Perchè ci serve Goffman

da «Riflessioni su normalità e devianza», un breve saggio di Lorenzo Tosarelli (*)

Qualche giorno fa riflettevo se avevo tempo (e competenze) per fare in blog una «scor-data» su Erving Goffman; alla fine Kronos ha deciso per me però Mercurio (o chi per lui) poco dopo mi ha inviato un saggio di Lorenzo Tosarelli dove Goffman gioca un ruolo importante. Bella coincidenza… ed eccone i passaggi più importanti. (db)

INTRODUZIONE

«Che cos’è una parola? Un simbolo arbitrario. Eppure viviamo tra le parole. La nostra realtà è fatta di parole, non di cose. Comunque non esistono cose; una gestalt nella mente. La cosità… Il senso della sostanza. Un’illusione. La parola è più reale dell’oggetto che rappresenta. La parola non rappresenta la realtà. La parola è la realtà. Per noi, comunque. Forse Dio arriva agli oggetti. Ma noi no». (Philip K. Dick in «Tempo fuor di sesto»)

PARTE 2. GOFFMAN, LA DEVIANZA IN PSICHIATRIA E L’ORDINE SOCIALE
«E adesso imparo un sacco di cose
in mezzo agli altri vestiti uguali
tranne qual’è il crimine giusto
per non passare da criminali»
Fabrizio De Andrè, «Nella mia ora di libertà»

2.1 Personalità sociali
Il modo in cui gli individui si trattano reciprocamente esprimono definizioni degli individui stessi. «Si tratta di una definizione “virtuale”; essa è basata sui modi di comprendere della comunità ed è alla portata di chiunque ne faccia parte» (Goffman, 1969, p. 370)
Significa un codice sottinteso, dato per scontato, quasi mai preso in considerazione o analizzato. E’ tuttavia approvato dalla maggior parte dei membri di una società. L’insieme di queste definizioni “date”, costituiscono “la persona” dell’individuo. Essa è parte dello stesso individuo esattamente quanto il “sè”, ma spesso, la definizione che un individuo si dà di sè è diversa da quella che gli viene data. Spiega Goffman: «Quando questi diversi rapporti che l’individuo può avere con ciò che gli altri possono vedere di lui vengono codificati e diventano abituali, allora si possono definire “personalità” e “carattere”» (Ivi, p. 371).
Tutto ciò può svilupparsi liberamente, singolarmente, soggettivamente e a piacimento del caso nelle infinite complessità umane, tuttavia deve essere organizzato, regolato e normatizzato nel momento in cui si entra in società, dunque la norma diventa un bisogno ed una necessità. Per Goffman la norma, o regola sociale, è «qualunque indicazione diretta a far scegliere un certo tipo di azioni in quanto appropriate, adatte alla situazione, corrette e moralmente giuste. In questo processo sono coinvolte tre parti: la persona che può legittimamente aspettarsi e esigere di essere trattata in un certo modo, conforme alla regola; la persona che è obbligata ad agire secondo la regola; la comunità che rafforza la legittimità di queste aspettative e di questi obblighi» (Ivi, p. 372).
La comunità che, come vedremo con Durkheim è la forma più alta di vita psichica in quanto coscienza di coscienze, non è in sfondo nè gioca un ruolo marginale ma è da considerarsi come un soggetto con specifiche forze e influenze.
Il carattere di un individuo non è isolato, bensì un “carattere sociale”.
Attraverso la socializzazione l’individuo formula supposizioni su di sè. Esse non sono isolate ma delineate dai rapporti che egli instaura intorno a sè, approvati o meno dal gruppo. «L’individuo tende a organizzare la propria attività come se il punto chiave sia ciò che egli suppone di sè. Presuppone cioè che la sua parte di aspettative e di obblighi nei confronti del gruppo gli verrà suddivisa in base (e come conferma) di ciò che egli presume di sè» (Ivi, p. 374).
Tutta questa organizzazione dell’individuo funziona perchè gli altri fanno lo stesso. Il sè e la persona vengono a coincidere. Non esiste il sè individuale senza il sè sociale, collettivo. «Se la regola obbliga a fare qualche cosa nei confronti degli altri, egli diviene, per sè e per loro, il tipo di persona che agirebbe spontaneamente nel modo correttamente delineato da ciò che è espresso nel suo comportamento. Se invece la regola lo porta ad aspettarsi che siano gli altri a fare qualcosa nei suoi confronti, allora egli diviene per sè e per loro una persona il cui carattere è correttamente indicato da ciò che implica questo modo di trattarlo» (Ivi, p. 373).
Se questa definizione di sè viene accettata, l’individuo può solo assicurarsi che la norma venga seguita, cosa che gli consente di essere ciò che pensa di essere.
E se la definizione non viene accettata, oppure la norma non viene seguita? Qui sta il punto cruciale, perchè da questa rottura non vengono screditati solo gli individui coinvolti (in virtù del loro ruolo traditore della norma o tradito), ma in una certa misura la società stessa, parte (anche se piccola) della definizione della comunità che li contiene.

2.2 Regola e norma
«La normalità è dunque quanto è dettato dall’esistenza. L’esistenza biologica si pone in quanto norma e normalità. La norma è il complesso dei parametri delle situazioni che permette lo sviluppo della specie e della sua singola copia perdendosi nel corso della filogenesi tutto ciò che normale non è (tutto ciò che non è adeguato, che perciò è incoerente e incompatibile con la sopravvivenza in una riedizione naturale del “bonum et factum convertuntur”). In biologia, dunque, la norma è tutto ciò che di fatto è dato dalla natura, essendo il fatto ciò che determina la regola. Vita è espressione tautologica per norma» (Prodi, G., 1981).

«Da più di duecento anni si è andata affermando l’idea che esiste qualcosa che si chiama malattia mentale, che si tratta di una malattia come le altre e che deve essere affrontata con cure mediche: coloro che ne soffrono devono essere curati, presi in cura da medici, se è necessario in un ospedale, e non devono essere ritenuti responsabili della propria malattia. Questo concetto ha precisi usi sociali. Se non esistesse saremmo probabilmente costretti ad inventarlo» (Goffman, Op cit. p. 365).
Le pratiche psichiatriche servono ad allontanare il paziente dalla scena pubblica, ma cos’altro ci dice il lavoro di Goffman sui “precisi usi sociali” a cui accenna? L’autore comincia a interrogarsi a partire da un passaggio apparentemente elementare.
Qual è la differenza fra sintomi medici e sintomi mentali, e qual’è la loro relazione con la norma?
«Le manifestazioni e i sintomi di un disturbo medico si riferiscono presumibilmente a patologie interne all’organismo individuale, patologie che costituiscono delle deviazioni dalle norme biologiche sostenute dal funzionamento omeostatico della macchina umana. In questo caso, il sistema di riferimento è chiaramente l’organismo individuale e il termine “norma”, per lo meno idealmente, non ha connotati morali, nè sociali» (Ivi. p. 375).
Spostiamo un attimo l’attenzione sui sintomi mentali:
«Alcune psicosi sono senza dubbio organiche, altre psicogenetiche, altre ancora situazionali, ma la nostra tesi è che siano sintomi sociali prima di avere un riferimento individuale e psichico. Infatti, quando per la prima volta la persona che più tardi verrà considerata un malato mentale, compie un atto che più tardi verrà considerato sintomo di malattia mentale, l’atto che compie non viene preso come sintomo di malattia, ma come deviazione dalle norme sociali, cioè un’infrazione alle regole e alle aspettative sociali» (Ibid.).
E questo è piuttosto accettato, anche in psichiatria. Ciò che non è consueto è invece capire che «le norme biologiche e le norme sociali sono cose ben diverse e che i metodi elaborati per analizzare le deviazioni dalle prime, difficilmente sono usabili per analizzare le deviazioni dalle seconde. Il primo problema è che i sistemi regolati da norme sociali non sono individui biologici, ma rapporti, organizzazioni e comunità; […] Il secondo problema ha a che fare con lo stesso processo normativo. Il modello biologico può essere formulato in termini estremamente semplici: deviazione, reazione riparatoria, rimessa in equilibrio, […] Un quadro realistico del regolamento sociale è molto meno ordinato. La risposta sociologica tradizionale al problema della regolazione e della conformità alla regola, si trova nel senso normativo del termine controllo sociale» (Ibid.).
Di fronte a situazioni in principio devianti, l’individuo ha davanti a se diverse conseguenze d’azione: può auto-normatizzarsi, agendo come poliziotto di sè stesso, può essere “informalmente avvisato” della sua deviazione, riparando tempestivamente, oppure può essere sanzionato. «La minaccia che l’offensore costituisce per l’ordine sociale viene gestita attraverso una sanzione sociale formale[…]. I criminali […] contravvengono alle regole sociali, ma c’è un elemento grazie al quale essi non minacciano l’ordine sociale, e questo è costituito dal rischio che essi accettano di essere presi, imprigionati e sottoposti a una dura censura morale» (Ivi, p. 377). Possono trovarsi obbligati a pagare il loro debito alla società, cosa che, a sua volta, conferma la ragionevolezza di coloro che non contravvengono alle regole.
Questi diversi tipi di controllo, che sia personale, informale o formale, sono i mezzi morali per inibire o correggere le deviazioni.
Ma la devianza, per Goffman, alla base non è che l’espressione dell’umana diversità. In tantissimi casi ci troviamo a fronteggiare le deviazioni, che sono in primo luogo la minaccia di un diverso sistema simbolico al nostro. E’ possibile in questi casi adottare le strategie di controllo, oppure ignorare e mantenere l’equilibrio reciproco.
L’individuo che viene meno alle aspettative può anche prevalere, imponendo agli altri di accettarlo nei termini da lui stabiliti, e di accettare una diversa definizione di una situazione. Avviene spesso con i bambini, o come processo alla base di alcune rivolte che portano a cambiamenti sociali. Sono questi momenti di densità morale, ma rovesciata, esplicitata e riportata sul tavolo del quotidiano. Sono i momenti che Durkheim chiama di effervescenza collettiva.
L’idea ingenua che spesso abbiamo di atto sociale è meccanicistica e manca di importanti considerazioni. L’interpretazione è sempre la chiave di lettura, anche in conseguenza di un atto deviante. Prima di tutto è necessario porsi molte domande atte a rivelare l’atteggiamento di colui che agisce nei confronti della regola che sembra aver violato, poi c’è un altro aspetto importante che Goffman sottolinea: «Il problema non è dato semplicemente dal fatto che egli abbia rispettato le regole o no […], ma piuttosto del tipo di rapporto da lui mantenuto nei confronti della regola alla quale avrebbe dovuto essere controllato. Si può dire addirittura che è un aspetto significativo di qualunque atto, ciò che l’atto stesso chiarifica sul rapporto fra colui che lo compie e le norme che legittimamente lo controllano» (Ivi, p. 381).
Howard Becker, nel suo celebre «Outsiders», proporrebbe una versione di devianza ancora più allargata, comprensibile solo nello studio del problema come interazione, come prodotto. Lo vedremo meglio dopo, intanto riportiamo una sua importante considerazione: «La devianza – nel senso in cui io l’ho usata, cioè di una trasgressione pubblicamente etichettata – è sempre il risultato dell’iniziativa di qualcuno. Prima che qualsiasi atto possa essere visto come deviante, e prima che qualsiasi categoria di persone possa essere etichettata e trattata come outsider per aver commesso l’atto, qualcuno deve aver instaurato la norma che definisce questo atto come deviante. Le regole non nascono spontaneamente. […] In senso lato la devianza è il prodotto di un’iniziativa: senza questa iniziativa destinata a creare le norme, la devianza, che consiste nell’infrangerle, non potrebbe esistere. La devianza è il prodotto di un’iniziativa anche in un senso più stretto e particolare. Una volta entrata in vigore, una norma deve essere applicata a delle persone particolari prima che l’astratta categoria degli outsiders creata dalla norma possa popolarsi. I trasgressori devono essere scoperti, identificati, arrestati e condannati» (Becker H., 1963).
Non è l’atto in sè ma il rapporto, e quindi l’interpretazione di quel rapporto (che è necessariamente soggettiva) che svela l’atto deviante. Le implicazioni esemplari sono che «se un deviante è sufficientemente abile e circospetto nelle sue infrazioni muovendosi con segretezza e nascostamente, si eviteranno di fatto molte delle conseguenza disgreganti implicite nella violazione. Viene contrastata la regola in un suo punto specifico, ma il valore della regola stessa non viene apertamente messa in discussione» (Goffman, Op cit., p. 381).
Per questo si hanno sempre a disposizione mezzi (azioni rituali) di rettifica dell’atto, la possibilità di spiegare, di chiedere scusa, di giustificare l’atto compiuto. Con queste azioni «l’offensore cerca di dimostrare che l’offesa non è espressione reale del suo atteggiamento nei confronti delle regole [e quindi la messa in discussione morale – nda]. L’empietà è solo apparente; egli in realtà è uno che la regola la sostiene» (Ivi, p. 382).

2.3 Devianza sociale e clinica
«Si può immaginare che per ogni organismo esista una “norma” intesa come realizzazione di un progetto biologico. La malattia sarebbe quindi la deviazione da questo ideale, variabile secondo la filogenesi, l’ontogenesi, le condizioni fisiche dell’ambiente e anche la situazione sociale. Comunque sia è difficile e talvolta addirittura impossibile fissare il punto in cui le variazioni fisiologiche divengono cambiamenti patologici» (Mirko D. Grmek, «Malattie»).
La cosa più interessante dei sintomi clinici è dunque la correttezza con cui il paziente può gestirli, con cui fornisce spiegazioni, a dimostrare che si rende conto di “ciò che dovrebbe essere” se fosse una persona normale, e nello spirito lo è realmente, nonostante quanto sia successo al suo corpo. Egli non sta mettendo in discussione nulla all’infuori di sè. Cerca anzi di far capire che «certamente si comporterebbe in quel modo» se solo ne avesse la possibilità fisica. Egli accetta la propria etichetta. Goffman ci mostra come questa accettazione significa nello specifico «Qualunque cosa richieda la mia condizione medica, il mio io reale deve essere dissociato da queste necessità, poichè io sarei uno che farebbe solo richieste modeste e ragionevoli e accetterei un ruolo modesto e medio nel gruppo, se solo lo potessi» (Ivi, p. 383). Le persone infatti hanno la possibilità di dissociare espressivamente la loro malattia clinica dalla loro condotta responsabile (cioè da loro stessi) e in genere desiderano farlo. Egli non sta rifiutando il suo posto nell’ordine sociale. «[Egli è] un deviatore, non un deviante. Si tratta di incapacità, non di alienazione» (Ivi, p. 385).
E come analizzare i sintomi di disordine mentale come forma di deviazione sociale? Bisogna ipotizzare un tipo di offesa la cui risposta è la malattia mentale.
Ecco la definizione che ci dà Goffman: «I sintomi mentali sono comportamenti inadatti alla situazione, volontari che, a loro volta, costituiscono la prova di come l’individuo non sia disposto a stare al proprio posto» (Ivi, 387).
L’offesa non viene compiuta da un gruppo, ma viene percepita come individuale, esattamente come in relazione ai sintomi clinici. Eppure, come abbiamo appena visto, «una deviazione sociale non può essere esaminata separatamente dai rapporti e dalla organizzazione cui appartengono offensore e offeso, in quanto praticamente non esistono atti sociali che non siano appropriati o per lo meno giustificabili in alcuni contesti sociali. I deliri di un soldato semplice sono diritti per un generale; gli inviti osceni di un uomo a una ragazza che non conosce sono complimenti piccanti di un marito alla moglie; la circospezione di un paranoico è la pratica giustificata di migliaia di agenti segreti» (Ibid.).
Un concetto centrale nell’opera di Goffman è quello di proprietà situazionale, in riferimento al modo in cui il significato di azioni o concetti dipende dal contesto in cui essi emergono. «Il concetto rimanda al fatto che noi, come esseri umani, apprendiamo gradualmente e tacitamente le modalità di comprensione del significato di azioni situate in un determinato contesto. Tante manifestazioni di malattia mentale dimostrano un comportamento situazionalmente inappropriato nel senso che la stessa condotta sarebbe accettabile se il contesto fosse diverso» (Da Silva, Baert, 1998, p. 99).
Anche nei classici si ritrovano metodologie simili. La teoria interpretativa in chiave weberiana si basa sullo stesso presupposto: «Ogni epoca storica ha una propria specificità e coerenza di significati (la cultura) che impone all’osservatore di rivedere almeno in parte le proprie categorie concettuali nel tentativo di cogliere il senso – sempre storicamente situato – degli eventi e dei fenomeni sociali» (Navarini, 2005, p. 51).
Le istituzioni e le discipline cercano invece di individuare e confermare la diversità naturale dei fenomeni. Anche secondo Franco Basaglia (Basaglia, 1975, p. 98) il tentativo protratto è che l’individuo diventi quel fenomeno, «come se non si trattasse di un momento di un processo in cui sono implicati storia, ambiente, valori, rapporti e processi sociali in cui ogni vita individuale è sempre coinvolta. Il fenomeno negativo è un momento relativo ad un complesso di fattori biologici, psicologici e sociali, ma viene isolato e reso assoluto e naturale per giustificarne il carattere immodificabile. Il delinquente è solo e irriducibilmente delinquente, e il carcere è il luogo che serve al contenimento della delinquenza. Il matto è solo e irriducibilmente matto, e il manicomio è il luogo che serve al contenimento della pazzia». Ma delinquenza e pazzia non sono avvenimenti della vita dell’essere umano? Non sono espressione di ciò che un uomo può essere e diventare nei rapporti e nelle relazioni in cui è inserito? I matti e i delinquenti conservano le altre facce del loro essere umani, sofferenza, oppressione impotenza, desiderio di non essere delinquente.
Il delinquente diventa però pertinenza della criminologia, che ha come oggetto di studio la criminalità e non l’essere umano nella sua totalità, così come per la pazzia e la disciplina atta ad organizzarla.
«Le ideologie scientifiche servono dunque a fissare in termini assoluti gli elementi di loro competenza, facendoli diventare accidenti naturali contro cui l’uomo può quel poco che può la scienza. Così come le istituzioni hanno il compito di confermare concretamente l’irreversibilità di questi fenomeni naturali» (Ivi, p. 99).
Malattia e devianza esistono per la società che se ne difende ma anche per coloro che la vivono come espressione del rifiuto di un’esistenza invivibile.
Ma «che ne sappiamo noi di questi uomini, che cosa sappiamo della loro sofferenza se i parametri di conoscenza, cura, riabilitazione, sono quelli che abbiamo inventato noi, tecnici […] in risposta ai nostri bisogni e per tutelare la nostra sopravvivenza?» (Ivi, p. 103).
I sintomi mentali sono fatti della stessa pasta degli obblighi sociali: esprimono esplicitamente tutte le possibili prese di posizioni sociali di opposizione: ribellione, alienazione, insolenza, ostilità, molestia, slealtà, invadenza, apatia… Inizialmente, ci dice Goffman, questi sintomi sono rilevati e costruiti come un problema in rapporto ad un organizzazione, non come disfunzioni individuali. Ed è naturale quantomeno notare la contraddizione nel fatto che «siamo tutti d’accordo che bisogna fare di tutto per rattoppare un corpo umano per tenerlo in vita, ma non lo siamo affatto sull’opportunità di salvare tutte le strutture sociali» (Goffman, Op cit., p. 421).
Dove i significati dei sintomi vengono costruiti socialmente, l’accento è da porre sul contesto sociale e non sull’individuo, che non si esprime se non immerso una specifica contestualizzazione storica, geografica. Non vi è sintomo mentale che non sia situazionale, che non abbia un contrappeso su una norma che sancisce l’equilibrio di un gruppo, la coesione sociale, l’ordine in una società.
«I sintomi mentali, quindi, non sono niente di per sè, né sono qualcosa che possa essere in qualche modo etichettato; sono atti per mezzo dei quali un individuo dichiara apertamente agli altri la sua esigenza di ottenere definizioni di sè che la parte dirigente dell’organizzazione sociale non può né accettare né gestire» (Ivi, p. 388).
Per questo vengono percepiti non come infrazione sociali casuali, ma come esplicitamente offensivi. Perchè hanno in effetti la qualità di esserlo in quella determinata situazione.
Qui Goffman accenna a una parte dirigente che non specifica oltre, ma è chiaro che in questa frase risiede la sua lettura politica, un salto analitico. E’ intuitivo come, anche per le classiche teorie dell’ordine sociale, la disgregazione dei membri e dei ruoli in un gruppo sociale è una tematica che interessa soprattutto chi fra questi ruoli ne occupa di dirigenziali. Non perchè sia il detentore o il delegato alla costruzione delle norme, ma perchè nutre l’interesse maggiore a che venga garantito l’equilibrio, il già citato ordine sociale, la conservazione dello status quo.
Il deviante come elemento disgregante agisce nella mente dei membri e quindi alla struttura stessa dell’organizzazione. E sono le risposte della struttura all’atto deviante che stabiliscono il livello di devianza e soprattutto il grado di flessibilità o il conservatorismo di un società. Ad un maggior intolleranza nei confronti di queste rotture, vi è con grande probabilità una sempre maggior risposta coercitiva per sancire l’ordine attraverso la definizione del disordine.
E’ interessante notare come, qualsiasi sia la risposta al sintomo mentale, «l’elemento disgregante introdotto resterà, anche se tutti i membri del gruppo sono convinti che la persona responsabile sia completamente matta, perchè questa definizione da sola non li libera dal fatto di dover vivere in un sistema sociale in cui egli gioca un ruolo disgregante» (Ibid.).
Anche a risposte violente o passive, è stata urlata una differenza che è difficile ignorare. E’ stato definito, ed ha stabilito la propria esistenza, la propria realtà, la certezza della devianza e quindi dell’ordine attorno a lui. Innegabilmente, esiste.
«La disgregazione implicita in questo comportamento indica che i sintomi clinici e quelli mentali sono radicalmente diversi nelle conseguenze sociali e nel carattere.[…] E’ nell’esaminare questo elemento disgregante che gli psichiatri sono miseramente falliti ed è questo che i sociologi ignorano trattando la malattia mentale semplicemente come un processo di etichettamento» (Ibid.).
Liricamente, anche se si sente assolta, la società è perennemente coinvolta, invischiata attivamente nel processo. Potremmo immaginare un’ “autoconsapevolezza sociale”? Supporre un’autocoscienza che una società nutre delle proprie responsabilità e le implicazioni del suo stesso esistere e normatizzare?
Al momento, anche se forse eccede i nostri compiti, ci rassegneremmo ad un probabile no, dal momento che la norma è proprio l’auto-deresponsabilizzazione della società stessa; «il paziente può esprimere idee assurde su di sè, ma l’ospedale, la famiglia o il terapista non sono obbligati ad esserne coinvolti» (Ivi, p. 390).
La malattia non è considerata come insita nell’organizzazione. Tuttavia è chiaro come «qualunque forma di organizzazione sociale cui il paziente partecipa ha una serie particolare di offese interpretabili come malattia mentale, che possono provocare la disgregazione dell’organizzazione» (Ibid.), nei luoghi pubblici, soprattutto, dove la società è espressa viva e forte, vige appunto una forte regolamentazione.
Di nuovo Becker ci riporta alla devianza: «E’ interessante il fatto che la maggior parte della ricerca e della teorizzazione scientifica sulla devianza si occupi delle persone che infrangono le norme piuttosto che di quelle che le istituiscono e le fanno applicare. Se vogliamo raggiungere una totale comprensione del comportamento deviante, dobbiamo mettere sulla bilancia queste due possibili direzioni dell’indagine. Dobbiamo vedere la devianza, e gli outsiders che personificano questo concetto astratto, come una conseguenza di un processo di interazione tra le persone: alcune, nel servizio dei propri interessi, elaborano e fanno applicare delle norme che colpiscono altre persone che, nel servizio dei propri interessi, hanno commesso degli atti etichettati come devianti» (Becker, Op. Cit, p. 164).
Per questa nostra parte, la conclusione basagliana sarebbe chiara: «Se si vuole affrontare il problema della marginalità e della devianza dobbiamo affrontarlo in rapporto alla struttura sociale, alla divisione innaturale sulla quale tale struttura si fonda e non come fenomeni isolati che si pretende di far passare quali semplici anomalie individuali, cui una certa percentuale della popolazione ha la sfortuna di essere soggetta» (Basaglia, Op cit., p. 104).

2.4 Disgregatori e ordine sociale
Anche attraverso il monumentale lavoro di Durkheim possiamo trovare apporti alla nostra riflessione. Cercheremo dunque di ripassare sinteticamente alcuni passaggi della sua opera che sono alla base delle considerazioni goffmaniane, senza le quali sarebbe però stata più difficile la decifrazione di questo paragrafo nella prospettiva da noi intesa. Ecco il motivo dell’inserimento di questa sezione a testo inoltrato.
Un passo indietro, dunque. Per Durkheim «la società è un fenomeno sui generis: i caratteri di cui dispone sono di un genere tutto particolare, differenti e non riducibili alla natura del soggetto umano» (Navarini, Op cit, p. 72). Anche la coscienza (la società è al suo livello ultimo, come «coscienza di coscienze»: Durkheim, 1912, p. 509) è un insieme di fenomeni prodotti dalla vita in società. «L’espressione sui generis designa allora la natura sociale, cioè non individuale e non sostanziale ma strettamente collettiva dei caratteri propri della società”, il primo dei quali è quello di possedere una coscienza collettiva» (Navarini, Op cit. p. 72).
Le azioni sociali sono definibili: sono fatti sociali «E’ proprio lo stare all’esterno dell’individuo che assegna a questi fatti quella forza di obbligazione che verrebbe meno se ciascun individuo li percepisse totalmente come suoi, come frutto del suo privato singolo pensiero» (Ivi, p.74). Sono come istituzioni, e impongono vincoli.
La coercizione delle azioni viene prima di tutto dalla struttura sociale stessa, dall’organizzazione rituale in cui siamo inevitabilmente inseriti.
«Pensando le istituzioni collettive, assimilandole in noi, le individualizziamo e imprimiamo loro più o meno la nostra impronta personale; […] Ognuno di noi si costituisce in una certa misura la sua morale, la sua religione, la sua tecnica. Non esiste conformismo sociale che non comporti tutta una gamma di sfumature individuali; ciononostante, il campo delle variazioni permesse è limitato. Esso è nullo o debolissimo nella cerchia dei fenomeni religiosi e morali, in cui la variazione diventa facilmente un reato; è più esteso per tutto ciò che concerne la vita economica. Ma, presto o tardi, anche in questo ultimo caso si incontra un limite che non può essere varcato» (Ibid.).
Questo è il motivo per cui vediamo come vero ciò che è già nelle nostre cornici, e contribuiamo al rafforzamento delle strutture implicite che tengono coese il nostro gruppo sociale. «La società è possibile solo in quanto rappresentazione collettivamente costruita e come tale percepita» (Ivi, p. 75).
Ciò che impone il suo significante morale sopra gli altri universi possibili è frutto di un partage foucaultiano, ma ha conseguenze direttamente reali e costruisce il reticolo morale su cui si fondano le nostre relazioni, il nostro ordine. Durkheim lo chiama prestigio. «La costrizione sociale deriva dal prestigio di cui sono rivestite certe rappresentazioni, ed è per il prestigio che queste hanno che ci dominano, ci impongono certe credenze e certe pratiche. […] Il prestigio di una rappresentazione sociale equivale alla sua forza di unire moralmente ciò che è diviso sul piano individuale, ed è prodotta da un agire in comune» (Ibid.). Intende i riti.
Ecco il grande passo che possiamo fare ora dopo Durkheim e le riflessioni di Goffman.
«L’ordine sociale per Durkheim ha una natura morale; essa è resa possibile dai simboli e dalle rappresentazioni collettive che scaturiscono dalla vita sociale realizzata in comune, soprattutto dai vincoli che essa impone» (Ivi, p. 76).
Nei riti si dispiega l’ordine morale, si costruisce nell’interazione.
«L’ordine morale è quindi il substrato della società: ciò che spingendo a tener conto degli altri vincola gli individui tra loro, cioè alla società, mantenendola in vita come un tutto coeso. Per generare coesione sociale questa spinta deve lavorare innanzitutto su un piano cognitivo e simbolico» (Ivi, p. 77).
Gli individui dovranno rappresentarla come cosa, a formare una coscienza collettiva.
Queste regole, questi rituali, rappresentazioni ed espressioni simboliche sono moralmente caratterizzate. Sono il collante dei rapporti societari, basati sul prestigio e la costrizione di talune rappresentazioni o, volendo, discorsi.
La loro messa in discussione è una violazione comunitaria, ed è tanto più radicale, quanto più oltrepassa le cornici simboliche dov’è incluso il nostro agire. «La libertà individuale dei corsi di azione è possibile proprio perchè vincolata dal fatto di tenere conto del posto di ciascuno all’interno del grande organismo di cui è parte» (Ibid.). Uscirne è la deviazione per eccellenza.
«L’essere umano è colui che riconosce di essere parte di una comunità morale.[…] Dunque l’individuo non può agire senza sentire sopra e dentro di sè le obbligazioni e i legami derivati dall’appartenenza alla comunità morale» (Ivi, p. 78).
Vi è un fattore per Durkheim che indirizza l’azione nella norma, una sorta di fiducia solidale fra gli uomini, la solidarietà collettiva; la vita sociale. Di conseguenza, «l’utilità individuale non è un requisito per l’ordine sociale. Il contratto economico non genera la solidarietà ma la presume: dunque, non è la razionalità, nè la convivenza bensì la solidarietà ciò che rende possibili le attività di genesi e di riproduzione della società» (Ivi, p. 79).
Essa però, va rinforzata da norme sociali; e di più: «l’individuo è un essere che dipende dalla società: solo in essa si completa in quanto persona. Senza l’interiorizzazione delle norme, infatti, gli individui non potrebbero agire in quanto esseri umani, non riuscirebbero cioè a configurarsi, a livello cognitivo, l’orizzonte di possibilità in cui poter inscrivere i propri corsi di azione» (Warner, 1978 in Navarini, p. 81).
I fatti sociali e le norme derivanti sono creati in società e in essa contestuali. Ogni prodotto umano è riconducibile a essa.
«Persino il culto dell’individuo non è qualcosa di soggettivo o naturale ma un fenomeno sociale, una rappresentazione, un prodotto dei fatti sociali incorporati nella divisione del lavoro» (Ivi, p. 83). Consideriamo infatti anche l’individualismo come norma sociale, collettiva.
«Se l’ordine morale dipende anche dalle rappresentazioni collettive che la società si fa di se stessa e dei suoi membri, in quale maniera vengono a darsi queste rappresentazioni?» (Ivi, p. 91).
Esse, abbiamo detto, sono moralmente vincolanti, nella misura in cui sono sacre, «ma il sacro non è un attributo della religione istituzionale bensì della stessa vita sociale o, meglio, è costruito da quelle forme dell’azione umana che hanno la caratteristica religiosa di unire. I rituali collettivi sono cioè il momento in cui l’individuo ritrova sia l’energia per continuare a vivere nella società sia il linguaggio necessario per comprendere ciò che in essa accade» (Ivi, p. 94).
Il disgregatore svolge quindi un’attività molto radicale, mette in discussione l’ordine morale: «egli mina negli altri l’idea che esista un modo comune di intendere il posto sociale di ognuno e che questo sia il giusto modo di organizzare la propria attività quotidiana» (Goffman, Op cit., p. 392).
C’è un punto sul quale Goffman insiste: per lui il sè è la chiave di lettura dell’individuo, è l’accesso al suo ruolo sociale e il comportamento che mette in atto nell’organizzazione in cui è inserito. «Se un individuo non offre […] una definizione funzionale di sè che coloro che gli sono più vicino possono accordargli attraverso il rispetto che gli dimostrano , egli li blocca, li intralcia e li minaccia» (Ivi, p. 398).
Per questo, quando la rottura è così esplicita, spesso si cerca al malato di fargli ammettere la propria malattia; e ciò che si cerca è una cosa ben strana, continua: «Se le azioni rituali sono un mezzo per mantenere un’immagine di sè costante nonostante le deviazioni del comportamento, allora ammettere di essere malato di mente è la più grave azione rituale che esista poichè questa presa di posizione annulla anche le deviazioni più macroscopiche» (Ivi, p. 397).
La chiave per noi più proficua di lettura di questi lavori dovrebbe essere attraverso il famoso “principio di ribaltamento” foucaultiano, magari nella maniera convenzionalmente utilizzata dagli etnometodologi. L’esperienza di questa radicale diversità, ci suggerisce Goffman, è l’unico modo per osservare ciò che implicitamente è sotteso nelle definizioni del nostro quotidiano. Il senso comune, il non-detto, il dato per scontato che, in quanto più visibile, è il meno ovvio da analizzare ma è la chiave di lettura per capirsi più a fondo. Bisogna sempre tenere presente che «il maniaco rinuncia a tutto ciò che può essere una persona, e rinuncia anche al tutto che costituiscono per noi questi rapporti di reciproca sorveglianza. Nel farlo […] ci fa notare che cosa sia questo tutto, e di conseguenza ci accorgiamo di quanto poco esso rappresenti in realtà. Impariamo una lezione analoga da tutti gli altri piantagrane che non stanno al loro posto» (Ivi, p. 424).

(*) QUI SOTTO L’INDICE COMPLETO E LA BIBLIOGRAFIA. Chi desiderasse leggerlo tutto può contattare l’autore attraverso il blog.
Introduzione
Parte 1: Foucault, L’ordine del discorso
1.1 Dove risiede la verità dei discorsi?
1.2 Il partage
1.3 La disciplina
1.4 Storia della verità
Parte 2: Goffman, la devianza in psichiatria e l’ordine sociale
2.1 Personalità sociali
2.2 Regola e norma
2.3 Devianza sociale e clinica
2.4 Disgregatori e ordine sociale
Parte 3: Basaglia, la normalità e la politica
3.1 Il sapere medico-psichiatrico
3.2 Un umanesimo nuovo
Conclusioni
Riferimenti bibliografici

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

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