«Plusvalore d’Italia» di Gian Paolo Patta

recensione di Gian Marco Martignoni

Proseguendo il lavoro di analisi sviluppato nel 2009 con il volume «Crisi? Per chi? Il lavoro dimenticato», Gian Paolo Patta con il nuovo saggio «Plusvalore d’Italia» (Edizioni Punto Rosso pagg. 236 € 15,00) si misura con la crisi del capitalismo mondiale e del nostro Paese, dimostrando come le categorie analitiche forgiate da Karl Marx, in particolare nel «Capitale», siano tutt’ora valide per comprendere la depressione economica in cui è nuovamente piombata l’economia capitalistica.

Infatti, rifuggendo da qualsiasi visione “crollista” della storia e dell’economia, Patta rileva come la crisi sia una manifestazione ricorrente nella storia del capitalismo, tanto che negli Usa dal 1854 ad oggi si sono alternati ben trenta cicli economici contraddistinti da fasi di espansione e contrazione, e sollecita tutti (non solo la comunità dei marxisti) a concentrare l’attenzione sulla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, in ragione della capacità del capitalismo per l’appunto di convivere con la crisi, per via di quelle controtendenze che lucidamente Marx aveva a suo tempo ben individuato.

D’altronde, l’accentuato ruolo delle multinazionali, le delocalizzazioni selvagge, l’internazionalizzazione anche delle imprese italiane, con una crescita del fatturato nelle affiliate estere a fronte della diminuzione della quota delle esportazioni ( -33% alla metà degli anni ’90), sono la riprova di come il capitale è costantemente alla ricerca del saggio di profitto più elevato, mediante la messa in concorrenza di forza-lavoro collocata in aree geografiche differenti e il ritorno a modalità di sfruttamento ottocentesche.

Perciò, stanti queste premesse metodologiche e un apparato di dati e statistiche nazionali e internazionali davvero impressionante, l’esplosione della violenta crisi nel 2007/2008, causata dallo scoppio della bolla immobiliare negli Usa, se da un lato ha evidenziato il divario tra sviluppo delle forze produttive e gli attuali rapporti di produzione capitalistici, dall’altro lato ha messo in luce come la reazione del neoliberismo alla crisi di profittabilità si è tradotta nel conflitto aperto non solo con le conquiste storiche del movimento operaio, ma anche con le procedure democratiche forgiate dalle Costituzioni repubblicane e le organizzazioni tradizionali di rappresentanza.

La crescita delle diseguaglianze e la finanziarizzazione dell’economia, la disoccupazione di massa e il peggioramento delle condizioni salariali e lavorative del lavoro dipendente sono la diretta conseguenza del mutamento dei rapporti di forza fra le classi su scala mondiale, ma in particolare nello stagnante Occidente capitalistico, ove si è verificato un crollo della produzione industriale a fronte della colossale avanzata rispetto all’aumento del prodotto mondiale dell’area cosiddetta Bric ( Brasile, Russia, India, Cina).

Un’avanzata che ha ribaltato i rapporti economici e politici fra Paesi emergenti e Paesi a capitalismo “maturo” giacché la crescita dei primi nell’ultimo ventennio rispetto al Pil mondiale è stata del 57% rispetto al 43% dei secondi, e tendenzialmente è destinata a proseguire incessantemente in ragione di una diversa collocazione degli investimenti diretti nel mondo. Determinando in prospettiva nuove contraddizioni rispetto ai meccanismi dell’accumulazione capitalistica e alla logica dell’appropriazione privata che la guida “anarchicamente”.

In questo contesto la situazione del nostro Paese è assai preoccupante, poiché mentre nel 1980 il peso sul Pil del mondo era in percentuale del 4,5, nel 2011 esso è sceso al 2,3%. Un dato certamente sorprendente, ma se si considera che l’indice della produzione industriale nel 2011 è stato con 88,6 inferiore al livello del 1990 (90,4), esso è la testimonianza dell’arretratezza del capitalismo italiano, nella divisione internazionale del lavoro specializzato storicamente in produzioni a basso valore aggiunto.

Se l’incidenza del lavoro nero (3 milioni di dipendenti e 650 mila di indipendenti), del lavoro autonomo (4,2 milioni) e degli inattivi (6 milioni fra i 25 e i 65 anni) sono la spia di una bassa produttività complessiva del nostro Paese rispetto alla Germania, anche il minor valore aggiunto per addetto è correlato a una struttura produttiva imperniata sostanzialmente sulla micro-impresa, con solo 257 mila imprenditori censiti come tali dall’Istat nel 2010 su 22,8 milioni di occupati.

Pertanto, gli alti investimenti tedeschi in capitale costante, stante la dimensione del loro sistema d’impresa che ha introdotto massicciamente il lavoro a turni e conseguentemente lo sfruttamento intensivo degli impianti, determina un monte ore annuo per persona occupata pari a 1437, rispetto invece a un monte ore di 1813,3 nel nostro Paese.

Un differenziale che sommato a quello sulla dinamica dei profitti delle società non finanziarie – ove figuriamo in compagnia di Grecia, Portogallo e Spagna, cioè tra i peggiori – suona come una pesante bocciatura del nano-capitalismo italiano, mal ridotto anche per l’assenza, più che decennale, di uno straccio di politica industriale.

 

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