Piazza Tahir, parte seconda

di Lanfranco Caminiti

Noi abbiamo preso la consuetudine di chiamarli blackbloc. Per dire di quelli che tirano gli estintori contro la polizia, o danno fuoco ai blindati mentre intanto scrivono sulle fiancate «Carlo vive» oppure «Acab», che sta per: «Tutti i poliziotti sono bastardi», e tracciano una sgangherata A anarchica con lo spray. Sarkozy, nei giorni in cui le banlieu francesi si infiammavano, li chiamava racaille, che sta per: canaglia, teppaglia, monnezza. In Cirenaica, nei giorni in cui si battevano con archi e frecce contro i cannoni e gli aerei di Gheddafi e le diplomazie del mondo se la menavano non sapendo che fare e aspettando che rinunciassero, li chiamavano shebab, per dire: senza arte né parte. Cameron, nei giorni in cui i tumulti dopo l’uccisione da parte della polizia del giovane Mark Duggan trasformavano Tottenham in streets of fire e i rioters saccheggiavano qualsiasi cosa valesse la pena saccheggiare, disse, più spicciamente: «This is criminality, pure and simple».

In Egitto, in questi giorni di scontri furibondi con decine di morti, i militari li chiamano baltaguiya. Secondo Sami Sidhom, responsabile per la Sicurezza pubblica del ministero dell’Interno egiziano, ad alimentare i tumulti sarebbero delinquenti comuni, baltaguiya, gentaglia insomma, «infiltratisi tra la gente per fare irruzione» nella sede del dicastero e per «attaccare la polizia».

Il dispositivo linguistico è sempre lo stesso: ci sono le persone perbene che sarebbero pazienti e capiscono le regole del gioco, che ci vuole sempre altro tempo. E ci sono «quegli altri», sans coulottes, smutandati, plebaglia.

Non c’è niente che accomuni le rivolte nel mondo arabo o i tumulti nelle città occidentali quanto l’istinto linguistico del potere. Magari non hanno torto a definirli così. Le classi, i popoli che si battono per la democrazia, per la libertà, non esistono in natura: si fanno nelle rivolte. Quando cominciano a battersi per calmierare i prezzi delle cose, per un tozzo di lavoro, o contro la brutalità della polizia, non sono niente, non sanno neppure loro cosa sono. Non sanno cosa vogliono.

Sanno, però, che cosa non vogliono più.

E in Egitto non vogliono più essere commissariati. Fino a data da definirsi: sarà il 2012 o il 2013?

I militari – che erano ancora sotto Mubarak una sorta di enorme nostra azienda pubblica di stato, capace di produrre in proprio, dal pane agli indumenti, e di distribuire da sé i propri prodotti, in un’economia assistita dai dollari americani, con centinaia di migliaia di occupati e con un potere di controllo totalmente sottratto a qualsiasi trasparenza zeppo di mogli, parenti, amici di cordata [dev’essere, questa, una sorta di condanna biblica di tutte le industrie di guerra, al di là delle latitudini] – non intendono in alcun modo mollare i loro privilegi. È il cambiamento del loro ruolo previsto nella prossima costituzione, dopo il voto della settimana che viene, il nodo delle cose di adesso. Sono la casta del potere in Egitto. Un potere che viene da lontano, dalla rivolta nazionale di Nasser e di tutto quello che il nasserismo ha significato nella regione, e non solo. Si sentono depositari di un principio di laicità, le loro élite studiano nelle università americane – è da qui che venivano Sadat e Mubarak –, si fanno argine al fondamentalismo che divamperebbe nel loro paese, con conseguenze davvero inimmaginabili, a iniziare da guerre di religione fra copti e musulmani.

Su questo filo d’altronde si muovono Assad in Siria e Saleh in Yemen. Lo spettro della libanizzazione – un paese florido dilaniato da una guerra interminabile tra fazioni politiche riconducibili a appartenenze religiose – viene sempre agitato. Aggiornandolo, di volta in volta, con il terrorismo di al Qaeda o di franchising similari. Solo che intanto il mondo sta cambiando. La Turchia, per dire di una situazione che ha molte similarità con l’Egitto, ha affrontato e continua a affrontare questa contraddizione fortissima tra un principio di modernità, spesso incarnato dal potere militare, e un principio di trasformazione, spesso incarnato da movimenti politico-religiosi, per cui capita che le parti si invertano, e il laicismo diventa il conservatorismo più spietato e i movimenti religiosi si pongono come la piattaforma del cambiamento.

In mezzo mondo – da Rangoon a Islamabad, per dire – la casta dei militari detiene il potere. Fondamentalmente, erano l’argine al comunismo, foraggiati e ben nutriti dalle democrazie occidentali. Una massa inimmaginabile di diseredati – Il Cairo, nelle sue sterminate periferie, è davvero un purgatorio in terra –, milioni di baltaguiya stanno ponendo una opzione di potere.

Piazza Tahrir, parte seconda, è il sequel di questo processo faticoso e insanguinato iniziato con Mohammed Bouazizi, quando si diede fuoco a Tunisi.

Che possiamo offrire loro noi europei, a pancia piena, assuefatti alle piroette della democrazia, ieri sbertucciata, oggi sospesa e limitata (laissez-nous gouverner, dicono i primi ministri) roba ormai tagliata sempre peggio nell’infinito passaggio di mano di pusher, noi spread’s addicted? Verranno a prendersi le nostre donne, di notte, e i nostri figli, su furgoni blindati, e le nostre cose, e li guarderemo intontiti.

Magari ci salveranno i nostri blackbloc. Si batteranno. Come a piazza san Giovanni.

Loro, lo sanno bene cosa non vogliono più.

Loro sono il nostro prequel della democrazia che verrà.

Nicotera, 22 novembre 2011 per “Gli Altri”

www.lanfranco.org,  www.lanfrancocaminiti.wordpress.com

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