Più vive che mai

di Maria G. Di Rienzo

Se si parla di vedove la prima immagine che si genera nelle nostre menti è quella di donne anziane, o comunque adulte; ma milioni di vedove, al mondo, sono bambine. A volte non hanno più di otto anni. Non viste, non contate nei rapporti internazionali, vivono per lo più in remote aree rurali dell’Africa e dell’Asia del sud, ma dire che “vivono” è quasi un’esagerazione. Generalmente, per il loro status di vedove, è decretata la “morte sociale”. Sposate a forza in età infantile a uomini adulti e anziani, private dei loro diritti umani alla salute, all’istruzione, alla protezione dalla violenza sessuale e dallo sfruttamento economico; prematuramente incinte, ben prima che i loro corpi siano pronti a tale esperienza; se sopravvivono alle lesioni dovute ai rapporti sessuali, ai parti prematuri, alle fistole, alle botte, all’Aids, si rimprovera loro di essere così sfacciate da sopravvivere anche ai mariti. Se hanno figlie, la loro “disgrazia” si trasmette a esse senza scampo: una vedova povera, senza diritti ereditari su terra o beni, può essere facilmente costretta a vendere la sua bimba in un matrimonio precoce. Nel frattempo, per mantenerla, di solito vende se stessa per strada o in qualche bordello. Naturalmente, nel caso “fortunato” in cui i parenti del marito non l’abbiano buttata per strada, la piccola vedova può fare la serva in casa propria immersa nel disprezzo più totale.

E’ difficile avere statistiche precise, stante gli scarsi sforzi dei governi e della comunità internazionale nell’occuparsi del problema, ma è ormai accertato che Yemen, Tanzania, Afghanistan ed Etiopia sono fra i Paesi con la più alta incidenza di vedove bambine. La nazione che si situa in cima alla lista è il Nepal, ma forse, dicono i ricercatori, è solo perché il gruppo “Women for Human Rights – Single Women’s Group” (Whr Swg) – un’associazione di vedove – si è presa la briga non solo di contarle ma di cercare di fornir loro soccorso, protezione, alloggi, cibo, cure sanitarie, istruzione e lavoro. Il compito che le donne di Whr Swg si sono assunte, reso ancora più arduo dallo stigma sociale posto sulle giovanissime vedove, ha avuto un’insperata e felice mano d’aiuto un paio d’anni fa, grazie alla giornalista Yemi Ipaye e alla regista Katherine Chrucher, che sulle piccole vedove hanno girato per la Bbc il documentario “Nepal: le morte viventi”. «La mia più grande preoccupazione era il timore di mettere queste ragazze a rischio di ulteriori abusi» dice Ipaye: «Già era difficile farle parlare delle loro esperienze. Se descrivevano apertamente ciò che stava accadendo loro era inevitabile che accusassero le famiglie dei loro mariti di violenza e sfruttamento, e queste famiglie avrebbero potuto vendicarsi dopo che la telecamera se n’era andata».

Può sembrare strano che le “bekalayas”, come le giovani vedove nepalesi sono chiamate, debbano essere perseguitate dalla loro stessa comunità per un fatto, la morte del marito loro imposto, di cui non hanno responsabilità alcuna, ma – come spiegò ad Ipaye un influente sacerdote Hindu – molti credono che queste creature abbiano fatto qualcosa di così orrendo nella loro vita precedente da meritare la maledizione della presente miserabile esistenza come vedove bambine. Le femministe del Nepal aggiungono che questa è la vernice, assai appiccicosa, con cui la questione dei diritti umani delle donne e delle bambine viene coperta, una questione che ha che fare con il possesso della terra e in genere con il potere: su una bimba si può averne di assoluto.

«Il mio primo shock fu l’incontro con Gita» dice ancora Ipaye: «Aveva 13 anni ed era diventata una vedova a 10: più esattamente, era diventata la schiava domestica dei suoi parenti acquisiti. Poi ho incontrato Bobita, che di anni ne aveva 14 e aveva un figlio neonato fra le braccia: era pateticamente rassegnata a vivere in un limbo, con la sola speranza che crescendo il figlio l’avrebbe protetta e riscattata. Manu, vedova di guerra a Kathmandu, viveva fra le ombre come un fantasma: è stato difficile per me venire a patti con la sua storia, aveva dovuto fare cose inimmaginabili per sopravvivere».

La vita delle vedove bambine è anche regolata da restrizioni formali: non possono indossare abiti colorati o chincaglieria e devono portare solo vesti bianche; è loro proibito presenziare a feste o celebrazioni familiari come i matrimoni; non devono mangiare pesce o carne. Insomma, devono scomparire a livello sociale. Le donne di Whr Swg hanno sfidato queste consuetudini istruendo le vedove e insegnando un mestiere alle più grandi: le ragazze si sono entusiasticamente cimentate in corsi per lavori non tradizionali e oggi riparano biciclette e telefoni cellulari, o guidano taxi. Per di più, tendono a formare cooperative e il fatto di essere insieme fornisce loro un’attitudine del tutto diversa. Non solo molte hanno preso a vestirsi come vogliono, ma hanno anche inscenato una clamorosa protesta contro il governo che intendeva pagare degli uomini per sposarle di nuovo. «E’ stato un momento di vera ispirazione. Una marcia senza precedenti per il Paese» ricorda Ipaye: «Ma fu subito chiaro che la lotta era seria: il ministro responsabile di questa proposta mi disse personalmente che non l’avrebbe ritirata». Per questo, chiedendo che i loro diritti umani siano riconosciuti e garantiti, bimbe e ragazze e donne vedove, in Nepal, stanno continuando a protestare.

BREVE NOTA
Maria G. Di Renzo, come sa chi passa spesso di qui, è una presenza importante per codesto blog: sia come autrice che come traduttrice; presenza inquietante, con storie altamente drammatiche, ma anche quietante cioè con vicende positive. Voglio ricordare a chi l’ha scoperta da poco
«Voci dalla rete», il suo ultimo e fondamentale libro: donne dei villaggi e attiviste, operaie e avvocatesse, paria oppure giornaliste, nei luoghi natii o nell’esilio, senza dimenticare le trickster, “divine buffone”. Se volete saperne di più digitate Voci dalla rete (in data 2 luglio 2011) e trovate una mia recensione. (db)

Redazione
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