Olivier Dubois*, fra genio e dissacrazione

di Susanna Sinigaglia – My body of coming forth by day

Olivier Dubois è considerato tra i migliori coreografi e danzatori a livello mondiale ed è, aggiungerei, anche fra i più originali. Si legge nella presentazione dello spettacolo sul sito della Triennale:

In My body of coming forth by day, che FOG presenta in prima europea (dopo il debutto al Cairo lo scorso settembre), Dubois si interroga sulla possibilità del corpo di figurarsi come opera d’arte, come mostruoso capolavoro, come souvenir, amplificatore del suo annullamento per la pratica della danza. Un corpo che conserva dentro di sé migliaia di movimenti, gesti, posizioni, sensazioni, litri di sudore e sangue, centinaia di ferite e cicatrici, un ammasso di gioie e dolori. Cosa resta di tutto ciò?

Già: “Cosa resta di tutto ciò”?

La domanda rimanda al titolo che riecheggia l’egizio Libro per uscire al giorno – in inglese, Book of Coming Forth by Day –, più noto come “Libro dei morti“, una guida da usare nel viaggio verso l’oltretomba per raggiugere l’immortalità. Di qui l’evocativo My body of coming forth by day. Lo conferma lo stesso Dubois durante un’intervista rilasciata a “la Repubblica” online del marzo scorso: “Senza svelare troppo, posso dire che l’ispirazione è il ‘Libro dei morti’ egizio. Mi offro come su un tavolo anatomico per un processo di mummificazione che prevede lo svuotamento delle mie interiora”.

Di Olivier Dubois avevo visto uno spettacolo a metà marzo (vedi “La bottega del Barbieri” n.), Mémoires d’un seigneur; una coreografia densa, drammatica, sul potere maschile, le sue illusioni di onnipotenza, le sue debolezze e le sue cadute. Ero rimasta affascinata dalla potenza che sprigionavano i performer, tutti dilettanti, e dal protagonista, Rémi Richaud. Mentre in quella performance prevaleva la forza, la potenza anche nell’inevitabile rovina del “seigneur”, in questo assolo di Olivier Dubois prevale una sorta di ostentazione della fragilità, accompagnata da un’autoironia che spesso scivola nel grottesco e da cui affiora a tratti il senso del tragico.

Innanzitutto, mi è sembrato che lo spettacolo volesse essere una potente provocazione, mirasse a smantellare gli stereotipi che si sono costruiti intorno alla danza e in particolare alla danza classica con i suoi corpi scolpiti e i suoi rituali che, malgrado l’ondata d’innovazione portata da personaggi celebri e rivoluzionari nell’ultimo secolo, continuano a riproporsi e riprodursi con preoccupante, pervicace continuità.

È lo stesso “personaggio” Olivier Dubois, con il suo ruolo di “enfant terrible” della danza contemporanea, il suo fisico grassoccio ben lontano da quello che s’immagina debba avere un ballerino di danza classica, a incarnare il prototipo della dissacrazione, un’immagine insopportabile per gran parte del mondo del teatro occidentale.

Si è cimentato in ruoli interpretati dai più famosi artisti della danza creando perciò scandalo: l’hanno chiamato addirittura “un maiale che danza” quando ha voluto indossare gli stessi panni nientemeno che di grandi quali Vaslav Nižinskij e Rudolf Nureev in L’après midi d’un faune di Debussy, ponendosi al loro stesso livello.

Lo spettacolo presentato alla Triennale non si svolgeva nei locali del teatro, nei sotterranei, bensì al primo piano in una sala forse adibita all’allestimento di mostre non troppo grandi, viste le sue dimensioni. Ce lo troviamo all’improvviso di fronte, Olivier Dubois, vestito in abito scuro e camicia bianca; potrebbe essere scambiato per un semplice direttore di cerimonie. E quasi a conferma di quest’impressione, afferra una bottiglia di vino rosé posta sul tavolino sistemato su un lato della sala, che funge da spazio scenico, e l’apre con l’apposito cavaturaccioli. Poi versa il vino in un calice e comincia a berlo offrendolo anche al pubblico che si sta sistemando in sala. È piuttosto piccolo di statura, ha capelli radi e un’aria da goffo anatroccolo. Si accende una sigaretta suscitando le proteste di un’anziana signora che minaccia di denunciarlo, poi dopo qualche tiro di fumo e qualche altra sorsata, Olivier Dubois si siede al tavolino e introduce, in inglese, la sua performance: il brano soprariportato dal sito della Triennale ne sintetizza il pensiero. Quindi propone al pubblico un gioco: a turno, chiamerà tre spettatori; a due di loro chiederà di scegliere una busta bianca da due serie diverse che presenterà aperte come mazzi di carte da gioco, mentre il terzo dovrà – alla fine della sequenza – chiedergli un capo del suo abbigliamento o uno degli oggetti personali. All’interno di una busta, si trova il titolo di uno spettacolo di danza da lui interpretato in passato e, all’interno dell’altra, di un brano musicale: il performer potrà scegliere – consultandosi con gli spettatori – se interpretare la coreografia legata al brano musicale o lo spettacolo di danza, naturalmente accompagnato dalle musiche originali. E così si esibisce volta per volta in spezzoni di queste coreografie, con il suo corpo memore ma affaticato dal vino – che ha continuato a bere – e dal fumo delle sigarette (ne ha acceso un’altra durante la sua esibizione). Si toglie quindi giacca e camicia, cintura e pantaloni restando in mutande, il petto e la schiena imperlata di sudore, il viso paonazzo, il respiro affannoso.

Lo spettacolo va avanti seguendo sempre lo stesso schema suscitando nel pubblico – composto anche da liceali incontrati, suppongo, nei giorni che hanno preceduto la performance – ilarità e complicità ma anche sconcerto, disappunto o angoscia o compassione o un misto di tutte queste emozioni: quel che “resta di tutto ciò”.

La performance si conclude con Olivier Dubois che, avvolto in un manto verde e ricoperto di polvere luccicante, coinvolge il pubblico in una danza scatenata collettiva.

Le-choregraphe-Olivier-Dubois-17-janvier-2014-Paris

www.triennale.org/teatro/olivier-dubois-my-body-of-coming-forth-by-day/

* di Olivier Dubois si era parlato qui

 

Susanna Sinigaglia
Non mi piace molto parlare in prima persona; dire “io sono”, “io faccio” questo e quello ecc. ma per accontentare gli amici-compagni della Bottega, mi piego.
Quindi , sono nata ad Ancona e amo il mare ma sto a Milano da tutta una vita e non so se abiterei da qualsiasi altra parte. M’impegno su vari fronti (la questione Israele-Palestina con tutte le sue ricadute, ma anche per la difesa dell’ambiente); lavoro da anni a un progetto di scrittura e a uno artistico con successi alterni. È la passione per la ricerca che ha nutrito i miei progetti.

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