor: quella di classe. Le appartenenze identitarie (genere, etnicità, orientamento sessuale) sono ormai preferite alle affiliazioni di classe sociale ed economica.
E la situazione si aggrava quando i manoscritti provengono da quell’enorme sacca di discriminazione che è la classe lavoratrice.
Peggio ancora se i piani si sovrappongono, sommando discriminazione a discriminazione: una donna operaia, magari una lavoratrice di origine nigeriana che usa per esprimersi l’italiano come lingua madre, quante chance ha di pubblicare un libro, nella propria vita?

«We are all middle class» (Tony Blair)

Dagli anni Novanta si è diffusa una narrativa che ci vuole tutti «ceto medio»: un capitalismo di proprietari senza proletari, nessuno che fa le pulizie o la cassiera al supermercato, il sogno di Pinochet realizzato con la democrazia neoliberista di Reagan e Thatcher e portato a compimento dal New Labour di Blair.
In realtà è una cortina di fumo: negli ultimi anni la lotta di classe nessuno l’ha fatta più della classe media neoliberista, che ha spinto il proprio classismo al punto di togliere alla working class anche la parola «classe», lasciandole solo il lavoro, ma un lavoro sfruttato, umiliato, schiavizzato.
Un’upper middle class che ha decretato la morte della classe subalterna, prima frantumando i processi produttivi, poi distruggendo le industrie per coltivare un’economia di servizi e finanza mentre le merci venivano prodotte lontano da Europa e America: il lavoro sporco, meglio farlo altrove.
La strategia retorica voleva che si cancellasse l’uso della parola «classe» dal vocabolario della politica per distruggere la cosa: per frantumare le comunità operaie, la vita e i quartieri e le strutture di resistenza, politiche e sindacali, di un’intera classe sociale. Per annullare l’immaginario del proletariato, al fine di eroderne la conflittualità. Stat rosa pristina nomine.

(Continua)

(*) Tratto da Giap.

L’immagine in alto è tratta dal graphic novel Ferriera di Pia Valentinis.

alexik

3 commenti

  • FINALMENTE … !!!??? … un bel parlare di classe operaia .. non quella dell’iconografia tardococialista .. lo sfruttamento la lotta blabla il partito il sol dell’avvenire blabla .. ma il mondo del lavoro nella sua ricchezza e complessità .. quel mondo che già debordava dalle ideologie
    negli anni ’70 .. quel mondo che già faceva scritture .. vedi Guerrazzi, Di Ciaula, Di Ruscio,
    Brugnaro, .. poi l’esperienza della rivista “abiti-lavoro” ..(un decennio .. mille pagine .. decine di
    voci .. “quaderni di scrittura operaia” ..) .. voci “selvagge” venivano etichettate dagli intellettuali .. la parola ..il sapere .. quando viene utilizzato reinventato dai vinti crea fastidio e silenzio ..
    ed allora .. ecco puntuali accademici pennivendoli riscrivere la storia per i vincitori .. cancellare altri mondi per osannare lo stato presente delle cose ..
    che mille fiori sboccino diceva .. il presidente Mao ………………..

  • Alexik, ti amo. Vado lontano ma cercherò di seguirti ugualmente

  • Ma veramente la dichiarazione d’amore dovresti farla al Prunetti, che ha scritto l’articolo, non a me.
    Abrazos, Alexik

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