Presidenziali: Messico di nuovo a destra

di David Lifodi

Le agenzie di stampa si affrettano a battere la notizia: Enrique Peña Nieto è il nuovo presidente del Messico. Aggiungono: il Partido Revolucionario Institucional (Pri) torna a Los Pinos, il palazzo presidenziale, dopo 70 anni di dominio interrotti dal doppio successo, nel nuovo millennio, di Vicente Fox e Felipe Calderón, entrambi del Partido Acción Nacional: è l’alternanza tra due destre. Seguono i nomi degli aspiranti alla presidenza sconfitti da Peña Nieto, Andrés Manuel López Obrador, candidato della sinistra, e Josefina Vázquez Mota, panista. Fine delle trasmissioni.

Quello che nessuno dice è che il successo di Enrique Peña Nieto rappresenta una sciagura per il Messico, al termine di una campagna elettorale più vicina ad un reality show e segnata dalla forte influenza mediatica di Televisa e Tv Azteca, le principali emittenti televisive del Paese, a favore del futuro presidente, che assumerà ufficialmente l’incarico il prossimo 1 dicembre. Anche i più diffusi quotidiani messicani hanno preso posizione, senza alcuna imparzialità, per Enrique Peña Nieto, soprattutto Milenio e El Universal, i più letti fra gli abitanti del Distrito Federal. Nessun accenno al governatorato di Peña Nieto nello stato di Messico, tra il 2005 ed il 2011, segnato da costanti violazioni dei diritti umani e culminato con la brutale repressione diretta contro la popolazione di San Salvador Atenco, in lotta per opporsi alla costruzione di un aeroporto sul proprio territorio: il saldo fu di alcuni morti e centinaia di manifestanti fermati o feriti. Correva l’anno 2006. Sempre in qualità di governatore dello stato di Messico, Enrique Peña Nieto stipulò una sorta di contratto con Televisa affinché la tv si impegnasse a coprire con commenti favorevoli tutte le sue uscite pubbliche e a gettare discredito sull’opposizione. La notizia fu diffusa dalla rivista Proceso e ripresa dal quotidiano britannico The Guardian, che, di recente, ha parlato di enormi finanziamenti di Televisa nella campagna elettorale dell’esponente priista. E di nuovo Proceso, nella sua edizione del 24 giugno, ha parlato dell’intenzione di Peña Nieto di piazzare osservatori elettorali priisti in tutti i seggi del Paese, in modo tale da convincere, o comprare, gli elettori che si fossero recati alle urne: non è un caso che Acampada Revolución, il movimento che fa capo a Yo Soy132, abbia già denunciato almeno cinquecento casi di presunte irregolarità nelle ore immediatamente successive alla chiusura delle votazioni. Non si è trattato di elezioni pulite, tutt’altro, soprattutto per una potente campagna mediatica, costruita a tavolino, volta a presentare Enrique Peña Nieto come sicuro vincitore fin dai mesi precedenti al voto del 1 luglio. La disputa elettorale è stata scompaginata, negli ultimi mesi, dal movimento Yo Soy132, composto principalmente da studenti universitari, ma in grado di coinvolgere in breve tempo buona parte delle organizzazioni popolari messicane, dalle donne indignate per l’inarrestabile femminicidio agli operai, dalle comunità in lotta contro dighe e miniere ai giornalisti indipendenti, passando per i contadini e le minoranze sessuali: una sorta di zapatismo urbano. Yo Soy132 è apparso per la prima volta l’11 maggio scorso, quando 131 studenti dell’Universidad Iberoamericana di Città del Messico, privata e tra le più esclusive del Paese, decisero di protestare contro la visita di Peña Nieto. Il candidato priista pensava di giocare in casa, ma fu costretto ad abbandonare in tutta fretta l’università: gli studenti lo ritenevano il primo responsabile per i fatti di San Salvador Atenco. Da lì nacque Yo Soy132 (io sono il 132esimo) che fin dall’inizio ha messo in discussione il legame strettissimo fra mezzi di comunicazione commerciali e Peña Nieto: la primavera messicana era sbocciata. Contemporaneamente stava crescendo anche il Movimiento de Regeneración Nacional (Morena) di Andrés Manuel López Obrador, che era uscito sconfitto nel 2006 in seguito a una colossale frode elettorale. Pur essendo il suo partito, il Prd (Partido de la Revolución Democratica) non privo di ambiguità, Amlo (così è conosciuto popolarmente in Messico) rappresentava un progetto tutto sommato alternativo al sistema di potere del Pri, il cosiddetto “partito dinosauro”, e alla destra del nuovo millennio, quella panista, abile ad installarsi a Los Pinos negli ultimi dodici anni. Yo Soy132 non ha mai appoggiato ufficialmente Amlo, in quanto movimento apartitico e proveniente dal basso, ma gli studenti e la mobilitazione della società civile avevano fatto sperare in un risultato clamoroso, quello di portare un presidente di sinistra alla guida del Paese. Invece hanno vinto i media di Peña Nieto, che lo hanno presentato come un personaggio da jet set, come in effetti è, dietro al quale si nascondeva quel volpone di Salinas de Gortari, il presidente che nel 1994 ratificò il Nafta (North-American Free Trade Agreement) con Usa e Canada e fu responsabile di aver fatto sprofondare il Paese in una pesante crisi economica: erano i primi effetti del neoliberismo e delle sue dosi massicce applicate a un Paese desideroso di entrare fra i grandi del mondo. Allora, gli studenti di Yo Soy132, che oggi lo contestano, erano appena nati: subito dopo la sua autoproclamazione alla presidenza si sentono disillusi, tristi, frustrati: alcuni, provocatoriamente, hanno dichiarato che chiederanno asilo politico all’estero. Su Peña Nieto non hanno pesato nemmeno gaffes macroscopiche, come quella che lo ha visto protagonista alla Feria Internacional del Libro de Guadalajara: in quell’occasione, nel corso di un’intervista, non fu in grado nemmeno di citare a memoria tre libri che lo avevano colpito nel corso della sua vita. Dal 1 luglio il Messico è nelle mani di un tipo così: il grande scrittore Carlos Fuentes, deceduto lo scorso 15 maggio, disse che Peña Nieto non aveva diritto a governare il suo Paese.

La strategia del Pri, che puntava a fare il pieno anche alle due Camere del Congresso e nei governi di sei stati (tra cui il Chiapas) scommettendo sui disastri del foxismo e sull’incapacità del presidente uscente Calderón di arginare il narcotraffico, ha avuto successo: per il Messico si preannunciano anni duri.

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