Philip Dick, ESEGESI 3

Perché l’Esegesi?

di Giuliano Spagnul (*)

Da dove parte questa esigenza di scrittura interminabile e privata che ha accompagnato Dick nei suoi ultimi otto anni? Tutto nasce da quell’avvenimento nella sua vita che viene sinteticamente ricordato come l’esperienza del 2.3.74. Data fatidica di quell’evento definito dallo stesso Dick come propriamente mistico; l’esegesi sarà allora per Dick: «un genere di tributo da parte mia all’importanza di quello che mi è capitato, di quello che ho visto, di quello che ho appreso; questa interminabile rimasticatura è un modo per preservare il ricordo di tutto ciò; ecco il punto vero e proprio, mantenere vivo il ricordo»(862). Ma non solo, con estrema lucidità potrà aggiungere che: «La stanchezza mi ha portato al punto in cui posso dire: ho seguito tutte le linee della discussione ed ecco dove portano, portano a dove sapevo di essere, al tempo in cui è accaduto. Ma è a questo che serve un’esegesi di un’esperienza mistica, a svilupparla razionalmente in modo da poterla esprimere a parole. Alla fine le parole non si trovano, però. Ma il tentativo deve essere fatto»(863).

Ora se questo motivo non potrà non sembrarci più che lecito, la nostra attenzione dovrà però concentrarsi sull’esperienza stessa di cui l’esegesi vuole a tutti i costi preservarne il ricordo. È realmente possibile definirla come esperienza mistica? Al di là di qualunque pretesa di verifica di realtà del fatto in sé, è possibile considerarla come un episodio avente le caratteristiche tipiche di altri episodi considerati tradizionalmente mistici? Per rispondere a queste domande prendiamo a prestito il criterio che uno studioso di storia delle religioni come Dario Sabbatucci ha sancito come essenziale per definire un’esperienza come propriamente mistica e cioè la sua “funzione salvifica” la sua promessa di “salvezza assoluta”. E la “salvezza assoluta” per un mistico «è la salvezza dal dover vivere da uomini (anziché da ‘santi’ o ‘illuminati’)»1. Ma tutto si può dire del 2.3.74 tranne che sia servito per Philip K. Dick a farlo morire per rinascere come un profeta, o altro, in grado di creare una nuova religione o rivoluzionarne una esistente. Tutta l’esegesi testimonia un atteggiamento che cerca di ingaggiare un vero e proprio corpo a corpo con quell’esperienza per capire senza ridurre, e in cui quel “preservare il ricordo” fosse «un tentativo di capire la mia stessa comprensione»(1135) e un luogo in cui «sto pensando al mio stesso pensare»(1136). Ma l’esperienza del 2.3.74 non è neanche definibile come “pseudo-mistica” cioè, seguendo sempre Sabbatucci, funzionale soltanto a “una salvezza relativa” come lo sono quelle dei riti di passaggio che, l’antropologia ci insegna, servono in definitiva a far vivere meglio nella società, a integrarsi ad essa. Nulla di tutto ciò è accaduto a Dick, di certo il suo essere ‘fuori’ non è stato intaccato, anzi! Ma allora come definirlo questo 2.3.74? Forse dobbiamo attenerci proprio a quello che Dick ci dice nella sua esegesi: «Non è una dottrina o nemmeno una teoria che sto fabbricando; è un’impressione, un cambiamento in me quanto a ciò che sono. Sono diventato non più lo stesso, dopo quanto è avvenuto, e questo è stato un impegno, un atto che si è protratto per anni da parte mia. Voglio essere differente per via di quello che ho visto; voglio essere cambiato per quanto più possibile (senza ovviamente falsificare quello che è successo). L’ultima cosa che voglio ottenere da quell’esperienza è essere uguale a come ero prima di averla. E posso cambiare solo nella misura in cui comprendo quell’esperienza; e posso comprenderla solo (come dico) costruendo attivamente un modello interiore, adeguato, appropriato (di quello che è successo). Così questo non è un rendiconto passivo. Questo è un impegno artistico, spirituale, concettuale che implica anni di lavoro. La mia concezione cresce; non è statica. Mentre cresce io cambio»(995). È allora azzardato parlare di un’esperienza spirituale, considerando la spiritualità, come diceva Foucault, come quell’«insieme di quelle ricerche, di quelle pratiche e di quell’esperienze (…) – che – per il soggetto, per il suo stesso essere di soggetto, rappresentano il prezzo da pagare per avere accesso alla verità»2? Una verità, come ci dice Dick, come quella del cristianesimo, ad esempio, dunque non come «la verità ma una verità, che può essere evitata o nella quale ci si può immettere come si fa con una scheda perforata, in modo voluto o per caso (io mi ci sono immesso per caso)»(857). Spirituale allora più che mistico perché non cambia solo il sé ma cambiando questo cambia necessariamente anche il mondo: «L’elemento spirituale in un uomo è identificato come un certo straordinario tipo o livello di ragionamento così qualitativamente differente dal normale ragionamento da presentarsi alle persone orientate verso la religione come divino, soprannaturale, un Dio o uno Spirito Santo dentro… eppure è in effetti una facoltà di ragionamento in cui le astrazioni e le inferenze sopraverbali prendono posto nella mente come straordinarie realizzazioni sul sé e sul mondo»(1049-50).

NOTA 1: Dario Sabbatucci, «Saggio sul misticismo greco», Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, Roma 1979, p. 21

NOTA 2: Michel Foucault, «L’ermeneutica del soggetto», Feltrinelli UE Saggi, Milano 2011, p. 17

(*) Fra 7 giorni “Esegesi 4 – Avere accesso alla verità”

 

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