Philip K. Dick fra letteratura e filosofia

Per concessione dell’autore riprendo il primo capitolo di Visioni dal futuro, il libro di Fabrizio Chiappetti dedicato a Philip Dick. La settimana prossima si continua con un altro capitolo di questo volume. Nel frattempo vi chiederei di scendere in piazza per buttar giù il governo del signor p2-1816. (db)

Philip K. Dick non ha studiato filosofia all’università. Non ha neanche scritto libri di argomento filosofico, nel senso che non si è mai occupato di ontologia, di morale, di metafisica o di altri saperi filosofici con le modalità e il linguaggio propri della discussione filosofica contemporanea. I suoi saggi, recentemente pubblicati in Italia, sono per lo più discorsi scritti in occasione di qualche raduno di scrittori di fantascienza, oppure articoli apparsi su riviste del settore.

I saggi dickiani non contengono tesi da dimostrare: si presentano piuttosto come la collezione scritta delle idee più disparate di un uomo di vaste e disordinate letture, e dotato di grande immaginazione. Sembra che Dick non abbia la pazienza di esaminare concetti astratti, di rilevare le contraddizioni, di giustificare o difendere le proprie conclusioni dalle critiche e dalle confutazioni di cui sono passibili. La sola, costante preoccupazione è quella di dare forma alla propria “visione” del mondo.

Le domande che agitano la sua coscienza di uomo e di scrittore, queste sì, sono autenticamente filosofiche; “le due questioni che più mi affascinano”, scrive Dick, “sono: – Che cosa è la realtà?- e – Che cosa caratterizza l’autentico essere umano?- Sono ormai più di ventisette anni che pubblico romanzi e racconti, e non ho smesso mai di indagare su tali questioni, profondamente legate tra loro. Le considero estremamente importanti”.

Un paio di secoli prima un filosofo del calibro di Immanuel Kant ha offerto una formulazione simile per quanto concerne il compito della filosofia. La filosofia può essere definita come “scienza dei fini ultimi della ragione”, o come “scienza dei più alti principi preposti all’uso della nostra ragione”. Il suo campo può essere compendiato nelle seguenti domande: che cosa posso conoscere, che cosa devo fare, che cosa mi è consentito sperare, che cos’è l’uomo?

Queste celebri questioni sono poste da Kant a fondamento dell’attività filosofica. Kant intuisce che la tradizione del pensiero occidentale non ha mai smesso di cercare risposte a questi interrogativi e che, naturalmente, vi sono differenze radicali sia nelle soluzioni avanzate sia nell’impostazione delle problematiche. Ma il cuore della ricerca si mantiene invariato, specie se si accetta il suggerimento di Kant, secondo cui “in fondo, tutto ciò si potrebbe far rientrare nell’antropologia, dal momento che le prime tre domande si rapportano all’ultima”. La domanda sull’uomo, per Kant, diventa la domanda stessa della filosofia: l’uomo è l’oggetto completo e ultimo a cui deve tendere la ricerca filosofica. In molti, anche tra gli autori contemporanei, hanno riconosciuto la validità del suggerimento kantiano. Il filosofo Martin Buber riconosce esplicitamente a Kant il merito di aver posto la domanda antropologica “con tanta chiarezza e con tanta insistenza ch’essa ha continuato a proporsi alle generazioni seguenti, finché da ultima anche la nostra generazione si prepara a mettersi al suo servizio”.

Pertanto, le due questioni che Dick mette al centro della sua attività di romanziere (che cos’è la realtà, che cos’è l’uomo) non sono altro che una “presa di servizio” nei confronti dei compiti attuali della filosofia. Ma Dick è un servitore indisciplinato. Le sue armi preferite non sono la logica dimostrativa, la speculazione erudita e sottile, ma l’aneddoto oscuro e fulminante, la visione che scardina l’immagine consueta del mondo e che si imbatte nella verità. In una pagina del suo diario personale Dick dice di sé:

– Io sono un filosofo-scrittore, non un romanziere: utilizzo la mia abilità di scrittore di romanzi e racconti come mezzo per dare formulazione al mio sentire. Al centro dei miei scritti non c’è l’arte, bensì la verità -.

Ma questa caratteristica Dick la riconosce come propria del genere letterario fantascientifico, quando però quest’ultimo si dimostra per quello che è e non si appiattisce sul registro commerciale della pura e semplice evasione dalla realtà. La peculiarità della fantascienza, secondo Dick, consiste nella capacità di stupire il lettore attraverso una “trasposizione fondata dell’esistente”. Non è sufficiente che un racconto o un romanzo venga ambientato nel futuro per essere considerato fantascientifico. La Science Fiction richiede piuttosto “la creazione di un universo fittizio, di una società che non esiste realmente (…), un mondo trasformato in qualcosa che non è, o non è ancora diventato.”

La trasposizione immaginata dallo scrittore deve essere la rappresentazione di una realtà possibile: deve costituire uno stimolo al risveglio, nella mente del lettore, di pensieri ed ipotesi che fino a quel momento non aveva mai preso in considerazione. Solo così l’attività letteraria raggiunge lo scopo voluto da Dick: dare forma al proprio sentire attraverso il racconto di storie, personaggi e situazioni che, pur non appartenendo a quella che con tanta ostinata certezza viene chiamata realtà, possono presto o tardi imbattersi nella verità.

Lawrence Sutin, autore di un’altra documentatissima biografia, paragona Dick agli antichi filosofi presocratici che esponevano le loro dottrine in grandi poemi, ricchi di metafore ed elementi mitologici. Mythos (= racconto) e ricerca filosofica formavano allora un tutt’uno inseparabile. Molte di queste opere sono andate perdute, ma i frammenti giunti fino a noi consentono di ricostruire, almeno in parte, quello che è stato un universo speculativo e simbolico di straordinaria potenza.

I presocratici sono stati i primi a fare filosofia, intendendo per ciò la ricerca della spiegazione dei fenomeni naturali in alternativa alle cosmogonie mitiche, che da tempi immemorabili raccontano la nascita dell’universo. Le città dell’Asia Minore (Mileto, Efeso) e della Magna Grecia (Elea, Crotone) ospitano le prime scuole filosofiche occidentali, impegnate nella determinazione dell’Archè, cioè del principio da cui si generano tutte le cose. Non è dunque una semplice coincidenza che il titolo delle opere scritte dai maggiori pensatori di quel periodo, stando alla tradizione e alle poche fonti disponibili, sia sempre lo stesso: Sulla Natura.

Parmenide di Elea (6° sec. a. C.) è l’autore di un grande poema in cui narra di essere stato il protagonista di un avvenimento prodigioso: le fanciulle “figlie del sole” lo conducono oltre la porta “che divide i sentieri della Notte e del Giorno”, al cospetto della Dea. Il poeta-filosofo viene così istruito sia sulla via da seguire per giungere alla “ben rotonda Verità ”, sia su quella da evitare, onde non ricadere nelle “opinioni dei mortali, nelle quali non risiede legittima credibilità ”. L’opera di Parmenide costituisce un valido esempio della più antica esperienza filosofica occidentale, la sapienza presocratica appunto, che conserva elementi di visionarietà, di oscurità, di durezza e assolutezza appartenenti alla tradizione oracolare e alla antica scienza della divinazione.

Philip Dick è un moderno cercatore dell’Archè. Moderno, perché non parte da un rifiuto a priori di oltre duemila anni di evoluzione del pensiero, ma si sforza di ripercorrerne le tappe salienti, senza preoccuparsi troppo della correttezza delle estrapolazioni. Soprattutto nei saggi Dick mostra in più parti di condividere le tesi kantiane sulla conoscenza, che si dà a priori e che si incentra sull’attività del soggetto; ma l’abito della conoscenza kantianamente intesa è troppo stretto per Dick, disposto com’è a varcare, piuttosto che riconoscere, i limiti conoscitivi evidenziati dalla speculazione kantiana. Dick interpreta la domanda di Kant sulla conoscenza in chiave “oggettiva”: l’accento cade non tanto sulla possibilità (e quindi sui limiti) della conoscenza, quanto sull’oggetto con cui l’indagine umana si scontra. L’insieme delle sue esperienze personali, le riflessioni e le intuizioni improvvise che stanno alla base del suo mestiere di scrittore, lo spingono ad andare oltre, ad esplorare le zone di confine, in attesa del momento giusto per tentare la traversata. Nascono così universi alternativi, personaggi sospesi in stato di “semi-vita”, androidi “dal volto umano” e uomini crudeli ma paradossalmente giusti: tutte invenzioni frutto di un’immaginazione funambolica, pronta al rovesciamento delle parti, a rivelare il parto gemellare della verità con la follia.

Certo, non c’è traccia delle figlie del sole, e anche i favolosi carri che solcano il cielo oltre il Giorno e la Notte hanno smesso di circolare, soppiantati da mezzi ben più prosaici. L’immaginario è ovviamente cambiato, ma la sete di sapere cosa si cela sotto il velo delle apparenze, del tempo e delle forme, sembra non estinguersi. L’universo concettuale dickiano si presenta perciò come un aggregato di elementi eterogenei che necessita di più chiavi di lettura. Uno degli strumenti che, a questo proposito, può venire in soccorso dell’interprete è il concetto di archetipo, nell’accezione formulata da Carl G. Jung. Il celebre psicoanalista svizzero ha sostenuto, nel saggio dal titolo Istinto e inconscio (1919), che gli archetipi “sono modalità tipiche di appercezione”, “immagini primordiali ” su cui si dispongono immagini del mondo successive e derivate dalle dinamiche percettive e cognitive. Gli archetipi junghiani sono di natura collettiva; non appartengono cioè ad un singolo individuo o a un gruppo, ma all’umanità intera.

Nelle grandi religioni mondiali ”, argomenta Jung, “ ravvisiamo il perfezionamento di queste immagini (archetipiche, N.d.R.) e, nello stesso tempo, la loro progressiva incrostazione da parte di forme razionali. Esse compaiono addirittura nelle scienze naturali, quale fondamento di taluni indispensabili concetti ausiliari, come energia, etere e atomo.

Nella scienza come nell’arte, nella religione come nei costumi sociali e politici, non c’è campo dell’attività umana in cui non sia possibile rinvenire le tracce di una mentalità accomunata proprio dal ricorso a modelli archetipici che, per quanto diversi e soggetti ad una costante opera di modifica dovuta al succedersi delle generazioni, svolgono la medesima funzione: definire ciò che è reale, cercare di comprenderne il senso.

Leggere opere letterarie con le possibilità offerte dall’individuazione diretta degli archetipi o delle analogie intercorrenti fra testo e archetipo, significa evidenziare temi e forme ricorrenti e mostrarne il significato profondo. Nel caso specifico di Philip Dick, si tratta di identificare i materiali che sono stati impiegati nella costruzione letteraria, di mettere in primo piano le domande esistenziali che stanno sullo sfondo, di riconoscere l’originalità di una visione del mondo certamente suggestiva e provocatoria. Neanche Dick, comunque, offre una risposta definitiva alla quarta domanda kantiana, quella antropologica. Nei saggi il problema è presentato più volte; ma raramente l’autore giunge a conclusioni positive. Occorre ricavare l’antropologia dal rovesciamento che essa subisce nella trasposizione fantascientifica. Bisogna accettare la logica dickiana, seguire fino in fondo la “via negativa” per scoprire, ad esempio, che la caccia agli androidi che anima le pagine di Do androids dream of electric sheep (1968) è una spietata “caccia all’uomo”, una crudele ricerca dell’identità personale.

Alla fine di questi esercizi di interpretazione le risposte potranno anche non essere soddisfacenti, e le ricompense inferiori alle aspettative. Ma gli stimoli offerti sono senz’altro all’altezza dell’urgenza e della gravità proprie di quella “crisi di senso” che pervade la nostra epoca: sono come sentieri tracciati al buio, ancora tutti da esplorare. Forse non sono in grado di condurci in un luogo preciso. O forse, per il fatto di essere dei sentieri, portano con sé l’idea che la verità sia essa stessa cammino, ricerca, smarrimento e stupore senza fine.

Fabrizio Chiappetti (Jesi, 1974) si è laureato in filosofia all’Università di Bologna, dove ha conseguito anche il dottorato di ricerca in scienze sociali e studi religiosi con una tesi sul modernismo cattolico. È professore di lettere e giornalista. Ha dedicato una monografia – Visioni dal futuro – allo scrittore americano Philip K. Dick (Visioni dal futuro, Fara editore, 2000). Fra le sue recenti pubblicazioni figurano anche gli interventi presentati nel corso di convegni e seminari sul riformismo religioso e sul pensiero filosofico del primo Novecento come Gli scritti di Ernesto Buonaiuti per la rivista «Il Rinnovamento».

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  • Sara Chiappetti

    Questo cos’è, un regalo di Natale intellettuale?
    Bella trattazione, mi ha fatto venir voglia di interessarmi di fantascienza… La filosofia mi affascina di già.

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