Presidenziali Honduras: frode elettorale dei golpisti

di David Lifodi

Come previsto, le elezioni presidenziali in Honduras si stanno caratterizzando per il poco credibile successo di Juan Orlando Hernández, il candidato del Partido Nacional, su Xiomara Castro, del Partido Libertad y Refundación (Libre), tra crescenti accuse di brogli. A quattro giorni dalle elezioni del 24 novembre, il Tribunale Supremo Elettorale non ha ancora dichiarato quale sarà il futuro presidente del paese: oltre il 30% dei voti deve essere scrutinato, ma il presunto vantaggio di Hernández su Castro pare essere confermato. Sembra una frode elettorale in piena regola.

Per il momento Libre (il partito sorto dalla resistenza al golpe del 2009) ha rifiutato di riconoscere la vittoria di Hernández, sostenendo che Xiomara Castro avrebbe vinto con almeno tre punti percentuali di scarto, e del resto sulla legittimità del successo della destra pesa l’appartenenza dichiarata di David Matamoros, presidente del Tribunale Supremo Elettorale, al Partido Nacional. La frode elettorale, già evocata dagli esponenti di Libre nei giorni precedenti al voto (gli ultimi sondaggi davano Xiomara Castro in leggero vantaggio o in parità con Hernández), non è stata riscontrata dalla missione dell’Unione Europea, mentre la Mesa de Análisis sobre Violación a Derechos Humanos, ha evidenziato oltre 60 denunce di irregolarità, e gli stessi corrispondenti di Telesur hanno rilevato molteplici anomalie, riferendo casi di compravendita dei voti e minacce agli osservatori giunti nel paese. Di fraude sin limites hanno parlato anche le organizzazioni sociali, appoggiate da osservatori internazionali di prestigio quali il giudice spagnolo Baltazar Garzón e Rigoberta Menchú, e gli stessi movimenti temono che l’Honduras finisca per divenire il buco nero della democrazia continentale. A livello internazionale, gli unici che hanno riconosciuto la vittoria di Juan Orlando Hernández, sono per adesso l’ex presidente salvadoregno di estrema destra Tony Saca, il presidente guatemalteco Otto Pérez Molina (da cui il candidato del Partido Nacional ha tratto gli slogan più duri in tema di sicurezza), il panamense Ricardo Martinelli e quello colombiano Juan Manuel Santos, cioè alcuni tra i mandatarios più reazionari del continente, a cui si è aggiunto, a sorpresa, il sandinista ormai solo di facciata Daniel Ortega. Da parte sua anche il presidente uscente Porfirio Lobo non ha perso tempo, ha riconosciuto in un battibaleno l’esito delle urne ed ha rivolto un appello alla calma a tutto il paese, invitando gli honduregni a rispettare la volontà popolare nel segno di una pacifica convivenza democratica. Il fatto che il Tribunale Elettorale in un primo tempo abbia proclamato i risultati soltanto del 54% dei voti scrutinati, rinviando addirittura alla tarda serata di lunedì scorso una nuova comunicazione ufficiale con i dati definitivi, fa venire molti dubbi sull’esito regolare del voto, non riconosciuto nemmeno da altri partiti di destra come il Partido Anticorrupción del giornalista sportivo e candidato alla presidenza Salvador Nasralla. Fino ad allora Hernández conduceva con il 34% delle preferenze contro il 28% di Xiomara Castro. Successivamente, la nuova, preannunciata, dichiarazione di Matamoros: scrutinati solo il 67% dei voti, distacco più o meno immutato tra Juan Orlando Hernández e Xiomara Castro e tendenza, a suo dire, irreversibile. Come dire: Hernández ha vinto, fine delle discussioni. Libre aveva accreditato circa 180 osservatori provenienti dai paesi latinoamericani, oltre a quelli della Vía Campesina e della Mesa de Análisis sobre Violación a Derechos Humanos, di cui facevano parte, tra gli altri, il combattivo sindacato honduregno Stibys (Sindicato de Trabajadores de la Industria de la Bebida y Similares) e il Cofadeh (Comité de Familiares de Detenidos Desaparecidos en Honduras). Le elezioni si sono svolte in un contesto sociale molto difficile. L’Honduras è un paese con nemmeno 9 milioni di abitanti, ma solo nel 2012 sono stati registrati oltre 7000 omicidi. Le pandillas, le bande di criminali che sempre più frequentemente sono composti da giovani e giovanissimi, terrorizzano il paese: sono loro che controllano le varie zone dell’Honduras e si fanno la guerra per il territorio e per conquistare le piazze del commercio della droga. È grazie a questa situazione che Juan Orlando Hernández ha impostato la sua campagna elettorale, nel tentativo di sfruttare il voto de miedo degli honduregni e garantendo il ritorno all’ordine. Gli stessi politici, in più di una circostanza, hanno delegato le attività di proselitismo elettorale alle pandillas, pagandole in denaro sonante. Cosa c’è di meglio, quindi, che militarizzare le strade, ha pensato Juan Orlando Hernández. Di qui una campagna elettorale basata esclusivamente ed ossessivamente sulla sicurezza. Lo scorso 3 ottobre, a nemmeno due mesi dal voto, l’attuale presidente del Congresso ha creato la Policía Militar de Orden Público, inviata a pattugliare le strade in una maniera molto simile alle ronde. Ufficialmente la Polizia Militare sarebbe stata incaricata di combattere il crimine organizzato, e, garantiva Hernández , gli agenti saranno istruiti sul tema dei diritti umani, ma in realtà è una sorta di polizia politica impegnata a compiere operazioni di pulizia sociale e a reprimere l’opposizione di Libre e dei movimenti sociali. Alcuni militanti di Libre hanno subìto delle perquisizioni nelle loro case solo perché appartenenti alla resistenza: questa era la motivazione che autorizzava l’irruzione dei militari. La polizia comunitaria, vicina alla gente e non armata fino ai denti rappresentava la soluzione di Xiomara Castro, che ha espresso immediatamente il suo disaccordo non appena ha visto migliaia di militari invadere le strade delle due principali città del paese, la capitale Tegucigalpa e il cuore dell’economia honduregna, San Pedro Sula. “C’è una campagna di Libre per eliminare la polizia militare”, ha mentito Hernández allo scopo di screditare Xiomara Castro, che in caso di vittoria aveva garantito l’immediato ritorno dei militari nelle caserme. Non si è trattato dell’unica trovata pre-elettorale di Hernández, che ha fatto approvare, in qualità di presidente del Parlamento, una legge mirata sulle intercettazioni per mettere sotto controllo l’opposizione. E ancora, Hernández, come il suo predecessore Porfirio Lobo, anche’esso proveniente dal golpista Partido Nacional, ha concesso pieni poteri alle multinazionali che stanno sfruttando il paese per i loro progetti idroelettrici e di estrazione mineraria. La detenzione di Bertha Cáceres  e di altri attivisti del Consejo Cívico de Organizaciones Populares e Indígenas de Honduras (Copinh), rappresenta fin troppo chiaramente lo stretto legame tra il potere politico, giudiziario e militare. Del resto, la proposta politica di Hernández, incentrata sul rafforzamento di esercito e polizia, è riuscita a far presa sulle paure della gente e su una parte dell’elettorato. Un ruolo di primo piano nel corso dell’intera campagna elettorale lo ha svolto anche l’ambasciatrice statunitense a Tegucigalpa Lisa Kubiske, coinvolta in traffici poco chiari fin dal golpe del 28 giugno 2009 che ha rovesciato il presidente legittimamente eletto Manuel Zelaya: si trattò del primo colpo di stato in America Latina dell’amministrazione Obama. Sul ruolo ambiguo dell’ambasciatrice Usa è intervenuto anche il presidente venezuelano Maduro, sottolineando che gli Stati Uniti non avrebbero dovuto intromettersi nelle elezioni presidenziali del paese centroamericano. Washington ha sempre appoggiato la borghesia honduregna, che a sua volta controlla tutti i principali mezzi di comunicazione del paese. Manuel Zelaya e Xiomara Castro sono tuttora considerati dei pericolosi sovversivi soltanto per aver messo in discussione la presenza nel paese della base aerea Usa di Palmerola e per essersi fatti portavoce di moderati programmi di redistribuzione della terra e delle ricchezze del paese, oltre che sostenitori di una politica estera indipendente. L’Honduras di Zelaya era entrato a far parte dell’Alba (l’alternativa bolivariana per le Americhe) per uscirne subito dopo il golpe, ma sia lui sia la moglie hanno sempre guardato con un certo interesse anche alla via brasiliana e uruguayana al socialismo, vedi lo slogan El socialismo democrático es el camino a la libertad, evocato più volte da Xiomara Castro. Non si tratta certo di programmi radicali, ma sufficienti ad impaurire i terratenientes honduregni, terrorizzati da una vittoria di Libre che avrebbe finito per mettere in discussione le concessioni minerari
e, consegnato i latifondi improduttivi ai campesinos per la coltivazione e difeso la sovranità territoriale, ponendo un freno, questo si, alla svendita delle risorse naturali del paese. A questo proposito va registrata, pochi giorni prima del voto, anche la dichiarazione del tutto strumentale di Adolfo Facussé, uno dei più potenti e reazionari imprenditori del paese, tra gli artefici del colpo di stato del 2009, che ha commentato con cinismo: “La crisi economica crea difficoltà anche a noi imprenditori. Preferisco un governo di sinistra che scende a patti con l’impresa privata”. Difficile comprendere gli scenari che potrebbero aprirsi adesso, in un paese in cui non si votava solo per la presidenza, ma anche per il rinnovo dei 128 seggi del Congresso nazionale, dei 20 rappresentanti in seno al Parlacen (il Parlamento centroamericano) e di 298 cariche municipali.

Come già accaduto in Messico con la frode elettorale che ha condannato per ben due volte alla sconfitta López Obrador, Libre chiede un nuovo conteggio del voto urna por urna, pueblo por pueblo. Al momento in cui scrivo la situazione è molto incerta, ma la vittoria (?) di Hernández condanna l’Honduras ad un periodo che si preannuncia davvero buio nel silenzio totale dei grandi media nazionali e internazionali, sempre solerti quando si tratta di dare addosso al processo bolivariano in Venezuela, ma silenti di fronte ai brogli dei golpisti nel paese centroamericano.

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