Partita a scacchi nel Pacifico

  

Racconto di Antonio Fantozzi – seconda e ultima parte

 

Porino fiolo mio benedetto, ciai la maglina de lanella, le pantifoline, la spirina, eh, cellai, cellai? Ah fiolo mio benedetto, quanti volti ta ditto dessi previdenti? Nu se po’ mai sapiri, te vieni la pleuriti e o malo de dinti. Quanti lacrimuni me fai piangiri.
   Takaimura è un posto dove nessuno ci vuole stare otto mesi, e neanche sei, e quattro, e due, e… Takaimura è un posto dove nessuno ci vuole stare neanche un solo minuto. Takaimura è un posto dove nel 1999 è successo un incidente nucleare. Non se n’è quasi parlato, c’era la guerra alla Serbia, quella guerra scoppiata a causa di un filmino porno amatoriale girato di nascosto alla casa bianca con quell’attricetta, Monica mi pare, e quell’attore consumato e suonatore di sassofono di nome Bill. 
   Fammelo suonare, fammelo suonare, lo implorava la Monica, dammelo dammelo, ti prego in ginocchio. 
   Però il bocchino non era della sua misura, e lei soffiava e soffiava. Qualcosa, a forza di prova e riprova, alla fine uscì. Ma non era musica. Era piuttosto una cosa liquida e sospirante, un mugolio, uno squittio. Ma non divaghiamo, la vita fa già abbastanza schifo. Nel 1999 a Takaimura successe un incidente. Degli operai versarono sedici chili di uranio, invece dei tre previsti, in una vasca di purificazione piena di acido nitrico. Cazzo!, è come un film di fantascienza, parte un raggio di luce blu fatto di neutroni e raggi Y, ziiin, ziiin, ziiin, bing, ziiin, bing! Scintille radioattive in ogni direzione, effetti speciali della Light & Magic e della Dream Works Pictures. Un fuoco d’artificio radioattivo, un party all’aperto con tanto di barbeque che arrostisce  carne umana. Mandano tre uomini a spegnerlo, tre samurai di quelli senza padrone che là chiamano ronin. Se fosse successo in Germania ci avrebbero mandato tre turchi. Ogni popolo ha le sue tradizioni, qualcosa che ha attinenza con il relativismo culturale. Che bella espressione! Che assolve tutti in modo che nessuno abbia mai colpa. Ma questa è un’altra storia. La storia presente vede il nostro povero Tom rinchiuso in una cella di tre metri per due, con la luce accesa giorno e notte e notte e giorno, e quindici minuti d’aria. Ma quale aria? Vicino a questo impianto nucleare, meglio stare in cella. Però Tom non è uno che si avvilisce per un nonnulla. Guarda dalla finestra e vede che il cortile è pieno di colombi. Allora comincia a pensare, a pensare, e alla fine flap!, una lampadina gli si accende nella mente. Ma cosa fa? Sbriciola un pezzetto di pane?
   Fiolo mio benedetto, lo pani è sacri come lo cori di Gesù bambini! 
   Tom mette le briciole sul davanzale della piccola finestra e aspetta, aspetta, aspetta.
   Tom Hanks tiene un colombo tra le mani e lo accarezza benevolo. Gli sta sussurrando qualcosa all’opercolo destro, che è un po’ come l’orecchio umano.
   Fiolo mio benedetto, se ciai la  fidi te puoi parlari con l’animali comi Santi Francisci.
   Lo accarezzava e lo rassicurava, il colombo, e intanto pensava, pensava. Era bianco, il colombo, come la neve, come la panna montata, come le mutandine di quella bambina che gli strizzava l’occhio alle elementari. Quelle mutandine che gli accendevano umide voglie la sera, a letto, solo a pensarci. Proprio così, i ricordi sono spietati. Pensava e accarezzava quel colombo bianco come il latte, quel colombo bianco che era una colomba.
   La abituò a volare sul davanzale della finestra della sua piccola cella, a beccare le briciole di pane o di biscotto, a saltargli in mano tubando innamorata, e intanto pensava e pensava.
   Alla fine un’idea gli sfavillò nella mente, scintillante come una goccia di rugiada nel primo sole del mattino.
   Gli serviva un pezzetto di carta e un mozzicone di matita. Cose comuni, facili da trovare… E invece no, orribilmente difficili, più difficili che costruire un ponte di legno sul fiume Kway, più difficili che farlo saltare. E intanto i giorni passavano, e gli crescevano i capelli e la barba. Ma come Alec Guinness, anche lui non si dava per vinto, tenace come Mosè e stoico come Giobbe. La carta non era il vero problema, poteva sostituirla con un pezzetto di lenzuolo, o di camicia. Però il mozzicone di matita… Accarezzava la colomba, sentiva la morbidezza delle piume. Ma certo, era così semplice, quasi come bere un bicchier d’acqua.
   Scrisse un breve messaggio su un pezzo di stoffa, una piuma come penna e il sangue come inchiostro. Lo arrotolò alla zampa della colomba e lo legò con un capello, le sussurrò qualcosa e la depose sul davanzale. Ora bisognava solo aspettare. Aspettare, aspettare. Però la colomba non volava via, tubava, tubava e muoveva il collo avanti e indietro, e… Però non volava via.
   Sciò! Sciò!, faceva Tom agitando le braccia, Vola vola vola! Macchè, la colomba era sempre lì a tubare. Allora Tom cominciò a miagolare e gnaulare, ma come gatto era il più improbabile degli umani. Allora abbaiò, e ringhiò, e ruggì. La colomba stava sempre là, sul davanzale. Allora Tom si nascose sotto il pagliericcio e provò a fare il verso della gazza, e della cornacchia e poi del corvo. Gracchiava e strideva come un forsennato, crah! crah! crah! rak! rak! rak! Si addormentò così, sul pavimento, senza fiato e senza voce. Tom dormiva e forse sognava. Un finale di torri sopra una scacchiera desolata che era il mondo, tra mucchi di macerie e rovine, con nuvole di fumo che s’alzavano tutt’intorno e odore di carne bruciata, e arrivava un aeroplano e colpiva una torre e la torre cadeva. 
   Così è sleale, piagnucolava Tom, non ci sono aeroplani nel gioco degli scacchi.
   E ne arrivò un altro e andò giù anche l’altra torre. 
   Scacco matto!, sentì la voce di Dio urlargli nella testa. Tom si svegliò all’improvviso e bang!, picchiò la testa contro il telaio metallico del letto e un rivolo di sangue gli rigò la fronte. La colomba non c’era più, e nemmeno Dio.
   Tom aspettava, un quarto d’ora d’aria al giorno, ieri, oggi, domani, dopodomani, e il giorno dopo e quello seguente e l’altro ancora. Tom pensava a nuove partite e così passava il tempo, tra la brodaglia a colazione e quella a pranzo e quella a cena. Un giorno dopo l’altro, una settimana dopo l’altra, un mese dopo l’altro. Tom creava nella mente partite con i pezzi disposti a caso, emancipati dalle aperture obbligatorie e dalle loro variazioni. Tom il genio negava la gerarchia sulla scacchiera del mondo e ogni sudditanza. Tom emancipava i giocatori dall’accademia e li metteva infine su uno stesso piano di parità e uguaglianza, urlando infine, tolte le disparità, Vediamo ora chi è il più bravo! Tom regalava giustizia al mondo e rendeva onore all’arte, e intanto i capelli e la barba crescevano, e i denti si cariavano, e la colomba non tornava. Per forza, piagnucolava Tom, le ho strappato una piuma. E io allora, che mi sono mezzo dissanguato! Certo, stava esagerando, ma la verità non è forse nell’esagerazione? Forse che qualcuno darebbe retta a un altro se il racconto di questo non fosse pieno di iperboli ed eccessi? Alla verità così com’è nessuno crede e mai vorrà credere. E’ così che siamo fatti, e siamo fatti male. Ma questa è un’altra storia, dove l’insensibilità dell’uomo per le disgrazie altrui fa da padrona, ed è la storia di ogni giorno della nostra vita e la conosciamo fin troppo bene.
   E intanto Tom sognava partite impossibili e aspettava una colomba che non voleva tornare. Lui invecchiava e imbiancava e qualche volta si avviliva, ma come dice il proverbio, il cuore non invecchia mai, e il suo, di cuore, era saldo come una roccia e ricolmo di speranza e giovane come un puledro. E venne il Natale e il capodanno e l’epifania e il carnevale. Ormai anche la Pasqua non era lontana. Pasqua di resurrezione. Ma la colomba dov’era finita? La colomba mandata da Noè a cercare un rametto piccino piccino di speranza. Era volata via davvero? Era andata da qualche parte, una qualsiasi parte, un qualsiasi luogo di questo mondo immondo? Certo non l’aveva più vista, certo non era più nel cortile, ma dove fosse, chi poteva dirlo? Non lui di certo.

   A Reggio Emilia c’era un barbone addormentato sopra a una panchina, un uomo che non aveva mai fatto male a una mosca. Dormiva e sognava. Di un uomo dalla pelle olivastra e vestito di bianco, un uomo d’altri tempi che indossava una tunica lunga fino ai piedi, e lunghi erano i suoi capelli e la sua barba, e gli sembrava di conoscerlo quell’uomo, giovane e alto, e quello gli parlava e gli diceva svegliati, svegliati,  in un sussurro, svegliati, svegliati, su, svegliati, su su… tuuh tuuh tuuh… Strano modo di parlare, però gli occhi non volevano aprirsi, le palpebre come incollate, e si sforzava e c’era una luce e un poco faceva male. Tuuh tuuh tuuh, ancora quel suono, come, come… Socchiuse gli occhi e la vivida luce del sole lo svegliò di colpo. Tuuh tuuh tuuh, ancora quel suono. Si tirò seduto e si guardò intorno ancora spaesato. Una colomba bianca come l’anima di un bambino dal ramo di un albero gli volò accanto e si posò ai suoi piedi. Una colomba che aveva qualcosa legato a una zampa. Tuuh tuuh tuuh… Il barbone si mise una mano in tasca e ne tirò fuori qualcosa, aprì il pugno e c’erano briciole e grani, poi restò così e aspettò. La colomba cominciò a beccare dalla mano, lui la accarezzò e poi la raccolse e la sollevò delicatamente. Si stupì di quel pezzetto di stoffa legato con un capello, lo slacciò e lo lesse.
   Sono Tom Hanks. Sono in un campo di prigionia in Giappone. Aiuto!
   Mamma mia è scoppiata un’altra guerra!, pensò. E non era di sicuro il pensiero di uno sprovveduto. Provateci voi a elencarle tutte le guerre che ci sono oggi nel mondo. Ci sputo sopra se ci riuscite. Qui a Reggio Emilia, poi, nella terra del pensiero circolare come le sue mille rotatorie, nel paese degli ufo, come dire Disneyland in Pianura Padana, l’Area 51 è qui, e del torpore soporifero generale. E ogni giorno che passa ce n’è una nuova. Quanto al mittente, questo Tom Hanks, gli ricordava qualcosa. Una faccia che gli sembrava di avere visto al cinema. Si mise la mano in tasca un’altra volta e la ritrasse piena di briciole e grani che depose sulla panchina, poi raccolse le sue poche cose e andò in biblioteca, la Panizzi di via Farini. Faceva ancora freddo, ma il sole splendeva alto nel cielo. La primavera non era lontana, e neanche la Pasqua.
   Ragazzi e ragazze affollavano la via tra la biblioteca e la chiesa di San Michele lì di fronte. Oppure infilati nella torrefazione che è proprio a due passi. A gustarsi chissà quale bevanda esotica, tè della Papua Nuova Guinea e caffè del Suriname o del Belize. Ragazzi e ragazze molto al dente che fumavano e chiacchieravano e sorridevano candidi, e si davano un tono e facevano l’università e stavano lì a far finta di studiare, più indaffarati con i telefonini che con le pagine dei libri, sempre pronti a mandare messaggi e a riceverli, per una festa stasera o domani sera, o per un incontro in chissà quale birreria esclusiva come lo può essere la piazza del mercato, tutti in mucchio e tutti membri della stessa mandria. Ragazzi che di certo sono il nostro futuro, quanto roseo non si può dire.
   Neanche gli badò passandogli attraverso come un cucchiaio sporco nella crema. Vestito di tutti i vestiti della terra, arrangiati e senza forma, con una cuffia di lana nera calcata su una chioma di lunghi capelli neri su una faccia nera di sole incorniciata da una barba nera anche quella. E per contrasto due occhi grigi come il granito lucenti nel sole già alto nel cielo, e un sorriso candido come schiuma di sapone. Se non fosse stato per l’apparenza, di lui si sarebbe potuto dire che fosse bello, molto bello, ma anche questa è un’altra storia e non so se ve la voglio raccontare.
   Salì le scale fino alla sala di consultazione. Guardò senza guardare attraverso la porta a vetri, la spinse ed entrò. Si mise seduto a un tavolo e restò qualche momento pensieroso. Teneva il pezzetto di stoffa tra le dita. Lo lesse e rilesse. Nessuna data. E poi poteva essere uno scherzo. Una colomba bianca, venuta fin dal Giappone, e a Reggio Emilia, poi, il buco del culo del mondo, attraverso il tenue e il crasso, come dire una passeggiata, in volo sopra a oceani e continenti. Però c’era il sogno, e quella figura alta e snella vestita di bianco, che suggeriva devozione e rispetto e infine amore. Un uomo buono. A uno così non si poteva dire di no. E adesso era lì, in biblioteca, però nel posto sbagliato. Doveva fare una ricerca, ma non su un giornale o un libro. Ci voleva un mezzo più diretto e aggiornato, un giornale mondiale in tutte le lingue del mondo e con del mondo tutti i punti di vista, in tempo reale qui e ora. Uscì dalla stanza e ridiscese le scale. Una signora con gli occhiali e con i capelli raccolti sulla nuca stava seduta davanti allo schermo di un computer, assorta. Bella, di quel color del miele così dolce per gli occhi che al barbone ogni volta gli veniva voglia di mangiarla in un boccone. 
   Ah, sei tu, Emilio. Mi hai messo paura. Il barbone sorrise, e sorrise anche lei. Lei lo chiamava per nome, ma in città lui era il Salgaro.
   Ti o emme, è il nome. Acca a enne cappa esse, il cognome, disse il barbone. La donna aveva già battuto le lettere sulla tastiera. 
   Ti interessano gli scacchi?, gli chiese. Lui non disse nulla, soltanto strinse le spalle.
   E’ un campione di scacchi, disse la donna, Tom Hanks.
   Credevo fosse un attore.
   Sì, ha fatto una particina in uno o due film, ma è un genio degli scacchi. Vediamo un po’ cosa dice l’oracolo.
   Oracolo, strano modo di chiamare un computer. 
   C’è un articolo del manifesto di luglio dell’altr’anno, un altro di Repubblica, poi c’è qualcosa su Wikipedia, l’enciclopedia on line. Vediamo un po’. Ecco. Prova a leggere questo, Emilio, siediti.
   La donna si alzò e gli cedette il posto.  
   Il mouse lo sai usare, e poi mi sa che non me la racconti giusta.
   E il barbone di nome Emilio si sedette e cominciò a leggere.
   Io intanto esco a fumare una sigaretta, disse la donna.
   Emilio leggeva e leggeva, della sua infanzia, dei primi successi, delle sue manie, del titolo di campione nel 1972 e della scomunica americana nel 1992, quando andò a Belgrado a dispetto dell’embargo e poi si imbarcò su un aereo forse per il Giappone e che in Giappone non arrivò mai. Ci fu un disastro, probabilmente, e dell’aereo, del suo equipaggio e dei passeggeri non restò traccia. Settimane di ricerche nel Pacifico che non portarono a nulla. Per quello che si sapeva, il povero Tom era morto in quel disastro. Ma c’era quel pezzetto di stoffa portato da una colomba bianca e legato con un capello. Un capello di Tom Hanks di sicuro. E poi restava un altro mistero, la lingua in cui era scritto il biglietto, una lingua che tutti potevano capire, la lingua unica del mondo unico, la neo-lingua dell’unico mondo possibile. 
   Hai trovato qualcosa?, gli chiese la donna.
   Lui le mostrò il pezzetto di stoffa. Lei non fece domande, non disse una parola. Solo una ruga pensierosa a forma di u le incise la fronte tra gli occhi, ed era ancora più bella. Dio come gli piaceva! 
   Era legato con un capello alla zampa di una colomba bianca che mi ha svegliato stamattina nel parco, una colomba bianca che non aveva paura di me, annunciata da un sogno che ho fatto.
    La donna lo guardò perplessa e poi gli chiese del sogno, e lui glielo raccontò.
   A sentirlo non sembra vero, disse la donna, eppure… Sai cosa facciamo, se sei d’accordo? Mando una mail alle agenzie di stampa mondiali, alla Reuters, all’Ansa, alla Cnn, a tutte le agenzie che mi vengono in mente. Lo stesso messaggio che ti ha portato la colomba: Sono Tom Hanks. Sono in un campo di prigionia in Giappone. Aiuto! Nulla di più e nulla di meno. E poi vediamo cosa succede. Dopo ti posso offrire un caffè? Ho mezz’ora di pausa fra un po’, la mia mezz’ora d’aria. Ti va?
   E fu così che Tom Hanks fu liberato dal campo giapponese. La notizia rimbalzò da un’agenzia all’altra, e arrivò in Islanda, dove il governo preparò subito un passaporto dichiarandolo suo cittadino onorario, e il 24 marzo, la vigilia della Pasqua, il povero Tom poté prendere un aereo per Reykjavik, finalmente libero. 
   Fiolo mio benedetto, te l’avivi ditto de pregari la Madunni e tutti Santi. Bona Pasqua, fiolo mio benedetto e fatti na billa duccia inda Slanda che me pari nu barboni. Ce l’anni a duccia inda Slanda? Eh, ce l’anni?
   Una colomba bianca, un barbone e un’impiegata di biblioteca avevano reso la sua liberazione possibile. Una compagnia assolutamente improbabile, tre esseri che non gli avresti dato un soldo, e invece…

Nota:
Le notizie su Robert James Fischer (Bobby) sono vere.
Ho poi mischiato le trame di due film, Cast away di Robert Zemeckis e The Terminal di Steven Spielberg. C’è anche una piccola citazione de Il miglio verde di Frank Darabont.

Clelia

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