Per una nuova definizione di guerra al tempo della modernità

di Raffaele K. Salinari (*)

Vauro-guerra

«O Nomos, re di tutti, mortali ed immortali, capace di rendere giusta anche l’azione meno giusta…» (Pindaro)

Introduzione

Per capire cosa è oggi la guerra, cosa definisce e soprattutto chi la definisce, vale la pena accennare ad una ricostruzione storico giuridica. Per farlo ci serviremo delle riflessioni di Carl Schmitt, commentate da Danilo Zolo. Schmitt, costituzionalista tedesco e filosofo della politica che elaborò gli elementi fondamentali della costituzione nazista e che per questo fu poi processato a Norimberga. Il testo nel quale Schmitt elabora la sua analisi della evoluzione giurisprudenziale della guerra, ma anche le sue deduzioni in materia, è certamente il Nomos della terra, un testo fondamentale per chi voglia capire, dalla parte di un pensiero conservatore, se non francamente reazionario, e dunque in linea con quello attuale e prevalente, l’evoluzione, o meglio l’involuzione, di questa «prosecuzione della politica con altri mezzi» come diceva Clausewitz.

Abbiamo utilizzato Schmitt in tutte le nostre riflessioni sulla guerra e sulla sua evoluzione, anche perché riteniamo che le ultime affermazioni dello studioso tedesco, che chiudono appunto il Nomos della terra, diano ragione a quanti lavorano da sinistra, per la ricerca di un mondo di pace, se non pacificato, all’interno del quale la comunità umana, o le comunità umane, possano trovare altri mezzi per risolvere i loro conflitti.

Il 2 aprile 1917 era per Carl Schmitt una data di eccezionale valore simbolico. Quel giorno il presidente Woodrow Wilson, in piena guerra mondiale, aveva annunciato che gli Stati Uniti d’America avevano deciso di entrare in guerra contro la Germania. Si tratta evidentemente della rinuncia chiara e piena a quella politica neutralista sino a quel momento praticata, in base alla dottrina di Monroe, per impegnarsi, come potenza globale, a garantire attivamente la libertà dei popoli e la pace mondiale. Secondo Wilson «la guerra navale tedesca è una guerra condotta contro tutte le nazioni del mondo, ovvero contro l’umanità» La Germania veniva perciò dichiarata hostis generis humani – espressione normalmente usata per la criminalità organizzata internazionale come la pirateria – e considerata un nemico nei confronti del quale «la neutralità non è né moralmente legittima né praticabile».

Con queste dichiarazioni, sostiene Schmitt, la dinamica degli eventi bellici aveva subito una “svolta” (Wendung) attraverso la quale si concretizzavano le tre direttrici che avrebbero da allora determinato la nuova definizione di guerra. Danilo Zolo, in un saggio a commento di alcuni saggi di Schmitt così le riassume: 1) l’emergere definitivo degli Stati Uniti d’America come potenza fautrice di un nuovo imperialismo e, di conseguenza, la fine della centralità politica e giuridica dell’Europa; 2) il tramonto dello jus publicum europaeum quale strumento di regolazione della guerra fra Stati, e il profilarsi di istituzioni internazionali “universalistiche” – anzitutto la Società delle Nazioni – che avrebbero preteso di garantire la pace attraverso la proscrizione giuridica della guerra; 3). l’avvento di una guerra globale “discriminante”: entrando in guerra contro la Germania, gli Stati Uniti avevano annullato i concetti non discriminatori di guerra e di neutralità e si erano attribuito il potere di decidere su scala internazionale quale parte belligerante avesse ragione e quale torto.

La conclusione di Schmitt è che la prima guerra mondiale, dopo l’entrata in gioco degli Usa sulla base di questa motivazioni, aveva perciò cessato di essere una “classica”guerra interstatale, e si era trasformata in una «guerra civile mondiale» (Weltbürgerkrieg), secondo un modello destinato ad affermarsi e a coinvolgere l’intera umanità. Le riflessioni di Schmitt si compongono in una finale, abissale profezia: l’avvento di una «guerra totale asimmetrica e di annientamento», condotta da grandi potenze dotate di mezzi di distruzione di massa, in primis dalle potenze capitalistiche e liberali anglosassoni. È, dice ancora Zolo: “La previsione di una guerra totale, non più sottoposta a limitazioni giuridiche e quindi sommamente distruttiva e sanguinaria, e tuttavia considerata non solo ‘giusta’ ma addirittura ‘umanitaria’ perché concepita come azione di polizia internazionale contro i nemici dell’umanità: contro i nuovi barbari e i nuovi pirati, privi come tali di ogni diritto e di ogni tutela giuridica”.

Dalla “dottrina Monroe” alla “svolta” statunitense

La “dottrina Monroe”, lo ricordiamo brevemente, deriva dalla teoria, enunciata nel 1845 da John O’Sullivan, del cosiddetto Manifest Destiny, per cui la determinazione geopolitica del continente americano apparteneva per “destino evidente” agli Stati Uniti. L’originaria “dottrina Monroe”, risalente al 1823, e dunque novant’anni prima della Grande Guerra, si basava su tre cardini fondamentali: 1) l’indipendenza degli Stati americani, 2) il rifiuto ed il contrasto verso ogni forma di colonizzazione entro l’area del continente americano e, implicazione essenziale, 3) il divieto di ingerenza entro tale area da parte di forze armate di altri Stai americani o straniere. Quest’ultimo principio implicava anche una conseguenza geopolitica di grande portata, e cioè la non intromissione degli Stati americani, anzitutto degli Stati Uniti, nelle aree non continentali extra americane.

Ora, la “dottrina Monroe” si basava sulla nozione di Grossraum come lo definiva Schmitt, cioè di “grande spazio”, oggi diremmo area continentale o polarità continentale. Quando, a seguito della dichiarazione di Wilson e delle sue motivazioni, gli USA entrano in guerra, anche la “dottrina Monroe”, con le sue implicazioni continentali, compresa la salvaguardia del Grossraum, viene rinnegata. In origine, infatti, il concetto di “spazio panamericano” serviva a delimitare, sia territorialmente che giuridicamente, un ordinamento politico e giuridico “spazializzato”, con una funzione anticoloniale specialmente verso le potenze della vecchia Europa. Al contrario, come sostiene Zolo: “Con Wilson la proiezione universalistica della dottrina aveva assunto le forme di una strategia egemonica e interventista che andava ben oltre l’area caraibica e sud-americana e che si richiamava ai valori universali della democrazia liberale e della libertà del commercio mondiale. In questo modo, la nozione “spaziale” della “dottrina Monroe” era stata stravolta e rovesciata nel suo contrario: un’ideologia mondiale al di sopra degli Stati e dei popoli veniva usata per giustificare un progetto imperiale che si sottraeva a qualsiasi definizione di spazi e di confini. L’impero statunitense andava così assumendo una dimensione globale e polimorfa, riuscendo a imporre al mondo intero il monopolio della sua economia, della sua visione del mondo, della sua interpretazione del diritto internazionale, del suo stesso linguaggio e vocabolario concettuale: Caesar dominus et supra grammaticam”.

Questa proiezione imperiale della “dottrina Monroe” – sostiene Schmitt – ha delle ricadute diretta sull’impostazione ottocentesca che vede gli Stati come i dominus del Diritto internazionale, in particolare riguardo alla guerra ed alla sua legittimità ed estensione. La posizione statunitense finisce infatti per influenzare in senso universalistico la struttura stessa della Società delle Nazioni, non solo, ma esercita una profonda influenza sulla teoria occidentale del diritto internazionale, basta guardare il lavoro di George Scelle e Hersch Lauterpacht, tra gli altri, per trovarvi l’idea di un nuovo ordinamento mondiale – istituzionalizzato, sopranazionale – che di fatto rende superata la disputa classica fra monismo e pluralismo del diritto internazionale, e fra il primato del diritto internazionale e quello degli ordinamenti nazionali. Sia il francese Scelle in Précis de droit des gens, sia l’inglese Lauterpacht in The Function of Law in the International Community, auspicavano un ordinamento giuridico mondiale nel quale le istituzioni internazionali, l’ordine mondiale e l’umanità intera si integrassero reciprocamente. Da queste riflessioni di Schmitt, conclude ancora Zolo si arriva all’evidenza che: “Il costituzionalismo liberale dell’Ottocento europeo veniva così applicato tout court alla comunità internazionale e ne conseguiva una drastica emarginazione delle istituzioni statali: gli Stati e i popoli in essi organizzati venivano privati di ogni sovranità e giuridicamente detronizzati. In parallelo emergeva il progetto di una civitas maxima – che era già stato proposto da Christian Wolff e che Hans Kelsen aveva riformulato nel 1920 – quale istituzione specifica regolata da un common law universale e sotto la giurisdizione di una magistratura internazionale. Era il modello, individualistico e universalistico nello stesso tempo, di uno Stato di diritto mondiale che l’Occidente avrebbe dovuto esportare in ogni angolo della terra”.

Continua Zolo: «In questa prospettiva cosmopolitica – in realtà dominata dal progetto egemonico statunitense – l’eclissi del primato politico e giuridico dell’Europa era inevitabile, ed era anzi un obiettivo consapevolmente perseguito. Nonostante la comparsa del nuovo mondo americano, per secoli il diritto internazionale europeo aveva assunto l’Europa come il centro della terra, come creatrice e portatrice di una civiltà e di un ordinamento giuridico validi per il mondo intero. Ma a partire dai primi decenni dell’Ottocento l’affermarsi della “dottrina Monroe” aveva suggerito l’idea di una nuova area globale – incentrata nell’ “emisfero occidentale” americano – non più eurocentrica, ma, al contrario, tale da porre in questione la “vecchia Europa” e qualsiasi rappresentazione eurocentrica dell’immagine globale del mondo».

Schimitt fa dunque notare che è la stessa nozione di “emisfero occidentale”, che già nelle formulazioni di Thomas Jefferson veniva usata per esprimere tutto ciò che era morale, civile e politicamente sano, viene di fatto avocata decisamente al “nuovo occidente” statunitense, che vuole così emarginare l’Europa come culla storico-culturale della civilizzazione universale, rimuovendola “moralmente” ed “eticamente”, ancor prima che politicamente e militarmente, dalla sua posizione di centro del mondo: ormai è l’America ad essere l’egida del diritto e della libertà, pur mantenendo, o meglio, proprio per questo mantenendo allo stesso tempo, il dominio impenetrabile che gli Stati Uniti esercitavano sul “grande spazio” del continente americano, “prima misura” della loro crescente egemonia su scala globale. Alla fine dell’Ottocento, sostiene Schmitt, la guerra degli Stati Uniti contro la Spagna aveva già chiaramente testimoniato questa conversione dell’espansionismo americano in “aperto imperialismo”.

La dissoluzione dello jus publicum europaeum

Secondo Schmitt l’implicazione maggiore, su scala mondiale, di questo universalismo statunitense, ha portato ad una regressione, ad un passo indietro che dallo jus publicm europaeum, basato sul rapporto tra gli Stati e dunque che considerava la guerra come una forma di questa relazione, e regolata di conseguenza, ritorna alla dottrina etico-teologica della “guerra giusta”, la motivazione di Wilson per l’entrata in guerra, con il conseguente abbandono della regolazione giuridica delle guerre fra Stati che, almeno secondo l’interpretazione di Schmitt, aveva efficacemente operato in Europa per alcuni secoli.

Dice Zolo a questo proposito: “Tramontato lo jus gentium medievale e la concezione universalistica del potere teocratico-imperiale, il diritto internazionale eurocentrico si era affermato grazie all’avvento dello Stato moderno europeo. Lo Stato era sovrano sia all’interno del proprio territorio, sia verso l’esterno, ed era quindi affrancato dall’autorità del pontefice romano ed estraneo alla dottrina medievale del bellum justum. Il diritto internazionale europeo post-medievale aveva respinto, assieme all’autorità giuridica internazionale della Chiesa cattolica, il principio della justa causa della guerra, al quale aveva sostituito il riferimento formale all’eguale sovranità degli Stati. Il cardine della qualificazione giuridica della guerra fra Stati sovrani non era più l’argomentazione ecclesiastica sulle “cause”, giuste o ingiuste, della guerra condotta da ciascun soggetto belligerante. Il cardine giuridico era la nozione di justus hostis, che attribuiva legittimità formale ad ogni guerra interstatale condotta da sovrani europei, riconosciuti titolari di eguali diritti, incluso il diritto di fare guerra. Il formalismo giuridico consentiva di non escludere che entrambi i paesi contendenti potessero avere delle buone ragioni per combattere una guerra – bellum utrimque justum –, ragioni che del resto venivano valutate per conto proprio dalle cancellerie di ciascuno Stato. Ciò era inevitabile in assenza di una stabile auctoritas spiritualis, dotata di una potestà politica e giuridica universale e riconosciuta universalmente come superiore a quella dei re e dei principi, secondo il paradigma della respublica christiana. Secondo Schmitt, la formalizzazione giuridica – questa è la sua tesi centrale – aveva avuto il grande merito di porre fine ai massacri delle guerre di religione. Per alcuni secoli il diritto pubblico dei paesi europei aveva reso possibile una ‘limitazione della guerra’ (Hegung des Krieges) e quindi una sua «razionalizzazione e umanizzazione di grandissima efficacia», in quanto aveva introdotto una netta distinzione fra il «nemico formalmente giusto» e il nemico «criminale, ribelle o pirata». Il nemico ‘ingiusto’ era passibile di sanzioni punitive di carattere penale, quando non della tortura e dell’uccisione sommaria in quanto non-persona (Unmensch) . Al contrario, il nemico ‘giusto’, anche se sconfitto, non perdeva la sua dignità e i suoi diritti, come provavano le regole circa il trattamento dei prigionieri, l’immunità degli ambasciatori, le procedure di resa e in particolare le modalità di conclusione di un trattato di pace con le annesse clausole di amnistia. L’aequalitas hostium, che riguardava in particolare la guerra terrestre europea – con l’esclusione della guerra civile e della guerra coloniale –, impediva che i prigionieri e i vinti potessero essere trattati come l’oggetto di una punizione, di una vendetta o di una cattura di ostaggi . I belligeranti “si rispettavano come nemici e non si discriminavano come criminali, cosicché una conclusione pacifica era possibile, anzi rimaneva persino la normale, ovvia conclusione della guerra”.

In opposizione a tutto questo, l’affermarsi della concezione universalista promossa dagli Stati Uniti rimanda ad una nozione, se non chiaramente “teologica” di nemico, certamente ad una con decise implicazioni etico-morali, esattamente il campo nel quale la chiesa cerca da sempre di esercitare il suo dominio temporale, e che dunque si sostituisce al concetto giuridico di justus hostis. Dice Schmitt: “I teologi tendono a definire il nemico come qualcosa che deve essere annientato”. La dottrina viene ovviamente rielaborata in termini giuridici rispetto, per cui il nemico non è più considerato “ingiusto” in funzione delle ragioni morali della sua entrata in guerra o a causa del suo essere un infedele o un selvaggio o un pirata, ma bensì chi usa la forza militare per primo senza motivazione difensiva è tout court un criminale, anche eticamente condannabile, un aggressore. A parere di Schmitt la criminalizzazione della guerra di aggressione è dunque un ritorno alla dottrina del bellum justum, una regressione all’idea medievale della justa causa belli. L’analisi di Schmitt è senza appello: viene distrutto un “capolavoro della ragione umana”, per ottenere il quale era stato necessario un “faticoso lavoro giuridico” e grazie al quale si era ottenuto un vero e proprio “miracolo”: l’assenza per oltre due secoli di guerre di sterminio nel “grande spazio” europeo, poiché si era stati capaci di mettere la guerre en forme, secondo la celebre formula di Emmerich de Vattel.

Inutile far notare, en passant, come Schmitt non tenga in nessun conto le guerre coloniali, dato che nella sua interpretazione tutta occidentale e “bianca” del mondo, i popoli e colonizzati e le loro istituzioni non esistevano come soggetti di diritto, negando qui de facto la sua stessa tesi. Anche la prima guerra mondiale, con i suoi diciotto milioni di morti, fra i quali dieci milioni di civili, e oltre venti milioni di feriti, era già stata in se stessa una sconfitta irreparabile del diritto internazionale europeo, che non era riuscito a contenere gli effetti devastanti delle nuove armi e delle nuove strategie militari. E questa sconfitta non poteva certo essere ascritta alla diretta responsabilità dei politici e dei giuristi d’oltre Atlantico, né alla inefficienza di istituzioni internazionali “universalistiche”. Ma questa palese contraddizione rafforza il ragionamento di fondo e le conclusioni cui arriveremo proprio a partire dalle tesi di questo studioso reazionario.

Al posto della giurisprudenza basata sui “grandi spazi”, dice ancora Zolo: “Nei primi decenni del Novecento si era affermata prepotentemente l’idea che fossero necessarie istituzioni ‘sovranazionali’ e non semplicemente interstatali, capaci di superare l’anarchia del sistema vestfaliano degli Stati sovrani, anarchia che i trattati e la diplomazia multilaterale del “Concerto d’Europa” non erano riusciti ad attenuare. Alla luce di questa ideologia universalista, nel 1920 era nata a Ginevra la Società delle Nazioni. Era una istituzione universalistica e ‘despazializzata’, voluta dagli Stati Uniti, che si proponeva di garantire una pace stabile nel mondo intero, non solo in Europa”.

E allora, se il compito del diritto internazionale era di «essere nello stesso tempo un ordinamento europeo ed un ordinamento universale e globale», a Ginevra, dice ancora Schmitt «in nome del dogma universalistico, si discuteva molto di bandire e abolire la guerra e mai invece di una limitazione spaziale di essa» la conclusione è apocalittica: in Die Wendung zum discriminierenden Kriegsbegriff, la Società delle Nazioni viene definita come «solo un mezzo per la preparazione di una guerra ‘totale’ in sommo grado, e cioè di una guerra ‘giusta’ condotta con pretese sovrastatali e sovranazionali».

Il fallimento della Società delle Nazioni, a fronte di gravissime violazioni dell’ordine internazionale – dall’invasione giapponese della Manciuria e della Cina all’aggressione italiana dell’Etiopia, all’occupazione tedesca della Polonia – con l’inizio della seconda guerra mondiale era dunque per Schmitt inevitabile perché era «espressione del tentativo di abolire la guerra mettendola semplicemente al bando sul piano giuridico». Ci sono due “verità”, egli scrive, che non avrebbero dovuto essere dimenticate, e cioè che: “Il diritto internazionale ha anzitutto il compito di impedire la guerra di annientamento, ovvero di limitare la guerra quando essa sia inevitabile e, in secondo luogo, che una negazione giuridica della guerra, senza una sua effettiva limitazione, ha come unico risultato quello di dar vita a nuovi tipi di guerra, verosimilmente peggiori, e di portare a ricadute nella guerra civile o ad altre forme di guerra di annientamento”.

Ed arriviamo così ad analizzare quello che Schmitt stesso chiama «il mutamento del significato della guerra», che costituisce il corollario più importante che deriva dalla “universalizzazione” delle istituzioni internazionali e dalla proscrizione giuridica della guerra. Con il Trattato di Versailles del 1919, la guerra di aggressione viene qualificata, per la prima volta nella storia dell’umanità, come un international crime che fa scattare, tra le altre cose, anche la responsabilità penale di singoli individui. Non si tratta più soltanto della responsabilità di uno Stato verso un altro, e dunque sanzionabile nelle forme tradizionali del risarcimento dei danni, della perdita territoriale, del disarmo forzato, delle modifiche giuridiche conseguenti. Il Trattato di Versailles impone allo Stato sconfitto di consegnare propri cittadini agli Stati vincenti perché vengano sottoposti ad un processo penale in quanto criminali di guerra. L’articolo 227 del Trattato stabilisce che il Kaiser venga processato, assieme ad alcuni alti esponenti politici e militari tedeschi, davanti a una corte internazionale nominata dalle cinque grandi potenze vincitrici.

Questo autorevole precedente, non dimentichiamoci che la Grande Guerra è stata da questo punto di vista una “guerra costituente” come tutte le guerre importanti dal punto di vista politico, sul cammino che porterà ai Tribunali di Norimberga e di Tokyo, anch’essi istituiti dalle potenze vincitrici contro gli sconfitti. Ad maiora, secondo la sentenza di Norimberga, la guerra di aggressione non è più soltanto un crimine internazionale, ma è “il crimine internazionale supremo”e responsabili di questo “crimine supremo” sono tutti coloro che hanno deciso o combattuto la guerra, penalmente responsabili, pena di morte compresa, delle morti e delle distruzioni conseguenti.

Conclude Zolo: “Siamo dunque di fronte ad una nozione di guerra toto coelo opposta a quella della guerra europea ‘messa in forma’ dallo jus publicum europaeum: una guerra come rapporto conflittuale fra Stati regolato e limitato dal diritto e quindi legale. La nuova nozione verrà formalmente adottata nel 1946 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e verrà considerata un principio giuridico internazionale valido erga omnes come ogni altro principio formulato dallo statuto e dalla sentenza del Tribunale di Norimberga”.

La guerra “umanitaria”

Wer Menschheit sagt, will betrügen: “chi dice umanità cerca di ingannarti”. Questa è la massima che Schmitt propone già nel 1927 in «Begriff des Politischen» per esprimere la sua diffidenza nei confronti dell’idea di uno “Stato mondiale” che comprenda tutta l’umanità, annulli il “pluriverso” (Pluriversum) dei popoli e degli Stati e sopprima la dimensione stessa del “politico”. E a maggior ragione Schmitt si oppone al tentativo di una grande potenza – l’ovvio riferimento è agli Stati Uniti – di presentare le proprie guerre come guerre condotte in nome e a vantaggio dell’intera umanità. Se uno Stato combatte il suo nemico in nome dell’umanità, la guerra che conduce non è una guerra dell’umanità. Quello Stato cerca semplicemente di impadronirsi di un concetto universale per potersi identificare con esso a spese del nemico. Monopolizzare questo concetto nel corso di una guerra significa tentare di negare al nemico ogni qualità umana, dichiararlo hors-la-loi e horsl’humanité, in modo da poter usare nei suoi confronti metodi spietati sino all’estrema disumanità. In questo senso, il termine “umanità” – il riferimento agli Stati Uniti è anche qui ovvio – è uno slogan etico-umanitario “particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche” .

Sono queste le premesse filosofico-politiche che inducono Schmitt ad avanzare negli ultimi paragrafi di Der Nomos der Erde una severa denuncia del bellicismo imperialistico degli Stati Uniti. Egli formula l’ipotesi che sotto la retorica umanitaria dell’universalismo wilsoniano si celasse, oltre alla logica espansionistica del capitalismo industriale e commerciale, il progetto di una egemonia mondiale che avrebbe inevitabilmente portato ad una guerra globale “umanitaria”, condotta con armi di distruzione di massa sempre più sofisticate e micidiali. Schmitt aveva colto lucidamente sin dai suoi scritti degli anni trenta, come abbiamo visto, la dimensione planetaria e poliedrica del progetto egemonico statunitense. Ma in Der Nomos der Erde egli si mostra convinto che la superpotenza americana si stava imponendo come un impero globale soprattutto perché disponeva di un potenziale bellico soverchiante. E la supremazia militare la poneva al di sopra del diritto internazionale, compreso lo jus belli, attribuendole il potere di interpretarne le norme secondo le proprie convenienze, o di ignorarle del tutto.

In prospettiva, l’asimmetria del conflitto avrebbe esasperato e diffuso le ostilità: il più forte avrebbe trattato il nemico come un criminale, mentre chi si fosse trovato in condizioni di irrimediabile inferiorità sarebbe stato di fatto costretto ad usare i mezzi della guerra civile, al di fuori di ogni limitazione e di ogni regola, in una situazione di generale anarchia. E l’anarchia della “guerra civile mondiale”, se confrontata con il nichilismo di un potere imperiale centralizzato, impegnato a dominare il mondo con l’uso dei mezzi di distruzione di massa, avrebbe potuto alla fine “apparire all’umanità disperata non solo come il male minore, ma anzi come il solo rimedio efficace”. In una delle ultime pagine di Der Nomos der Erde Schmitt scrive: “Se le armi sono in modo evidente impari, allora decade il concetto di guerra simmetrica, nella quale i combattenti si collocano sullo stesso piano. È infatti prerogativa della guerra simmetrica che entrambi i contendenti abbiano una qualche possibilità di vittoria. Se questa possibilità viene meno, l’avversario più debole diventa semplice oggetto di coazione. Si acuisce allora in misura corrispondente l’ostilità fra le parti in guerra. Chi si trova in stato di inferiorità sposta la distinzione fra potere e diritto nell’ambito del bellum intestinum. Il più forte vede invece nella propria superiorità militare una prova della sua justa causa e tratta il nemico come un criminale. La discriminazione del nemico e la contemporanea assunzione a proprio favore della justa causa vanno di pari passo con il potenziamento dei mezzi di annientamento e con lo sradicamento spaziale del teatro di guerra. Si spalanca così l’abisso di una discriminazione giuridica e morale altrettanto distruttiva”.

È a questo punto che Schmitt sembra raggiungere il vertice della sua capacità analitica e della sua lungimiranza predittiva: la guerra che si profila all’orizzonte non sarà soltanto una guerra globale, asimmetrica, “giusta” e “umanitaria”, ma sarà una guerra capace di una discriminazione abissale del nemico, poiché assumerà la forma di una permanente “azione di polizia”: una polizia internazionale, ovviamente controllata dagli Stati Uniti, che userà armi di distruzione di massa contro i “perturbatori della pace”, senza più alcuna distinzione fra truppe regolari e milizie irregolari, e fra militari e civili. Non sarà dunque una guerra fra Stati, suscettibile di concludersi con un qualche trattato di pace, ma sarà una permanente “guerra civile mondiale” condotta da una grande potenza per sottoporre a controllo poliziesco-militare l’intero pianeta. Ancora dal Nomos della Terra: “Nella misura in cui oggi la guerra viene trasformata in azione di polizia contro perturbatori della pace, criminali ed elementi nocivi, deve essere anche potenziata la giustificazione dei metodi di questo police bombing. Si è così inclini a spingere la discriminazione dell’avversario fino a dimensioni abissali”.

Nella premessa all’edizione italiana di una raccolta di suoi saggi, Le categorie del “politico”, del 1971, Schmitt si esprime in termini ancora più espliciti: “Oggi l’umanità è intesa come una società unitaria, sostanzialmente già pacificata; […] al posto della politica mondiale dovrebbe quindi instaurarsi una polizia mondiale. A me sembra che il mondo di oggi e l’umanità moderna siano assai lontani dall’unità politica. La polizia non è qualcosa di apolitico. La politica mondiale è una politica molto intensiva, risultante da una volontà di pan-interventismo; essa è soltanto un tipo particolare di politica e non certo la più attraente: è cioè la politica della guerra civile mondiale (Weltbürgerkriegspolitik)”.

Per un nuovo Nomos della Terra

In Der Nomos der Erde, dunque, la severa critica che Schmitt rivolge insistentemente all’universalismo wilsoniano, alla Società delle Nazioni e, più in generale, al neo-imperialismo statunitense, non è immune da una percezione vendicativa delle sconfitte subite dalla Germania nel corso delle due guerre mondiali. L’anti-imperialismo di Schmitt è contaminato da ovvi pregiudizi politici che tuttavia, non ne compromettono la lucidità e la sostanziale pertinenza. Il punto più delicato è tuttavia un altro. Si può infatti dubitare che lo jus publicum dei popoli europei avesse realmente introdotto – come Schmitt non si stanca di ripetere – rilevanti elementi di attenuazione della violenza bellica nel corso dei due secoli della sua effettiva vigenza, il Settecento e l’Ottocento. Schmitt si concentra, nelle sue vesti di giurista, sulla disciplina formale delle relazioni belliche, affermatasi dopo la fine delle guerre di religione e le paci di Vestfalia, ed esalta come una grande conquista giuridica il carattere non “discriminante” della concezione della guerra terrestre europea. In Die Wendung zum diskriminierenden Kriegsbegriff, Schmitt si spinge a sostenere che: «Nessun entusiasmo pacifista e nessuna repulsione per gli orrori della guerra, per quanto giustificata, ci può indurre a negare il fatto che ancora oggi una guerra tra due Stati è qualcosa di diverso rispetto a un omicidio, a una rapina o a un atto di pirateria. […] La guerra possiede, secondo il tradizionale diritto internazionale, un proprio diritto, un proprio onore e una propria dignità per il fatto che il nemico non è un pirata o un gangster, ma è uno “Stato” e un “soggetto del diritto internazionale”».

Detto questo, non si può negare che nella sua filosofia del diritto internazionale Schmitt propone una interpretazione fortemente suggestiva delle relazioni fra la “vecchia Europa” e il “nuovo mondo” americano e offre una preziosa chiave di lettura degli imponenti successi che la vocazione messianica ed egemonica degli Stati Uniti ha conseguito nella seconda metà del Novecento. Si tratta di una chiave di lettura di drammatica attualità, che si rivela illuminante in particolare per quanto riguarda la fase di espansione planetaria dell’egemonia neo-imperiale degli Stati Uniti dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la fine dell’assetto bipolare delle relazioni internazionali. Non è certo un caso che il tema della costituzione imperiale del mondo e della crescente concentrazione del potere internazionale nelle mani delle grandi potenze occidentali sia oggi, assieme al problema del global terrorism, l’epicentro di un dibattito di vastissime proporzioni nel contesto dei processi di crescente interdipendenza e integrazione globale.

Conclude Zolo: «A guardar bene, le “nuove guerre” che gli Stati Uniti e i loro più stretti alleati occidentali hanno condotto nell’arco di tempo che va dalla Guerra del Golfo del 1991 all’aggressione dell’Iraq nel 2003 – con al centro l’attentato dell’11 settembre 2001 – offrono una conferma sorprendente della “profezia apocalittica” annunciata da Schmitt: l’avvento di una guerra globale sottratta a ogni controllo e limitazione giuridica, ampiamente asimmetrica, nella quale una grande potenza neo-imperiale si schiera non solo e non tanto contro singoli Stati, quanto contro organizzazioni di “partigiani globali” (Kosmopartisanen) che operano su scala mondiale usando gli strumenti e perseguendo gli obiettivi di una guerra civile».

La profezia schmittiana trova singolare conferma in una serie di circostanze di eccezionale rilievo: 1. l’impotenza delle istituzioni internazionali “universalistiche” di fronte al costante espandersi del fenomeno bellico: le Nazioni Unite, in particolare, sono ormai costrette a pure funzioni adattive e di supina legittimazione a posteriori dello status quo imposto dalle grandi potenze attraverso l’uso della forza; 2. l’evanescenza normativa e l’irrilevanza pratica della nozione giuridica di “guerra di aggressione” e, in genere, la clamorosa inutilità della proscrizione giuridica della guerra proclamata dalla Carta delle Nazioni Unite e ribadita dal Tribunale di Norimberga. La guerra preventiva è oggi teorizzata e impunemente praticata dalle grandi potenze, in particolare dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna, da Israele e persino dalla Turchia; 3. il recupero dell’ideologia della “guerra giusta” da parte di influenti intellettuali e politici statunitensi – in particolare da parte del presidente Bush e dei suoi sostenitori neocon – che presentano la “guerra globale contro il terrorismo” (global war on terrorism) e contro gli “Stati canaglia” (rogue states) come una guerra del bene contro l’”asse del male”, secondo la visione provvidenzialistica ereditata dal puritanesimo e dal calvinismo. La guerra viene motivata non sulla base di interessi di parte o di obiettivi particolari, ma assumendo un punto di vista superiore e imparziale, in nome di valori che si ritengono condivisi o doverosamente condivisibili dall’umanità intera; 4. l’esplicita motivazione “umanitaria” di interventi militari decisi in violazione della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale generale. Esemplare è stata la guerra di aggressione scatenata nel 1999 dalla Nato contro la Repubblica Federale Jugoslava in nome di una sedicente difesa dei diritti umani della minoranza kosovaro-albanese. Una guerra civile di modeste dimensioni è stata presentata come un genocidio imminente da parte delle milizie serbe e questo ha offerto agli Stati Uniti (e ai loro alleati) l’occasione per devastare un intero paese, fare strage di migliaia di persone innocenti e costruire nel cuore del Kosovo un’imponente base militare, Camp Bondsteel. 5. il revival negli anni novanta del secolo scorso della giurisdizione penale internazionale secondo il “modello di Norimberga” e cioè secondo la logica della degradazione morale del nemico sconfitto e dell’esaltazione propagandistica dell’eccellenza morale dei vincitori . Esemplare è stato il caso del Tribunale penale internazionale dell’Aja per la ex Jugoslavia, voluto, finanziato e militarmente assistito dagli Stati Uniti, che ha operato e opera tuttora come una longa manus giudiziaria delle autorità politiche e militari della Nato; 6. la sistematica, feroce discriminazione praticata dagli Stati Uniti nei confronti di nemici fatti prigionieri nel corso di guerre “umanitarie” o preventive, non riconosciuti neppure quali combattenti irregolari, come provano gli orrori delle prigioni di Guantánamo, di Abu Ghraib, di Bagram e come conferma la legittimazione o l’uso diretto della tortura nel corso delle extraordinary renditions praticate dalla Cia. La guerra globale, concepita come azione di “polizia internazionale”, non ha come finalità la semplice vittoria sul nemico e l’eventuale successiva pacificazione: l’obiettivo è quello di annientare i nemici in una guerra che potrebbe essere “infinita”.

Si tratta di realtà irrefutabili che si compongono in uno scenario di normalizzazione della guerra e della violenza nelle loro forme più spietate e meno passibili di regolazione giuridica. E non va dimenticato che a tutto questo si somma la replica sanguinaria del terrorismo internazionale. Un panorama crudele e disarmante come questo potrebbe autorizzare, in nome del realismo politico, previsioni di un radicale pessimismo, se non di un disperato nichilismo politico e morale. E potrebbe suggerire la rinuncia a ricercare qualsiasi nuovo “Nomos della Terra”. Ma che la violenza e lo spargimento del sangue siano al centro della storia umana non può sorprendere un osservatore realistico delle relazioni internazionali. E Schmitt non è mai giunto a conclusioni nichiliste. Sia pure in termini sommari, egli ha più volte accennato al concetto di Grossraum come a una possibile alternativa al monopolio globale e allo strapotere militare di un’unica potenza: Grossraum gegen Universalismus, appunto, come recita il titolo di un suo saggio. Era l’idea, paradossalmente suggerita dalla versione originaria della “dottrina Monroe”, secondo la quale “un pluralismo di grandi spazi in sé ordinati e coesistenti, di sfere di intervento e di aree di civiltà potrebbe determinare il nuovo diritto internazionale della terra” .

Un progetto di pacificazione del mondo richiederebbe, secondo questa intuizione schmittiana, la costruzione di un regionalismo policentrico e multipolare e un rilancio della negoziazione multilaterale fra gli Stati come fonte normativa e legittimazione dei processi di integrazione regionale. Un’Europa che come “grande spazio” regionale riuscisse ad affrancarsi dalla sudditanza politica e militare che oggi la subordina agli Stati Uniti forse potrebbe recuperare la sua centralità strategica. E potrebbe svolgere una funzione di equilibrio in un mondo nel quale stanno emergendo potenze regionali decise a liberarsi dall’unilateralismo imperiale degli Stati Uniti e a promuovere un assetto pluralistico delle relazioni internazionali. Tutto questo richiederebbe un’impietosa riflessione autocritica sulle radici dell’orrore che l’Europa e l’Occidente si sono rivelati capaci di produrre in un recente passato – dalle guerre coloniali ai Lager nazisti e l’Olocausto, a Hiroshima e Nagasaki – e si mostrano ancora oggi capaci di produrre. E occorrerebbe una cultura politica europea orientata a un dialogo paritetico con le altre civiltà, a cominciare dal mondo arabo-islamico, e a fare del Mediterraneo, oggi epicentro incandescente del conflitto mondiale, un crocevia della pace.

Nell’estate del 1950, chiudendo la prefazione a Der Nomos der Erde, Schmitt aveva trovato, sia pure tardivamente, il coraggio morale di scrivere: “È ai costruttori di pace che è promesso il regno della terra. Anche l’idea di un nuovo Nomos della Terra si dischiuderà solo a loro”.

(*) Questo testo è la traccia dell’intervento di Raffaele K. Salinari alla Giornata di studi «Riflessioni di pace intorno alle guerre» che si svolgerà il 15 maggio (ore 9-17.30) a Bologna nella sala ex-Refettorio dell’«Istituto per la storia e le memorie del ‘900 Parri E-R» in via Sant’Isaia, 20. Info: 051 3397211, 051 3397273.
LA VIGNETTA E’ DI VAURO.

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