Per ricordare Giulio Stocchi…

… con le sue parole

La poesia come viaggio. Léopold Senghor e Aimé Césaire letti e interpretati da Giulio Stocchi

Quanto vi apprestate a leggere è la trascrizione dell’intervento che ho tenuto il 13 ottobre 2007 nell’ambito della terza edizione del Festival della Storia diretto e ideato da Angelo D’Orsi. Il tema del Festival era: “Di che ‘Razza’ sei? Un mito pericoloso”.

Ma perché questo titolo: La poesia come viaggio?

Perché, come potrete rendervi conto leggendo, in questo scritto, fin dalle prime parole, tutto comincia a muoversi, a spostarsi e, insomma, a mettersi in viaggio: il concetto di negritudine inizia la sua corsa per paesi e continenti; i due poeti ragazzi, Aimé Césaire e Léopold Senghor che l’hanno enunciato per la prima volta nelle loro poesie, tornano, uno con una nave a vapore, verso il suo paese natale, la Martinica, e l’altro, sulle ali della fantasia, all’Africa favolosa della sua infanzia; chi scrive, proprio grazie alla poesia, prende a viaggiare nel tempo e nella storia alla ricerca del senso e della ragione di parole pronunciate più di settanta anni fa e così ha modo di conoscere altri viaggiatori, la sventurata Sarah Baarthman, la bella Joséphine Baker, André Breton a Fort-de-France, Sartre nei bistrots parigini, i nazisti sul lago Wannsee, Fanon nel manicomio di Blida in Algeria, la miseria senza nome di chi cerca di approdare clandestino alle nostre coste… e i riti, le maschere, i miti di civiltà a noi lontane e da noi saccheggiate…

E in tutto questo viaggiare, io, che sono un poeta, non faccio altro che riscoprire il significato profondo della poesia: che è un viaggio. Come le mappe, i portolani, le carte geografiche sono i modelli che gli uomini si sono costruiti per spostarsi nella geografia del pianeta, così la poesia, e più in generale l’arte, sono il modello che gli uomini si sono costruiti per addentrarsi nel loro immaginario.

Un viaggio, quello che la poesia compie, privo dei passaporti di cui hanno bisogno e dei controlli cui sono sottoposti i viaggiatori alle frontiere di Stati, paesi e continenti. E cioè, un viaggio di libertà.

Come quello che hanno intrapreso Aimé Césaire e Léopold Senghor, i due poeti con i quali tra poco inizieremo a incamminarci…

Angelo D’Orsi: Con il concetto di negritudine c’è per così dire un razzismo progressivo che emerge dalle letture che noi vi proporremo, che Giulio Stocchi vi proporrà. Stocchi si concentrerà su due autori che sono Léopold Senghor ed Aimé Césaire, ma c’è tutta una elaborazione che arriverà a saggisti come Franz Fanon o lo stesso Sartre che in qualche modo ripudia la cultura bianca: “l’unico bianco buono in Africa è un bianco morto”, la famosa frase di Sartre che suscitò tanto scandalo. Mi sembrava giusto inserire, pur nell’ambito di un programma piuttosto ricco che naturalmente non può affrontare tutte le tematiche inerenti al tema razza, altrimenti il Festival non sarebbe durato quattro giorni e mezzo ma quattro anni e mezzo e non so

se le nostre forze sarebbero state bastevoli a tale peso, e mi sembrava, dicevo, giusto anche inserire questo piccolo cameo pensato in una forma un po’ particolare. Dopo di che Giulio Stocchi farà il resto e gli cedo la parola. Grazie di essere con noi.

Giulio Stocchi: Grazie, grazie mille e grazie a voi. Io innanzitutto vorrei iniziare citando una massima degli Antichi: “Panta en gunata zeòn keitai”, “Tutto riposa sulle ginocchia degli dei”. Ginocchia che, nel mio caso, si sono dimostrate particolarmente scomode, disagevoli e ossute in quanto, come potete vedere da questo mio viso vagamente storto, soffro da giorni di un fastidiosissimo ascesso al dente e quindi non vorrei che questo possa provocare inconvenienti, dei quali in anticipo mi scuso, che non sia costretto a interrompermi, che non mi si secchi la gola e, soprattutto, che non mi vada insieme la testa.

In questo discorso introduttivo, prima di dare la parola a Léopold Senghor e ad Aimé Césaire, cercherò, parlandovi da poeta e non da storico, di raccontarvi un po’ la storia di un concetto, che è quello di negritudine che, in buona sostanza, vuol dire la rivendicazione e l’affermazione della identità e della dignità dei “negri” in quanto popolo e in quanto “razza”, un concetto che è stato enunciato per la prima volta in poesia, ma che è uscito ben presto dalle pagine dei libri, ha preso a camminare con le gambe e con la testa di migliaia di militanti, combattenti, dirigenti politici, ha attraversato di corsa tutta l’Africa incendiandola nelle rivolte anticoloniali degli anni ’50, è approdato ad Algeri e da lì, con la rielaborazione che Franz Fanon farà della negritudine nel suo libro I dannati della terra su cui fra poco tornerò, di lì, da Algeri, è dilagato in tutto il terzo mondo, ha sfiorato il ’68 europeo, e penso soprattutto alla RAF, alla Rote Arme Fraktion in Germania, è sbarcato nella sua versione più radicale e violenta negli Stati Uniti d’America con le Pantere Nere e con i Musulmani Neri di Malcolm X, ha acceso i suoi ultimi fuochi a Grenada con Bishop, che è stato deposto da Reagan del ’79, e in Burkina Faso col capitano Sankara, a cui fra l’altro è dedicata la copertina di Alias del Manifesto di oggi, Sankara che è stato, a mio parere, l’interprete più fedele allo spirito originario del concetto di negritudine e che è stato ucciso nell’87, assassinato, come spesso avviene, dal suo più caro amico, Blaise Compaoré.

E quindi questo concetto ha assunto una rilevanza storica eccezionale oltre che politica e, naturalmente, artistica e letteraria.

Tutto questo è nato nella Parigi della metà degli anni ’30 dalle poesie di due poeti poco più che ragazzi, Léopold Senghor, nato nel 1905, che diventerà presidente del suo paese natale, il Sénégal, morirà a Parigi nel 2003, onorato della feluca di Accademico di Francia; ed Aimé Césaire, il quale è nato nel 1913 ed è morto nell’aprile 2008 a Fort-de-France la capitale della Martinica, città della quale Césaire è stato sindaco per parecchi anni.

Ora, in questa mia introduzione, seguirò parecchi fili del discorso: all’inizio vi sembrerò forse un pochettino divagare, ma vedrete che, se io non mi ingarbuglierò e voi avrete la pazienza di seguirmi, tutti questi fili si annoderanno in una trama coerente. E poiché questo discorso ve lo faccio non da storico, ma da poeta, come

ogni poeta che si rispetti partirò da me stesso, cioè dal mio vissuto, dalla mia soggettività o, per dirla in termini forse più familiari a un congresso di storici, partirò dalla microstoria mia individuale e personale, una sorta di storia evenemenziale, una storia degli accadimenti che a tutti occorrono nella vita, sullo sfondo, e questo è il secondo filo del discorso, dei grandi eventi storici, la Weltgeschichte, la storia del mondo che costituisce il palcoscenico su cui la nostra vicenda si dipana e da cui viene, la nostra avventura umana, condizionata. In questo contesto cercherò di situare il momento aurorale della nascita di questo movimento e di questa teoria della negritudine nelle poesie di Césaire e di Senghor, farò un brevissimo accenno alla storia di come e cosa ho voluto costruire io in quella sorta di concerto vocale che seguirà, quando, finalmente, per una straordinaria magia, che è poi la magia dell’arte, cesserò di essere Giulio Stocchi, cesserò di essere un poeta, perché diventerò due poeti e attraverso di me sentirete risuonare oggi, con la stessa vivezza con cui è risuonata più di settanta anni, fa la voce di Senghor e quella di Aimé Césaire.

Io ogni volta che per le strade della mia città, che è Milano, incontro una persona, spesso un africano, che mi vuole vendere qualche cosa, un accendino, una collanina, una borsa contraffatta, o quando vedo la mano di un mendicante tendersi al mio passaggio, oppure quando un lavavetri ai semafori mi offre i suoi servigi, non posso fare a meno di ricordare una mia poesia che parla di muri, di passaporti e di controlli.

Perché in effetti, dopo la caduta del muro di Berlino, che tante speranze aveva acceso per una libera circolazione di idee, di uomini, di merci, fatto salvo, almeno per il momento, per le merci, per gli uomini e le idee è andata diversamente, perché attorno alla nostra Europa opulenta, quella che al tempo della guerra fredda era chiamata l’Europa Occidentale, i muri si sono in realtà moltiplicati. Prova ne sia che gli abitanti di quelli che un tempo erano i Paesi dell’Est e che venivano vezzeggiati e invitati a fuggire, “a scegliere”, come si diceva allora, “la libertà”, oggi vengono respinti alle frontiere, salvo tollerare l’ingresso di una quota di mano d’opera senza diritti e sottopagata, corpi da gettare nelle discariche, per evitare delle grane, quando vengono stritolati negli incidenti sul lavoro, o corpi da bruciare vivi, quando da vivi rivendicano presso i loro padroni il diritto a un trattamento più umano, e i loro padroni spesso ritengono questa richiesta talmente intollerabile da ricorrere a fiammiferi e benzina.

Questi muri sono muri anche mentali, sono barriere psicologiche fatte di diffidenza, fatte di paura, fatte di ignoranza, fatte di fastidio verso tutti coloro che noi riteniamo diversi da noi. Ma sono anche muri reali, come dimostrano le vedette militari che cercano di intercettare i barconi di disperati oppure le guardie ai confini di un continente che ormai chi vi abita, chi si aggira all’ombra dei suoi supermercati, non può non percepire come una fortezza assediata da orde di diseredati, di miserabili, i “dannati della terra”, come li chiamava Fanon, che cercano di scampare, di fuggire guerre, carestie, miseria, malattie, fame e quant’altro e di sbarcare sulle nostre spiagge viste come l’ultimo approdo dove trascinare una vita, miserabile certo, ma appunto dove poter vivere e non morire.

Così che “negri”, mendicanti, lavavetri, zingarelle che ci inseguono con le loro storie di quattro, sempre quattro, bambini che non hanno latte, gli storpi che esibiscono ogni sorta di deformità spesso dubbie ed improbabili, le adolescenti, poco più che bambine, povere madonnine impietrite agli angoli costrette a vendersi, i poveracci inginocchiati sul marciapiedi a mani giunte in attesa dell’obolo di un passante, tutti costoro sono in realtà dei privilegiati perché sono riusciti a scampare alle onde del mare, ai gas venefici e alle esalazioni del sottofondo dei camion che li trasportano clandestini, sono riusciti a sottrarsi a quei tagliagole che sono i moderni passatori, sono riusciti a sfuggire ai Centri di Prima Accoglienza, sono riusciti a salvarsi dalle bande di bravi cittadini inferociti e alle loro bottiglie incendiarie e si aggirano fra noi perché in qualche modo hanno eluso quei controlli e hanno varcato quel muro di cui parla la poesia che sempre mi torna in mente a quello spettacolo.

Ora, questa poesia del muro a sua volta ha una storia, una storia che comincia parecchi anni fa.

Nel 1983, l’Accademia delle Arti e delle Scienze a Berlino Ovest aveva invitato Adriano Spatola, che era il più giovane del Gruppo 63, Edoardo Sanguineti che era stato fra i fondatori del Gruppo, e il sottoscritto, a Berlino, come rappresentanti della poesia italiana. Io tre anni prima, nel 1980, avevo scritto un libro, pubblicato da Einaudi, intitolato Compagno poeta, che aveva suscitato un certo interesse nei miei confronti per il tipo di attività poetica che andavo conducendo, poesia nelle fabbriche, nelle piazze, nelle manifestazioni, tanto che, fra i molti articoli che mi erano stati allora dedicati, Corrado Stajano aveva intitolato il suo sul Giorno attribuendomi l’onore di essere “Il cantastorie della sinistra”. Comunque, quella notorietà mi aveva valso l’invito della prestigiosa Accademia tedesca.

E, come tutti i turisti a Berlino, avevo avuto anch’io la curiosità di andare a vedere cosa c’era al di là del muro. Ho preso la mia brava metropolitana, ero sceso alla fermata di Friedrichstrasse, e lì, oltre allo sconcerto di passare un confine di Stato, anzi un confine che separava due mondi, due concezioni, si pensava allora, della società, della politica e dell’economia, in metropolitana, mi ero trovato sotto gli occhi gelidi dei soldatini della DDR, per altro compitissimi, i quali mi subissavano di domande, mi chiedevano cosa andassi a fare a Berlino Est, se il tubetto che avevo con me era proprio dentifricio, che cos’erano le pillole che portavo in tasca, quanti soldi avevo, se conoscevo qualcuno nella Germania Democratica e così via… Cioè ero circondato, in forma molto più attenuata allora, dallo stesso sospetto che noi oggi nutriamo nei confronti dei “diversi” che si presentano alle nostre frontiere. E questo sospetto era giustificato agli occhi di quei militari perché arrivavo da un mondo ostile nella guerra fredda, dall’Occidente, e quindi ero considerato, se non un nemico, certo un potenziale pericolo.

E lì avevano cominciato a frullarmi nella testa quelle parole che poi si sarebbero incatenate in una poesia: “C’è sempre un muro da varcare un passaporto un controllo…”.

Poi me ne tornavo nella Berlino Ovest, luccicante di vetrine, lasciandomi alle spalle l’Unterdenlinden, le piccole taverne della Berlino Est brulicanti di giovani, il

Reichstag ancora in macerie che ricordava le ferite della guerra, mi aggiravo per le vie di questa Berlino Ovest che invece sembrava una città costruita più a misura di automobile che di uomo, con quei viali che parevano autostrade dove i veicoli sfrecciavano senza sospettare l’esistenza di pedoni.

Però la sera me ne andavo a dormire in un gioiello della vecchia Berlino, una villa sul lago Wannsee che è un lago alla periferia della città, così vicino ai confini con la Germania Orientale che si potevano udire i colpi delle esercitazioni provenire al di là della frontiera.

E in questa villa del lago Wannsee, rimasta intatta, bellissima, una villa dell’Ottocento, messaci a disposizione dalla gentilezza e dalla munificenza dell’Accademia delle Arti e delle Scienze, nel gennaio del 1942 era stata indetta quella che è conosciuta come la “Conferenza di Wannsee” durante la quale i gerarchi del regime nazista, Hesse, Rosenberg, Heydrich, Eichmann, Himmler e tutti gli altri, davano l’avvio alla cosiddetta “soluzione finale del problema ebraico”: cioè una razza, quella ariana, autoproclamatasi eletta, decideva lo sterminio di un’altra razza, di un altro popolo, con la stessa freddezza e, vorrei dire, neutralità con cui si procede a una disinfestazione di insetti, che tali erano considerati ebrei, zingari, omosessuali, disabili e, perché no?, anche comunisti.

Ora, sei mesi prima di quel gennaio ’42, Breton, che come tutti sappiamo è il fondatore e il massimo rappresentante del surrealismo francese, fuggendo dall’Europa in fiamme, approdava alla Martinica, un’isola che era allora possedimento francese, a Fort-de-France, in attesa di una nave che lo portasse in salvo a New York. E lì, a Fort- de-France, anche lui come un turista, girava e capita un giorno in uno di quegli spacci mezze cartolerie, mezze mesticherie, come ce n’erano, almeno fino a pochi anni fa, nel sud del nostro paese. E in quello spaccio, su uno scaffale, vede un libro e il titolo lo incuriosisce. Il libro si intitola Cahier d’un rétour au pays natal, Diario di un ritorno al paese natale, firmato da un certo Aimé Césaire. Breton prende il libro, lo sfoglia, prima distrattamente, poi se ne appassiona sempre più perché in quelle pagine rimane affascinato, innanzitutto, da un pullulare di immagini, alcune chiaramente surrealiste, ma riconosce nel libro anche la stessa incandescenza di opere famose nella letteratura francese, come Une saison à l’enfer, Una stagione all’inferno, di Rimbaud o I Canti di Maldoror di Lautréamont. Si innamora di questo libro, vuole conoscere Césaire, ne diventa amico e del libro di Césaire scrive una prefazione che verrà pubblicata nel dopoguerra e che non solo consacrerà Césaire, nelle parole di Breton, come uno dei più grandi poeti di lingua francese, ma contribuirà ad attirare l’attenzione degli intellettuali francesi verso la “poesia negra”, tant’è vero che Sartre nel ’48 scriverà un’altra famosa introduzione a una antologia curata da Senghor, Orfeo negro. La nuova poesia negra e malgascia.

Césaire aveva pubblicato questo libro, senza che suscitasse alcun interesse, nel ’39. E quindi l’aveva scritto un paio di anni prima, quando aveva 24, 25 anni. Césaire, come sentirete anche dalle sue parole, apparteneva a una famiglia umilissima che però aveva avuto modo, approfittando anche della politica del Fronte Popolare al potere in quegli anni in Francia, di essere mandato a Parigi a studiare. Studiava

letteratura. E lì a Parigi, nel Quartiere Latino, conosce un altro giovane “poeta negro”, Senghor, un po’ più vecchio di lui perché era nato nel 1905. Senghor apparteneva invece a una famiglia nobile, africana, del Sénégal, discendente di capi tribù, proprietari terrieri, stregoni. I due giovani si scambiano le poesie e scoprono di cantare la stessa cosa, di cantare la dignità e, soprattutto, l’umanità, che a noi sembra una cosa ovvia, che va da sé, ma che invece all’epoca suscitava una certa sorpresa e scalpore, l’umanità del “negro” in quanto tale. Non si trattava di una poesia di rivendicazione, di protesta politica contro il bianco: no i “negri” si ponevano come uomini in carne ed ossa che amavano, odiavano, sognavano, speravano. E qui nasce il tema, con una parola, un termine inventato da Césaire e che Sartre giudicherà non tanto bello, il tema della “negritudine”.

I due fondano una rivista, “L’étudiant noir”, “Lo studente negro”, e qui come se un invisibile tam-tam avesse dato la sveglia, arrivano poesie dai quattro capi del mondo dei “negri” francofoni, dal Sénégal con Diop, dal Madagascar con Rabirévalo, da Haiti con Roumain, dalla Guyana francese con Damas, e tanti altri… e tutti quanti cantano la stessa cosa: la dignità dei “negri”.

“Pueblo que canta no morirà…”, scrive Rafael Alberti in questi anni riferendosi alla straordinaria fioritura poetica che accompagnava la lotta del popolo spagnolo, appoggiato dalle Brigate Internazionali, contro i moros e i falangisti di Franco, contro i fascisti italiani, contro la Legione Condor nazista. Poeti come Nerduda, come Vallejo, come Hernandez, Guillèn, Garcia Lorca, lo stesso Alberti, Léon Felipe, i quali celebrano l’epopea di questo popolo in piedi che resiste.

Una guerra, quella di Spagna, che ha trovato il suo regesto di orrori nel quadro di Picasso intitolato a Guernica, la città santa basca sbriciolata dall’aviazione fascista e nazista, il primo bombardamento a tappeto con obiettivi civili della storia che è argomento anche del bel libro di Angelo D’Orsi, Guernica, pubblicato proprio in questi giorni.

Ebbene, quelle figure deformate del quadro, la stilizzazione delle forme, il moltiplicarsi delle prospettive – che sono il segno dello stile inconfondibile di Picasso

– disegnano non solo, nella loro torsione e nel loro frantumarsi, la cronaca di un massacro che diviene così il simbolo universale della ferocia della guerra in ogni tempo e latitudine, ma rivelano altresì quanto profonda sia stata l’influenza dell’arte africana sul pittore spagnolo che, nei suoi esordi, trasse linfa ed ispirazione dallo studio delle tecniche espressive delle maschere, dei totem, delle sculture del continente nero.

Un continente che era divenuto oggetto di studio anche da parte degli etnologi: un esempio per tutti, Marcel Griaule e la sua magistrale opera sui Dogon del Mali.

Il fatto è che ora i “negri” non sono più argomento di dissertazione sotto lo sguardo del bianco, ma prendono la parola in prima persona. E qui assistiamo a un fenomeno per così dire inverso a quello espresso dalle parole della poesia di Alberti: una moltitudine di gente, di persone, dispersa sotto il giogo coloniale in America, nei Carabi, nei paesi africani, le cui frontiere non avevano nessun motivo geografico,

l’Africa che era stata spartita dopo il Congresso di Berlino del 1894-95 seguendo solo gli interessi delle potenze coloniali europee, nelle Antille, tutti costoro scoprono nel canto dei loro poeti la dignità e la bellezza della loro pelle che non viene più considerata un marchio di infamia, ma come un segno di distinzione e quindi come un fatto di identità. Dai versi dei suoi poeti, è tutto un popolo che nasce.

Un fenomeno, questo, che – almeno a stare al libro di Havelock Cultura orale e civiltà della scrittura – si è già verificato nella storia: le tribù doriche, dice Havelock, che invasero la Grecia trovarono nei rapsodi, i “rapsoidoi”, letteralmente “i cucitori di canti”, i sarti che porsero loro l’abito dell’identità.

Un paragone forse azzardato, che farà storcere la bocca a molti storici. Ma, si sa, noi poeti siamo preda di quello che Mallarmé chiama “il demone dell’analogia”, che ci spinge a cogliere la somiglianza anche nelle cose più lontane, nel che consiste, secondo Aristotele, il dono nativo del poeta e il segno della sua eccellenza.

Comunque sia, questa assunzione di identità da parte dei “negri” provocherà, e Sartre con molta lucidità lo sottolinea nella “Introduzione” a Orfeo Negro del ’48, uno strano sconcerto, una sensazione di spaesamento nel lettore bianco. E’ come se il cagnolino di casa, e questo lo dico io, non lo dice Sartre, quello che giudichiamo il nostro trastullo, il nostro amico fedele che ci segue dovunque con i suoi occhi buoni, quello che possiamo picchiare o accarezzare a nostro piacere, all’improvviso prendesse a parlare, e ad esaltare la propria “caninitudine”, oppure la bellezza delle cagnette che corteggia col suo odorato, senza curarsi minimamente di noi.

E infatti Sartre dice: un “poeta negro” – e si riferisce a Senghor e tra poco ascolteremo la poesia – si rivolge alla donna amata, sussurrando “Donna nuda, donna nera…”, e noi, dice Sartre, ci sentiamo come esclusi, come se queste parole, che non ci sono destinate assolutamente, le origliassimo dalla porta e come se questa donna nuda la spiassimo dal buco della serratura. E anzi, dice Sartre, addirittura la nostra bianchezza, di cui andavamo tanto fieri, all’improvviso ci appare come una maglia logora, dice testualmente il filosofo, ai gomiti e alle ginocchia, e se potessimo ce la toglieremmo per scoprire la nostra carne di vino nero, un altro verso di Senghor.

Quindi “Donna nuda, donna nera…”.

Ora, non è che nella Parigi dell’epoca, degli anni ’30, ’35, non ci fossero donne nude, donne nere. Basta pensare alla famosa “Venere nera”, a Joséphine Baker, questa ragazza del Missouri, naturalizzata francese, che ogni sera ballava “Yes, we have not bananas”, vestita solo di un gonnellino di banane ed esibendo i suoi bellissimi seni sotto gli occhi concupiscenti del pubblico dell’epoca.

Ma il fatto è che in quegli anni, anche per capire quello che poi sentiremo dalle parole di Senghor e di Césaire, i “negri” erano considerati appunto né più né meno che un trastullo, persone con cui passare una serata ascoltandone la musica, erano quelli ai quali ci si rivolgeva con quel francese storpiato di cui Fanon parla in uno dei suoi libri, Il negro e l’altro, quando, racconta Fanon, lui, laureato in psichiatria, una sera chiede un’informazione a un tizio, a un bianco, e questi gli risponde: “Sì, amico, tu andare, tu prendere metropolitana, tu scendere una, due tre fermate…”, un linguaggio che mostra, più di tanti ragionamenti teorici, il pregiudizio

con cui ci si rivolge a delle persone che si ritengono inferiori, incapaci persino di parlare la lingua. Erano considerati, i “negri”, degli animali, come delle pantere, nel caso di Joséphine Baker, da ammirare allo zoo, ma da fare sempre entrare dalla porta di servizio.

Ora, a Parigi, centoventi anni prima di Joséphine Baker, aveva calcato le scene un’altra “Venere nera”, quella che è conosciuta come la “Venere ottentotta”, la cui storia è molto istruttiva.

L’Abate Raynal, nel 1780, scrive un libro, Histoire des deux Indes, e in questo libro racconta come alcuni esploratori, fra cui il Capitano Cook, sbarcati in Africa Australe, l’odierno Sudafrica, si fossero imbattuti in una stranissima tribù, gli Ottentotti, i quali parlavano una lingua che i glottologi, i fonetisti ecc., chiamano “lingua a click”, cioè una lingua fatta di schiocchi, di suoni gutturali, che suonava all’orecchio europeo come una lingua non articolata, più simile ai grugniti degli animali che non a un idioma umano. Le donne di questa tribù avevano poi una strana particolarità: esibivano un tablier, un grembiulino, qualcosa che pendeva loro fra le gambe. Però questo grembiulino non era fatto di stoffa, era fatto di carne, era un caso, questo, di ciò che viene conosciuto come “macroninfia”, cioè uno sviluppo ipertrofico delle grandi labbra che fra le gambe di queste donne dava l’illusione che avessero una specie di gonnellino di carne. Tutto questo, in piena Età dei Lumi, scatena un sacco di discussioni: si potevano davvero considerare questi Ottentotti degli uomini, dato che parlavano una lingua inarticolata come gli animali? E poi, dal momento che le loro donne presentavano quella strana anomalia, non si trattava piuttosto di animali? O forse non erano uomini degradati, seguendo lo schema, lo stereotipo della maledizione di Dio contro i figli di Cam?

Nel 1810, una nave negriera inglese rapisce una di queste donne, la battezza Sarah Baarthmann, la porta a Londra e da qui a Parigi dove costei viene esibita in teatro sotto gli occhi del pubblico dell’epoca, forse non concupiscente, ma certo allibito da quel suo sorprendente gonnellino. La sventurata, per fortuna sua, muore nel 1815, ma la sua odissea non finisce lì, perché uno dei più grandi anatomisti dell’epoca, Cuvier, prende il corpo di questa ragazza, lo dissecca, lo mette sotto formalina e lo espone, mummificato, in una teca di quel Museo che era stato appena fondato, il Musée de l’Homme. Il fatto è che il corpo di Sarah Baarthmann rimane esposto nelle sale del museo, col tablier che ne aveva deciso il destino in bella mostra, fino al 1992, quasi 180 anni, quando poi viene trasferito nei sotterranei e, finalmente, il governo di Mandela riesce a farsi restituire la salma della poverina e nel 2002, a Città del Capo, Sarah Baarthmann avrà la sepoltura che meritava.

Ebbene io credo che, a parte tutto quello che sappiamo sulla schiavitù e tutto il resto, questo sia un paradigma chiarissimo, cristallino nella sua crudeltà, dell’oltraggio fisico, mentale e culturale che degli esseri umani possono infliggere ad altri esseri umani ove li considerino degli inferiori.

Era talmente profondo questo oltraggio che i “negri” hanno subito nel corso della loro storia che Sartre osservava che solo il fatto che costoro affermassero la

propria umanità assumeva un valore non solo politico, ma, dice Sartre, addirittura rivoluzionario. E infatti il filosofo saluta nella “poesia dei negri” l’unica poesia rivoluzionaria, anzi si spinge ancora più oltre, una poesia, dice, “evangelica”, che annuncia la buona novella della negritudine, in cui i “poeti negri” cantando se stessi come uomini cantano anche la liberazione del proletariato mondiale.

Però Sartre era anche il filosofo che era, – “questo hegeliano nato”, lo irride Fanon – e quindi era abituato a delle grandi sintesi, e diceva: tutto ciò fa però parte di una progressione dialettica, in cui la negritudine costituisce un momento debole, il momento della negatività, e cioè la tesi è l’affermazione teorica e pratica della superiorità del bianco, la negritudine è quello che mette in discussione ciò, e, come momento negativo e facendo parte di una triade dialettica, mira ad una sintesi che sarà la realizzazione dell’umano in una società senza razze. E quindi, dice Sartre, la negritudine esiste solo per distruggersi, è passaggio e non meta, mezzo e non fine ultimo.

Questa affermazione trova il dissenso più deciso di Fanon, il quale si sente defraudato della propria identità, e ha parole ingenerose nei confronti di Sartre che considera un “falso amico dei negri”.

Ora, a pensare bene, se a ciascuno di noi venisse detto: il senso della tua vita non sta in quello che tu ritieni più importante, i tuoi ricordi, le cose più individuali che hai vissuto, che so?, la palla rossa che ancora rotola nella tua infanzia, quegli occhi che ti hanno straziato una volta in un addio, la mano che si è tesa a consolarti, il tuo bambino la prima volta che ha detto “mamma”, l’amico, che tu consideravi un fratello, che è morto, e che tuttora ti cammina accanto, quel tramonto che ti ha incantato – che sono tutte cose piccole, trascurabili, che uno storico e neppure un filosofo ha il dovere di registrare, ma che costituiscono la materia prima dei poeti, non solo, ma che costituiscono il sigillo della nostra individualità, perché sono il segno della unicità e della irripetibilità del nostro passaggio sulla terra – e ci venissero a dire che, no!, la nostra vita vale solo in quanto momento di un processo che un giorno realizzerà qualcosa, magari avremmo un moto di ripulsa anche noi.

Fanon non era un poeta, era uno psichiatra e forse, in forza della sua professione, attento ai moti più segreti, più intimi delle manifestazioni della psiche individuale. Ma soprattutto Fanon era stato l’allievo di un poeta: era stato l’allievo di Césaire a Fort-de-France, l’aveva avuto come professore al liceo e di Césaire aveva sempre apprezzato soprattutto il Cahier d’un rétour au pays natal, perché riteneva che questo libro fosse il resoconto di una discesa agli inferi della condizione “negra” da cui Césaire era risalito aggrappandosi all’ancora della negritudine. Quella negritudine in cui, a un certo punto, anche Fanon ha profondamente creduto, al punto che Fanon dice: ecco, Sartre mi ha tolto questo, e io, non più del tutto nero, ma neppure completamente bianco, mi sentivo dannato.

Fanon troverà la sua identità nel manicomio di Blida, in Algeria. Dove, a contatto con la miseria senza nome dei fellahin algerini, con questi uomini impazziti dalla miseria o impazziti dal dolore che gli aguzzini francesi – era scoppiata nel frattempo la guerra d’Algeria – infliggevano loro, scorge in questo popolo, in queste masse contadine, gli stessi tratti di derelizione che Césaire aveva descritto a proposito

dei “negri” e, non solo, riflettendo, Fanon ritiene che tutte le masse contadine del Terzo mondo, il Terzo mondo saccheggiato dall’imperialismo bianco e dagli sfruttatori locali, queste masse fossero i nuovi “negri”, e li chiama “i dannati della terra”. E lì opera la frattura con Césaire e dice che questi “dannati della terra” l’unico linguaggio che possono usare nei confronti dei loro oppressori – e qui naturalmente Fanon è influenzato dall’epopea della lotta algerina – è quello che costoro hanno sempre usato nei loro confronti: il linguaggio della violenza.

E questa affermazione avrà un valore dirompente nelle teorie rivoluzionarie degli anni ’60 e ’70: pensate solo alla “teoria dei fuochi” – “creare due, tre, molti Vietnam” – di Che Guevara. Fanon non avrà modo di vedere le conseguenze delle sue posizioni teoriche perché muore a soli 37 anni nel ’61. Gli vengono tributati funerali di massa, pubblici, in Algeria, nel pieno delle guerra di liberazione – nel frattempo Fanon era diventato anche dirigente del governo algerino in esilio a Tunisi.

Nello stesso anno ’61, Sartre e altri 119 intellettuali avevano indetto una manifestazione che sarà repressa violentemente e 300, 200 manifestanti, non si è mai saputo quanti, soprattutto algerini, furono buttati nella Senna. E la repressione era diretta da un prefetto, il prefetto Papon, che è lo stesso che nel 1942 aveva organizzato il concentramento degli ebrei francesi in uno stadio della Francia collaborazionista di Vichy per avviarli alla deportazione nei lager tedeschi in ottemperanza alle decisioni della conferenza del lago Wannsee, tenuta, il 20 gennaio 1942 – lo stesso giorno in cui, nel 1944, sono nato io – nella villa dove poi sono stato ospite 41 anni dopo. Quindi vedete come la storia abbia delle ragnatele stranissime con delle geometrie davvero sorprendenti.

Ora, arrivando ai nostri due, Césaire e Senghor, di cui tra poco ascolteremo le poesie: le parole di questi poeti, dice sempre Sartre, non descrivono la negritudine, non la copiano, non la disegnano come fa un pittore col suo modello, bensì la compongono, la fanno sotto i nostri occhi. Noi le sentiremo, queste parole, con le nostre orecchie, e saremo quindi in grado di apprezzare e valutare l’affermazione di Breton il quale, sempre nella prefazione al libro di Césaire di cui vi ho parlato, diceva che questi poeti, i “poeti negri”, al pari dei surrealisti, non sono poeti “visionari”, cioè legati alla vista, alla lettura, sono poeti “auditivi”, legati al ritmo, legati alla oralità della lingua, tant’è vero che Senghor sempre ricorda come sua maestra una “griot”, una cantastorie che raccontava i fasti della tribù, i matrimoni, le nascite, i funerali, i successi nella caccia, le gesta degli antenati, Marone, era il nome di questa affabulatrice, che Senghor aveva conosciuto nella sua infanzia in Africa. E anzi Senghor giunge ad affermare che la negritudine di una poesia non sta tanto nel tema della poesia, nel fatto che parli di “negri”, bensì nello stile, nel tono, nel calore emotivo, e, appunto, nel ritmo.

Io cosa ho fatto con le voci di questi due poeti? Ho letto tutte le loro poesie, di Césaire ho preso in considerazione soprattutto il Cahier, Il diario di un ritorno al paese natale, e con un pazientissimo lavoro che è, del resto, molto familiare a tutti noi, di copia-incolla, quello che facciamo al computer, ho preso brani di queste poesie, li ho montati insieme, proprio in senso cinematografico, in modo da costruire

una specie di sinfonia vocale, in cui le voci si rincorrono, si confutano, dialogano, enunciano temi che appaiono, scompaiono, vengono ripresi, fino a confondersi, queste voci, fino a sciogliersi alla fine nel grande canto della negritudine.

Queste due voci sono riconoscibilissime: io non parlerò più, non farò alcun commento critico, non darò alcuna indicazione bibliografica o altro, e avrete modo di ascoltare queste due voci, quella sensuale, sentirete, di Senghor, sempre perso nel sogno della sua Africa, il Sénégal che ha conosciuto durante l’infanzia, e quella più straziata e dissonante di Césaire, che viene sempre introdotta da un ritornello, che non ho inventato io ma che esiste nel suo libro, “alla fine dell’alba”, con quella cadenza anaforica che ricorda la struttura paratattica della lingua orale.

Il grande canto conclusivo della negritudine in quel momento, nel momento in cui viene offerto per la prima volta all’ascolto, – e lì secondo me aveva ragione Sartre, e lo diceva anche il professor D’Orsi – in quel momento proclama un movimento di liberazione non solo “dal” bianco ma anche “del” bianco.

Ora, il moltiplicarsi dei muri di cui vi parlavo, una mezz’ora passata davanti alla televisione e al telegiornale ogni sera, ci dicono come questo canto sia stato soffocato, sia stato sostanzialmente sconfitto. Basta guardare appunto com’è la situazione del mondo oggi.

E questo ci dice qualche cosa, e mi avvio alla conclusione, sul tema di questo convegno, “La razza, mito pericoloso”, perché anche nel momento più progressivo, come diceva il professor D’Orsi, in cui la razza viene considerata un momento della liberazione e della costituzione di un popolo, c’è una ambiguità che rende questo mito pericoloso, la stessa ambiguità che notava Marx a proposito della Rivoluzione francese nella dialettica citoyen-bourgeois: è vero che la Rivoluzione francese libera formalmente gli uomini e ne fa tutti cittadini eguali di fronte alla legge, ma all’interno di questa massa di uomini formalmente liberi ed eguali esistono delle differenze, dei conflitti di ceti, di interessi e, vorrei dire, usando una parola che appare addirittura oggi stravagante pronunciare, esistono delle classi. Conflitti, ceti e classi che esistono all’interno del popolo nero, come del resto storicamente era stato dimostrato e si era già verificato ad Haiti alla fine del ’700 e ai primi dell’ ’800, nel 1800, 1801, quando Toussaint l’Ouverture aveva proclamato la Repubblica, che era stata stroncata dai soldati di Napoleone, ma anche dal tradimento dei mulatti e degli ex schiavi più abbienti che si vedevano minacciati nei loro interessi.

E allora, quel sogno, quella “speranza del mondo” come dice Senghor nei versi di una sua poesia che tra poco ascolteremo, o “il fragile frutto della libertà”, come dice Césaire, rimangono all’orizzonte, dietro un muro che nasconde il giardino dove la terra dovrebbe dare i suoi frutti rigogliosi per tutti. Che è il mito generoso cantato dai nostri due poeti.

Però, diceva Aristotele, la poesia è più vicina alla filosofia della storia, perché la storia racconta i fatti come sono accaduti, mentre la poesia li racconta come avrebbero potuto accadere. Cioè, secondo un ordine e un progetto.

E il progetto che ascolterete enunciato in queste poesie è il progetto della realizzazione di un sogno che l’umanità coltiva da sempre, che è il sogno di liberare se stessa. E cioè, per usare ancora le parole di Marx, di uscire finalmente dalla lunga

preistoria della guerra di tutti contro tutti, della disuguaglianza, dello sfruttamento, della violenza, e di entrare finalmente nella storia, nel regno della libertà, dove il muro con cui ora vado ad iniziare, di cui parla la mia poesia che introdurrà prima la voce di Senghor poi quella di Césaire che si alterneranno, questo muro sarà per sempre crollato.

C’è sempre

un muro da varcare un passaporto

un controllo

il terrore improvviso di dimenticare

perché ti trovi proprio in quel posto e non altrove

la fila lunga delle valigie qualcosa da dimostrare

il respiro degli altri che avverti

come un’oscura minaccia

il tonfo di un timbro sul foglio

che ti concede di esistere

un neon una porta un orologio

(Stocchi, In tempo di guerra, NonSoloParole.com)

E’ domenica.

Ho paura della folla dei miei simili dai visi di pietra. Dalla mia torre di vetro abitata dalle emicranie, dagli Avi irrequieti

contemplo tetti e colline nella bruma

nel silenzio –i comignoli sono severi e spogli.

Ai loro piedi dormono i miei morti, tutti i miei sogni divenuti polvere

tutti i miei sogni, il sangue inutile sparso nelle strade mischiato al sangue di macellerie.

(Senghor, In memoriam, da Canti d’ombra in Poesie d’Africa, Nuova Accademia)

C’è sempre

un muro da varcare un passaporto

un controllo…

(Stocchi, In tempo, cit.)

Alla fine dell’alba…

Gli avevo detto vattene, faccia da sbirro, carogna, vattene, detesto i servi dell’ordine e gli imbecilli della speranza. Vattene, talismano malvagio, cimice di sacrestia. Poi mi sono girato verso paradisi per lui e per i suoi perduti, più calmo del viso di una donna che mente, e là, cullato dagli effluvi di un pensiero mai stanco, ho alimentato il vento, ho liberato i mostri e ho sentito salire, dall’altra parte del disastro, un fiume di tortore e di trifogli della foresta che porto sempre nelle mie profondità a un’altezza inversa del ventesimo piano di quelle case così arroganti, per precauzione contro la forza putrescente dell’atmosfera crepuscolare misurata giorno e notte da un insolente sole venereo.

(Césaire, Diario di un ritorno al paese natale, Jaca Book)

Ma i poeti cantavano ben altro, i fiori artificiali delle notti di Montparnasse

cantavano le chiatte sonnolente sui canali di stoffa

marezzata cantavano la squisita disperazione dei poeti tubercolosi ma i poeti cantavano i sogni dei vagabondi sotto l’eleganza

dei ponti bianchi

ma i poeti cantavano gli eroi non era seria la vostra risata, non era classica la vostra pelle nera.

(Senghor, Poema introduttivo, da Hosties noires in Poesie, cit.)

Alla fine dell’alba, ricche di anse fragili, le Antille che hanno fame, le Antille butterate dal vaiolo, le Antille distrutte dall’alcool, naufragate nel fango di questa baia, sinistramente naufragate nella polvere di questa città.

Alla fine dell’alba questa città piatta –sparpagliata, che inciampa nel buon senso, inerte, trafelata sotto il fardello geometrico di una croce che si rinnova in eterno, non docile col proprio destino, muta, in ogni caso indispettita, incapace di crescere in armonia con questa terra, impacciata, castrata, vanificata, in contrasto con la fauna e con la flora.

Alla fine dell’alba questa città piatta –sparpagliata….

E in questa città inerte una folla chiassosa, che sorprendentemente non coglie il proprio grido come questa città non coglie il proprio movimento, non coglie il proprio vero grido, il solo che tutti vorrebbero udire gridare perché solo lui è sentito come proprio; perché si sente che abita in lei in qualche rifugio profondo dell’ombra e

dell’orgoglio, in questa città inerte una folla che non coglie il proprio grido di fame, di miseria, di rivolta, di odio, una folla stranamente ciarliera e muta.

(Césaire, Diario, cit.)

Per tutta la giornata sulle lunghe strette rotaie

– volontà di ferro sul languore delle sabbie –

attraverso la siccità di Cayor e Baol dove si torcono le braccia i baobab dall’angoscia

per tutta la giornata lungo l’intera linea

delle stazioncine tutte eguali cinguettanti di negrette all’uscita della scuola e dell’uccelliera

per tutta la giornata sballottato sulle panche d’un treno sferragliante polveroso e ansimante

vado cercando l’oblio dell’Europa nel cuore agreste del Sine. (Senghor, Per tutta la giornata in Canto, cit.)

In questa città inerte una strana folla che non s’ammucchia, che non si confonde, abile nello scoprire il punto di disincastro, di fuga, di defezione. Una folla che non sa farsi folla, una folla, è facile capirlo, perfettamente sola sotto il sole, allo stesso modo con cui una donna, in una sorta di perfetta cadenza lirica, interpella improvvisamente una pioggia ipotetica e le impartisce l’ordine di non cadere; oppure come un rapido segno di croce senza un motivo evidente; oppure come l’animalità improvvisamente grave di una contadina che piscia in piedi, con le gambe divaricate, rigide.

In questa città inerte una folla desolata sotto il sole, una folla che non reagisce a nulla di quanto si manifesta, si svela e si libera alla luce del sole in questa terra sua.

(Césaire, Diario, cit.)

E arrivò l’Aliseo e sulle sue ali lentoritmate come petali di neve e di grazia

farfalle bianche striate di nero, orlate ricamate di nero

nubi di garza bianca di grazia bianca, di neri velluti vibranti.

Come quando si andava a Joal la domenica a messa e andavamo mio padre e i suoi figli più grandi superbi del loro nome in vesti di seta.

E camminavamo splendidi e diritti, nel fulgore delle mussole e dei veli tra vergini di tussor e ambra nel fiorito fruscio dei loro nastri

il busto inarcato lo sguardo candido, i seni floridi.

(Senghor, Bionde mattine di Popenguine in Lettres d’hivernage in Poesie d’amore, Nuova Accademia)

Alla fine dell’alba una piccola casa maleodorante in una via strettissima, una casa minuscola che ospita nelle proprie viscere di legno marcio decine di topi e la vivacità

dei miei fratelli e delle mie sorelle, una piccola casa crudele la cui intransigenza sconvolge la fine di ogni mese, e mio padre lunatico, rosicchiato da un’unica miseria, non ho mai saputo quale, che un’imprevedibile stregoneria sopisce con una malinconica tenerezza oppure esalta con grandi fiammate di collera; e mia madre le cui gambe pedalano per la nostra fame instancabile, pedalano di giorno, di notte, vengo persino svegliato la notte da queste gambe instancabili che pedalano di notte e dal morso aspro nella carne molle della notte di una macchina da cucire su cui mia madre pedala, pedala per la nostra fame e di giorno e di notte.

(Césaire, Diario, cit.)

Donna nuda, donna nera

vestita del tuo colore che è vita, della tua forma che è bellezza!

Nella tua ombra sono cresciuto; la dolcezza delle tue mani bendava i miei occhi.

Ed ecco nel cuore dell’estate e del meriggio ti scopro, dall’alto d’un colle calcinato, Terra Promessa

e la tua bellezza mi fulmina il cuore come il lampo di un’aquila.

(Senghor, Donna nera in Canti, cit.)

E il letto di assi da cui è uscita la mia razza, tutta la mia razza da questo letto di assi i cui piedi sono bidoni di kerosene, come se il letto soffrisse di elefantiasi, e con la pelle di capretto, e con le foglie secche delle banane, e con quegli stracci, che nostalgia di materasso il letto di mia nonna (sopra il letto, in un vaso pieno d’olio, un moccolo la cui fiamma danza come un grosso ravanello… sul vaso in lettere d’oro c’è scritto: GRAZIE).

(Césaire, Diario, cit.)

Donna nuda, donna scura

frutto maturo delle carni piene, estasi buia del vino nero, bocca che fa lirica la mia bocca

savana dai limpidi orizzonti, savana fremente alle ardenti carezze del vento dell’est

tam-tam scolpito, tam-tam teso che suona sotto le dita del Vincitore,

la tua voce di contralto è il canto spirituale dell’Amata. (Senghor, Donna nera, cit.)

E’ una vergogna questa rue Paille.

Un’appendice disgustosa come le parti vergognose della borgata che prolunga a destra e a sinistra, lungo la strada coloniale, l’ondata grigia dei suoi tetti di assi. Qui

ci sono soltanto tetti di paglia che gli spruzzi del mare hanno inscurito e che il vento spelacchia.

Tutti disprezzano la rue Paille… E’ qui che la gioventù della borgata si dà al vizio. Soprattutto è qui che il mare scarica le immondizie, i gatti morti e i cani straziati. Perché la strada dà sulla spiaggia, e la spiaggia non basta alla rabbia schiumosa del mare.

Un’angoscia anche questa spiaggia, con quei mucchi di sporcizia putrescente, con quei didietro furtivi che si alleggeriscono, e la sabbia è nera, funebre, non si è mai vista una sabbia così nera, e la schiuma scivola sopra mugolando, e il mare la colpisce con grandi colpi di pugile, o piuttosto il mare è un grosso cane che lecca e morde la spiaggia ai garretti, e a forza di morderla finirà sicuramente per divorare la spiaggia, assieme alla rue Paille.

Alla fine dell’alba il vento di un tempo che si alza, le fedeltà tradite, il dovere incerto che si nasconde e quell’altra alba dell’Europa…

(Césaire, Diario, cit.)

Ecco il mio cuore si scioglie come neve al sole.

Dimentico

le mani bianche che premendo il grilletto fecero crollare gli imperi

le mani che fustigarono schiavi e che vi flagellarono le vecchie mani bianche che vi schiaffeggiarono

le mani laccate e incipriate che mi hanno schiaffeggiato le mani sicure che mi spinsero alla solitudine e all’odio le mani bianche che abbatterono la foresta di palme

che dominava l’Africa, e nel cuore dell’Africa superbi e forti i Sara, belli come i primi uomini usciti dalle vostre mani brune.

Esse abbatterono la foresta nera per farne traversine ferroviarie, spianarono le foreste dell’Africa per civilizzarci,

visto che scarseggiava il materiale umano. (Senghor, Neve su Parigi in Canto, cit.)

Alla fine dell’alba… Ritornare.

Come ci sono uomini iena e uomini pantera, io sarò un uomo ebreo

un uomo cafro

un uomo indù di Calcutta

un uomo di Harlem che non vota

un uomo carestia, un uomo insulto, un uomo tortura che si può colpire in ogni momento, fracassargli le ossa, ucciderlo – ucciderlo davvero – senza dover rendere conto a nessuno senza dover presentare scuse a nessuno

un uomo ebreo un uomo pogrom un cane

un accattone

ma si può uccidere il Rimorso, bello come l’espressione di stupore di una signora inglese che si trova nella zuppiera il cranio di un ottentotto?

(Césaire, Diario, cit.)

Amica mia sotto il buio del perizoma blu

le stelle sfogliano i fiori d’ovatta dei loro calici aperti. Il signore della macchia sei tu, che ha zittito la rivolta dei sordi brontolii.

Guarda: la nebbia dolcemente è sgocciolata in bianche gocce di latte fresco.

Ascolta la mia voce singolare che nell’ombra ti canta questo canto costellato di comete che esplodono cantando.

Con la voce nuova ti canto questo canto d’ombra con la vecchia voce dei continenti giovani.

(Senghor, Canto d’ombra, cit.)

Ritroverò il segreto delle grandi comunicazioni e delle grandi combustioni. Dirò il temporale. Dirò il fiume. Dirò il tornado. Dirò la foglia. Dirò l’albero.

Ritornare. Il mio cuore mormorava generosità enfatiche. Ritornare… Arriverò levigato e puro nel mio paese e dirò a questo paese, il cui fango entra nel miscuglio della mia carne: “Ho vagabondato per molto tempo, ma ora ritorno alla bruttezza disertata delle tue piaghe”.

Ritornerò al mio paese e gli dirò: “Abbracciami senza paura… E siccome so soltanto parlare, è per te che parlerò”.

E gli dirò ancora:

“la mia bocca sarà la bocca delle sofferenze che non hanno bocca, la mia voce sarà la libertà delle voci che si piegano di fronte alla cella della disperazione”.

E arrivando dirò a me stesso:

“Il mio corpo e la mia anima si guardano bene dall’incrociare le braccia nell’atteggiamento sterile dello spettatore, perché la vita non è uno spettacolo, perché un mare di dolore non è un palcoscenico, perché un uomo che urla non è un orso che balla…”.

(Césaire, Diario, cit.)

Fissate dunque gli occhi immutabili sui vostri figli sempre comandati che dan la vita come il povero il suo ultimo vestito.

Si possa noi rispondere presente alla rinascita del Mondo come il lievito serve alla farina.

Se no, chi insegnerà la cadenza al mondo defunto delle macchine e dei cannoni?

Ci dicono uomini del cotone, dell’olio, del caffè ci chiamano gli uomini della morte.

Noi: uomini della danza, dai piedi che si rafforzano solo pestando il suolo.

(Senghor, Preghiera alle maschere, in Canti, cit.)

Alla fine dell’alba,

la sete virile e il desiderio testardo,

eccomi diviso dalle oasi fresche della fratellanza questo niente pudico rasenta dure schegge

questo orizzonte troppo sicuro sussulta come un carceriere.

E la mia isola non clausura, con la sua chiara audacia in piedi dall’altra parte della Polinesia, di fronte a lei la Guadalupe tagliata in due dalla linea dorsale e con la nostra stessa miseria, Haiti dove la negritudine si è alzata in piedi per la prima volta e ha detto di credere alla propria umanità, e la piccola comica coda della Florida dove stanno finendo di strangolare un negro, e l’Africa che striscia gigantescamente fino ai piedi ispanici dell’Europa, una nudità dove la Morte miete a gradi falciate.

E ricordo Bordeaux e Nantes e Liverpool e New York e San Francisco non un pezzo di questo mondo che non porti le mie impronte digitali e il mio calcagno sulla schiena dei grattacieli e la mia sporcizia

nello scintillio delle gemme!

Virginia. Tennessee. Georgia. Alabama. Putrefazioni mostruose di rivolte inefficaci

paludi putride di sangue trombe assurdamente ostruite.

Terre rosse, terre sanguigne, terre consanguigne. (Césaire, Diario, cit.)

La nostra nuova nobiltà non è dominare il nostro popolo ma di farsi ritmo e cuore suo

non di fecondare terre ma come il chicco del miglio marcire nella terra

non d’essere la testa del popolo, ma la sua bocca e la sua tromba.

(Senghor, Poema, cit.)

Alla fine dell’alba questi paesi senza stele, questi sentieri senza memoria, questi venti senza agenda.

Che importa?

Parleremo. Canteremo. Urleremo.

Voce piena, voce profonda, sarai la nostra forza, la nostra punta avanzata.

Parole?

Ah sì, parole.

Ragione, ti maledico, vento della sera. Il tuo nome sinonimo d’ordine?

A me ricorda la frusta.

Bellezza, io ti chiamo petizione di pietra.

Ma ecco il rauco contrabbando del mio riso.

Ecco il mio tesoro di salnitro!

Siccome vi odiamo, voi e la vostra ragione, ci vantiamo della demenza precoce, della follia dirompente, del cannibalismo testardo.

Elenchiamo i nostri tesori:

la follia che ricorda la follia che urla

la follia che vede

la follia che esplode. E sapete il resto.

Che 2 più 2 fa 5

che la foresta miagola

che l’albero toglie i dolci dal fuoco che il cielo si liscia la barba eccetera eccetera…

(Césaire, Diario, cit.)

Perché lei esiste, la fanciulla poesia. Cercarla è la mia passione l’angoscia che mi trafigge il petto, la notte,

la fanciulla segreta dagli occhi bassi che ascolta crescere i suoi cigli allungarsi le unghie.

E tu mi chiedi:

  • Ma perché queste nebbie, questi miraggi in fondo ai tuoi occhi immobili?

  • Il mare è bello, dolce l’aria come un tempo in riva ai Grandi Laghi. (Senghor, Ripasso in Lettres d’Hivernage cit.)

Che cosa siamo? Meravigliosa domanda!

A forza di guardare gli alberi sono diventato un albero e i miei lunghi piedi d’albero hanno scavato nella terra profonde sacche di veleno, grandi città di ossa

a forza di pensare al Congo

sono diventato un Congo che mormora foreste e fiumi dove la frusta schiocca come un grande vessillo

il vessillo del profeta dove l’acqua fa likualà likualà

dove il lampo della collera scaglia l’ascia verdastra e costringe i cinghiali della putrefazione

nel bel margine violento delle narici.

Alla fine dell’alba il sole che tossicchia e che sputa i polmoni.

Alla fine dell’alba

una modesta vita di sabbia una modesta vita di mussolina

una modesta vita di chicchi di mais.

Alla fine dell’alba

un gran galoppo di polline

un gran galoppo di una modesta vita di fanciulle un gran galoppo di colibrì

un gran galoppo di daghe per sfondare il seno della terra.

Angeli doganieri che alle porte della schiuma custodite i divieti

riconosco i miei crimini e che non c’è nulla da dire in mia difesa. Danze. Idoli. Recidivo. Anch’io.

Ho ucciso Dio con la mia pigrizia con le mie parole con le mie azioni con le mie canzoni oscene.

Ho indossato le penne dei pappagalli e la pelle dei gatti muschiati.

Ho fatto perdere la pazienza ai missionari insultato i benefattori dell’umanità.

Ho sfidato Tiro. Ho sfidato Sidone. Ho adorato lo Zambesi.

L’ampiezza della mia perversione mi sconvolge!

Vum rooh oh vum rooh oh

per incantare i serpenti per supplicare i morti vum rooh oh

per forzare la pioggia per contrastare il maremoto vum rooh oh

per impedire che giri l’ombra vum rooh oh

che i miei cieli si aprano

Vum rooh oh

affinché ritorni il tempo della promessa e l’uccello che conosceva il mio nome e la donna che aveva mille nomi

di fontana di sole e di lacrime e i suoi capelli di avannotto

e i suoi passi i miei climi

e i suoi occhi le mie stagioni e i giorni senza ostilità

e le notti senza pericolo

e le stelle della confidenza e il vento della complicità

Ma chi allontana la mia voce? Chi scuoia la mia voce? Mi cacciano in gola mille uncini di bambù. Mille aghi di riccio. Sei tu, sporco pezzo di mondo. Sporco pezzo di alba. Sei tu, sporco odio. Sei tu, peso dell’insulto e cent’anni di colpi di frusta. Sei tu, cent’anni di pazienza, cent’anni di affanni per non morire.

Rooh oh

(Césaire, Diario, cit.)

Maschere! Oh maschere!

Maschera nera maschera rossa, voi maschere bianche e nere maschere dai quattro punti da cui soffia lo spirito

vi saluto nel silenzio!

E non ultimo tu, Antenato dalla testa di leone

….

Ecco che muore l’Africa degli imperi – agonia di principessa miserabile – e l’Europa a cui ci unisce il cordone ombelicale

(Senghor, Preghiera alle maschere in Canti, cit.)

Mentre lascio l’Europa stravolta dalle urla ecco le correnti silenziose della disperazione mentre lascio l’Europa paurosa che si riprende e fieramente si sopravvaluta

voglio un egoismo grande

che sappia rischiare

e il mio campo mi ricorda un’implacabile chiglia.

Quanto sangue nella mia memoria! La mia memoria è popolata di lagune. Sono cosparse di teste di morti. Non sono cosparse di ninfee. La mia memoria è popolata di lagune. Sulle rive le donne non hanno steso i panni.

La mia memoria è circondata di sangue. La mia memoria è cinta di cadaveri!

E mitraglia i barili di rum che innaffiano perfettamente le nostre ignobili rivolte, deliquio di occhi dolci per aver tracannato una libertà spietata

(ti dico che i negri sono tutti uguali, pieni di vizi, tutti i vizi, te lo dico io, l’odore del negro fa muovere il bastone, ricordati il vecchio detto:

bastonare un negro è come nutrirlo)

Ed ecco come ci vogliono veramente! Allegri e osceni, suonatori di jazz durante i loro momenti di noia.

Nelle gole armoniose in sordina i nostri lamenti infarciti di uà uà. Aspetta…

(Césaire, Diario, cit.)

Donna nuda, donna scura

olio che nessun soffio può increspare, olio calmo

sui fianchi dell’atleta, sui fianchi dei principi del Mali gazzella dalle giunture celestiali, le perle sono stelle sulla notte della tua pelle,

delizia per i giochi della mente i riflessi dell’oro rosso sulla tua pelle marezzata,

all’ombra della tua chioma, e la mia angoscia si rasserena ai soli vicini dei tuoi occhi.

(Senghor, Donna nera, cit.)

No non siamo mai stati cavalieri del re del Dahomey, né principi del Ghana con ottocento cammelli, né dottori a Timbuctù mentre era re Askia il grande, né architetti a Djenné, né soldati nel Sudan e neppure guerrieri. Non sentiamo sotto le ascelle il prurito di coloro che un tempo portarono la lancia. E siccome ho giurato di non nascondere nulla della nostra storia (io che ammiro più di qualsiasi altra cosa le pecore che brucano la propria ombra nel pomeriggio), confesso che siamo stati in ogni epoca mediocri lavapiatti, lustrascarpe di scarso rilievo, nel migliore dei casi stregoni coscienziosi e il solo indiscutibile primato che abbiamo battuto è quello della resistenza alla frusta…

E questo paese ha gridato per secoli che siamo bestie brute; che le pulsazioni dell’umanità si fermano alle porte della negraglia; che siamo un letamaio ambulante che annuncia schifosamente canne tenere e cotone serico e ci marcavano col ferro rovente e dormivamo fra i nostri escrementi e ci vendevano nelle piazze e un braccio di stoffa inglese e la carne salata di Irlanda costavano meno di noi, e questo paese era calmo, tranquillo, e diceva che lo spirito di dio guidava le sue azioni.

Noi vomito di negriero.

Noi preda delle coste della Nigeria cosa? Tapparci le orecchie?

Noi ubriachi fino a crepare per il rollio, per il ludibrio, per la nebbia respirata!

Scusa collega bufera!

Sento salire dalla stiva le maledizioni incatenate, i singulti dei moribondi, il rumore di uno che viene buttato in mare… i lamenti di una donna che partorisce… il raschiare di unghie che cercano la gola.. i ghigni della frusta…

il rimestare dei parassiti fra la gente sfinita. (Césaire, Diario, cit.)

Chi mi restituirà gli altopiani d’Etiopia, dove il pastore ritto su un piede solo si riposa all’ombra del suo flauto?

(Senghor, La tua lettera in Lettres, cit.)

E io e io

che predicavo il pugno di ferro.

Bisogna che dica fin dove ho spinto la mia viltà. Una sera in tram di fronte a me un negro.

Era un negro grande come un gorilla che cercava di farsi piccolo piccolo sul sedile del tram. Cercava sul lurido sedile del tram di rilassare le gambe gigantesche e le mani tremanti da pugile affamato. E tutto lo aveva abbandonato, lo abbandonava. Il naso che sembrava una penisola alla deriva e la stessa negritudine che si scoloriva sotto l’azione di un’instancabile conciatura. E il conciatore era la Miseria. Un grande folgorante pipistrello le cui unghiate si erano cicatrizzate su quel viso come isole di scabbia. O meglio la Miseria era un artigiano infaticabile, che aveva scolpito un’orrida figura. Si vedeva benissimo come il suo pollice industrioso e malevolo avesse modellato una fronte a bitorzoli, bucato il naso con due gallerie parallele ed inquietanti, allungato il labbro a dismisura, e grazie a un capolavoro di caricatura, limato, levigato, laccato la più piccola graziosa minuscola orecchia del creato.

Era un negro dinoccolato senza ritmo, sproporzionato.

Un negro i cui occhi roteavano una stanchezza sanguinolenta.

Un negro senza pudore le cui dita dei piedi ghignavano con un fare puzzolente in fondo alla tana semiaperta delle scarpe.

Si trattava veramente di un negro orribile, di un negro frignone, di un negro malinconico, di un negro accasciato, con le mani giunte in preghiera sopra un bastone

nodoso. Un negro sepolto sotto una vecchia giacca logora. Un negro comico e brutto e alcune donne dietro di me sogghignavano, mentre lo guardavano.

Era COMICO E BRUTTO,

COMICO E BRUTTO certamente. (Césaire, Diario, cit.)

Donna nuda, donna nera

canto la tua bellezza che passa, la tua forma che fisso nell’Eterno,

prima che il Fato geloso ti incenerisca per nutrire le radici della vita.

(Senghor, Donna nera, cit.)

COMICO E BRUTTO certamente. Sfoggiai un gran sorriso complice… La mia viltà ritrovata.

Saluto i tre secoli che hanno sostenuto i miei diritti civili e il mio sangue minimizzato.

Il mio eroismo, che farsa! Questa città è fatta a mia misura.

E la mia anima è prostrata. Come questa città prostrata nella sporcizia e nel fango. Questa città, la mia faccia di fango.

Invoco per la mia faccia l’elogio meraviglioso dello sputo!…

Mi nascondevo dietro una stupida vanità il destino mi chiamava ero nascosto dietro di lui ed ecco l’uomo per terra, con la sua fragile difesa dispersa,

con le sue maledette regole calpestate,

con le sue pedanti declamazioni che sputano vento da ogni ferita ecco l’uomo per terra

e la sua anima è come nuda

e trionfa il destino che contempla il trasformarsi nell’ancestrale pantano di quest’anima che lo sfidava.

Io dico che è proprio così.

Alla fine dell’alba…

(Césaire, Diario, cit.)

Oho! Congo oho! Per ritmare il tuo gran nome sopra le acque sui fiumi su ogni memoria

commuoverò la voce delle kora di Koyaté. Senza memoria è l’inchiostro dello scriba.

(Senghor, Congo in Ethiopiques, Poesie d’Africa, cit.)

Alla fine dell’alba…

Tiepida alba di fervore e di paure ancestrali ora tremo dello stesso tremore che il nostro sangue docile canta nella madrepora

(Césaire, Diario, cit.)

Oho! Congo steso nel tuo letto di foreste, come regina sull’Africa domata

che i falli dei monti portino alto il tuo gonfalone perché sei donna per la mia testa per la mia lingua, donna tu sei per il mio ventre

madre di tutto ciò che ha narici, dei coccodrilli, degli ippopotami e lamantini iguana pesci uccelli, madre delle piene

e nutrice delle messi.

(Senghor, Congo, cit.)

E i germogli dei miei prodigiosi antenati sbocciati dentro di me! Quelli che non hanno inventato né la polvere da sparo né la bussola quelli che non hanno mai saputo dominare il vapore e l’elettricità quelli che non hanno esplorato né i mari né il cielo

ma che conoscono negli angoli più riposti il paese della sofferenza quelli che hanno conosciuto solo il viaggio della tratta

quelli che si sono afflosciati nelle genuflessioni quelli che sono stati asserviti e cristianizzati

quelli che sono stati infettati con l’imbastardimento tam-tam di mani vuote

tam-tam inutili di piaghe sonore

tam-tam ridicoli di tradimenti apatici. (Césaire, Diario, cit.)

Oho! Congo! Donna opulenta! acqua aperta al remo e alla prua delle piroghe mia Saò, amante dalle cosce furenti, dalle lunghe braccia

di placide ninfee

donna preziosa di ouzougou, corpo d’olio immarcescibile dalla pelle di notte diamantina.

(Senghor, Congo, cit.)

Tiepida alba di fervore e di paure ancestrali in mare le mie ricchezze peregrine

in mare le mie falsità autentiche.

Ma quale strano orgoglio mi illumina improvvisamente? (Césaire, Diario, cit.)

Oho! Congo! Tu calmo come una dea dal quieto sorriso sull’onda vertiginosa del tuo sangue

tu, Impaludato per discendenza, liberami dall’esaltazione del sangue mio.

(Senghor, Congo, cit.)

Ma quale strano orgoglio mi illumina improvvisamente?

Venga il colibrì venga lo sparviero

venga la lacerazione dell’orizzonte venga il cinocefalo

venga il loto rivelatore del mondo

venga la rivolta perlifera dei delfini che spezzano la conchiglia del mare venga un tuffo di isole

venga la scomparsa dei giorni di carne morta nella calce viva dei rapaci vengano le ovaie dell’acqua dove il futuro agita le sue piccole teste

vengano i lupi che si cibano negli orifizi selvaggi del corpo nell’ora nell’ora in cui nel rifugio eclittico s’incontrano la mia luna e il tuo sole

nello sguardo del disordine c’è una rondine di menta e di ginestra che si scioglie per rinascere nel maremoto della tua luce

(Césaire, Diario, cit.)

Oho! Congo! Tam-tam tu, tu tam-tam sei dei balzi della pantera, della strategia delle formiche

degli odii vischiosi sbocciati il terzo giorno

dalla melma delle paludi ah! dal suolo spugnoso soprattutto e dai canti saponosi dell’Uomo bianco

liberami dunque dalla notte senza gioia e spia il silenzio delle foreste.

(Senghor, Congo, cit.)

O luce amica

o fresca sorgente della luce

quelli che non hanno inventato né la polvere da sparo né la bussola quelli che non hanno mai saputo dominare il vapore e l’elettricità quelli che non hanno esplorato né i mari né il cielo

ma quelli senza i quali la terra non sarebbe la terra gibbosità tanto più benefica della terra deserta

più della terra

silos dove si conserva e si matura ciò che la terra ha di più terra

la mia negritudine non è una pietra dalla sordità scagliata contro il clamore del giorno la mia negritudine non è un’albugine d’acqua morta

sull’occhio morto della terra

la mia negritudine non è né una torre né una cattedrale

affonda nella carne rossa del terreno affonda nella carne ardente del cielo

scava la prostrazione opaca della sua retta pazienza. (Césaire, Diario, cit.)

Oho! Congo! Che io sia il fusto splendido, il balzo di ben ventisei passi

e sia nell’aliseo la fuga della piroga sopra l’onda liscia del tuo ventre.

Al mio fianco ho l’amante dall’olio che fa docili le mani e l’anima mia

la mia forza si fa grande nell’abbandono l’orgoglio nella sottomissione

e la mia scienza dell’istinto nel tuo ritmo. (Senghor, Congo, cit.)

Evviva per il kailcedrat regale!

Evviva per quelli che non hanno inventato nulla per quelli che non hanno esplorato nulla

per quelli che non hanno dominato nulla

ma che si sono abbandonati, commossi, all’essenza di ogni cosa ignari della superficie ma commossi dal movimento di ogni cosa incuranti di dominare ma in armonia col mondo

effettivamente i primogeniti del mondo porosi a tutti i venti del mondo

spazio fraterno di tutti i venti del mondo

alveo senza drenaggio di tutte le acque del mondo

carne della carne del mondo che partecipa dello stesso movimento del mondo! (Césaire, Diario, cit.)

Alla prua del tuo sesso annoda il corifeo lo slancio della musica, come il fiero cacciatore di lamantini. Ritmate campanelle, ritmate o voci,

ritmate o remi

la danza del Maestro vogatore.

Ah, la sua piroga è ben degna dei cori trionfanti di Fadyoutt e io chiamo due volte due mani di tam-tam

quaranta vergini che cantino le sue gesta. (Senghor, Congo, cit.)

Tiepida alba di virtù ancestrali.

Sangue! Sangue! Tutto il nostro sangue turbato dal cuore maschio del sole quelli che conoscono la femminilità della luna dal corpo d’olio l’esaltazione riconciliata dell’antilope e della stella

quelli la cui sopravvivenza striscia nella germinazione dell’erba! Evviva cerchio perfetto del mondo e chiusa coincidenza!

Ascoltate il mondo bianco

orribilmente stanco per la fatica immensa

le sue articolazioni ribelli scricchiolano sotto le stelle implacabili la sua rigidità di acciaio scadente trafigge la carne mistica ascolta le sue vittorie traditrici annunciare le sue sconfitte ascolta dagli alibi grandiosi il suo misero vacillare.

Pietà per i nostri vincitori onniscienti e ingenui!

Evviva per quelli che non hanno inventato nulla per quelli che non hanno esplorato nulla

per quelli che non hanno dominato nulla.

Evviva per la gioia Evviva per l’amore

Evviva per il dolore alle mammelle delle lacrime reincarnate. (Césaire, Diario, cit.)

Ritmate la freccia rutilante, l’unghiata del Sole a mezzogiorno ritmate, raganelle delle conchiglie, il brusio del Grande Fiume e la morte sulla cresta dell’onda esultante

al richiamo inevitabile del baratro. (Senghor, Congo, cit.)

Ed ecco alla fine di quest’alba la mia preghiera virile che io non ascolti né le risa né le grida con gli occhi fissi su questa città che profetizzo bella,

datemi la fede selvaggia dello stregone date alle mie mani la forza di plasmare date alla mia anima la tempra della spada

non mi tiro indietro. Fate della mia testa una polena di prora e di me, cuore mio, non fare né un padre, né un fratello,

né un figlio, ma il padre, ma il fratello, ma il figlio, non il marito, ma l’amante di questo popolo unico.

Ma così facendo, cuore mio, preservami completamente dall’odio non fare di me un uomo d’odio per il quale provo soltanto odio infatti per relegarmi in questa razza unica

sai che il mio amore è tirannico

sai che non è per odio delle altre razze

che voglio essere il contadino che dissoda questa razza unica (Césaire, Diario, cit.)

Ma la piroga risorgerà dalle ninfee della schiuma la dolcezza dei bambù

navigherà nel mattino trasparente del mondo. (Senghor, Congo, cit.)

Ciò che voglio

è contro la fame universale contro la sete universale

pretendere che la terra sia libera

di produrre dalla sua chiusa intimità il trionfo fragrante dei suoi frutti.

(Césaire, Diario, cit.)

C’è sempre

un muro da varcare un passaporto

un controllo

il terrore improvviso di dimenticare

perché ti trovi proprio in quel posto e non altrove…

(Stocchi, In tempo di guerra, cit.)

E’ tempo di arrestare il processo di disgregazione del mondo moderno, e, per cominciare, della poesia. Noi dobbiamo restituirla alle sue origini, all’epoca in cui era cantata e danzata. Come in Grecia, in Israele, nell’Egitto dei Faraoni, e come oggi nell’Africa Nera.

(Senghor, Come i lamantini vanno a bere alla sorgente in Poesie d’Africa,

cit.)

C’è sempre

un muro da varcare un passaporto…

“Disunita contro se stessa ogni casa” anche le arti saranno destinate a perire.

Ma la poesia non deve morire: Altrimenti, dove finirebbe la speranza del Mondo? (Senghor, Come i lamantini vanno a bere alla sorgente, cit.)

C’è sempre

un muro da varcare…

Del tuo corpo farinoso dove scorre l’olio acajou degli ingranaggi preziosi dei tuoi

occhi simili a maree

del tuo sesso come croco

del tuo corpo del tuo sesso dei serpenti notturni di fiumi e di capanne

del tuo sesso sciabola di generale dell’astronomica orologeria del tuo sesso velenoso

del tuo corpo di miglio di miele di pestello di battitrice

di Attila dell’anno mille con un elmo di alghe d’amore e di delitto a larghi colpi di spada di sisal dalle tue braccia selvagge

a grandi colpi selvaggi delle tue braccia libere di plasmare l’amore a tuo piacere batéké

delle tue braccia che proteggono e che donano che colpiscono chiaroveggenti gli spazi ciechi bagnati di uccelli

io scaglio nel cavo d’albero dell’onda infantile dei tuoi seni

lo zampillo del grande mapou nato dal tuo sesso dove pende il fragile frutto della libertà

(Césaire, batéké in Le armi miratcolose, Guanda)

C’è sempre un muro….

LA FOTO è stata scelta dalla “bottega” (che ringrazia Michele per averci segnalato questo testo)

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