Prima di «Fango Nero»

di Sergio Mambrini (*)
Giorgio si congedò dieci giorni dopo il termine di leva. Partì da Codroipo appena ebbe tra le mani

il foglio che metteva la parola “fine” al suo obbligo. Era quasi sera quando salì in treno per Venezia. Ogni coincidenza ferroviaria era ormai bruciata. Passò la notte passeggiando per le callette deserte e mute della città. Attraversò ponti camminando con le mani in tasca, a proprio agio in quel silenzio soffocato. Canticchiava mentalmente «Volare» di Modugno, sentendosi trasportare dall’emozione. Che bello sarebbe stato volare veramente nel cielo infinito! Anche Giorgio pensava che un sogno così non sarebbe tornato mai più. Altroché dipingersi le mani e la faccia di blu. Che esperienza di ascesa!
Non incontrò anima viva fino alle quattro del mattino quando salì sul treno che l’avrebbe portato a casa. Erano i primi giorni di maggio del sessantotto. L’Europa ribolliva, a Parigi un movimento giovanile impetuoso contestava e manifestava con determinazione il proprio dissenso. Lui, invece, aveva trascorso la notte più tranquilla e sentimentale della propria giovinezza. Poi portò sempre con sé il ricordo nostalgico di quella Venezia misteriosa.
Visse il sessantotto pigramente, come se non fosse previsto altro per lui che ballare, amoreggiare, tuffarsi nell’acqua, pescare e discutere dei “massimi sistemi” con l’amico Nando. Ci pensò suo padre a trovargli un lavoro dopo un anno di pacchia. Nel maggio del sessantanove si mise a programmare la produzione in una fabbrica di filtri per le auto, quella del Walter, l’amico del suocero di suo fratello Glauco. Fu lì che conobbe Roberto Colaninno. Lavorava con lui nel box adiacente al suo. Si scambiarono rare e indispensabili parole. Nessuno dei due s’impicciava dell’altro. Non sospettavano il loro reciproco futuro ruolo predestinato. Indifferente alla prassi opportunista degli altri colleghi, Giorgio schizzava dalla poltrona al suono insistente della sirena, non un secondo dopo. Non amava regalare nemmeno una briciola del proprio tempo a quel grigiore. Solo dopo otto giorni dall’assunzione, il custode della fabbrica, che aveva pure un ruolo impiegatizio, si mise le canne del fucile da caccia in bocca e si spappolò il cranio. Era una delle poche persone che gli aveva dimostrato una specie d’affetto, quasi volesse proteggerlo dalle diverse meschinità vaganti. Lo incoraggiava con parole calme e lo metteva in guardia dagli adulatori, che lui chiamava sbrigativamente leccaculo. La scoperta del cadavere il mattino successivo bloccò ogni lavoro. Giorgio rimase incredulo alla notizia. Gli dissero che l’anziano amico si era scoperto malato di cancro e avesse deciso di farla finita seduta stante, piuttosto che vivere il suo male nel supplizio dell’angoscia dolorosa senza speranza. Ha scelto una morte tranquilla, pensava, ma il feroce atto distruttivo gli sembrava troppo crudele, generato forse più dalla paura che dal coraggio. Appena il giorno dopo tutte le attività ripresero con il solito ritmo. La tragica vicenda fu archiviata come uno sciagurato incidente, un semplice intoppo.
Tre giorni dopo ricevette l’invito a presentarsi a Milano. La Siemens-Data stava selezionando una ventina di persone da addestrare all’uso del proprio software. Come sempre era stato Franco, il suo papà, a procurargli quell’incontro. Giorgio partecipò curioso ma senza entusiasmo. Erano circa in duemila come lui, perciò nutriva poche speranze. Invece superò inaspettatamente il test. Fu così che abbandonò Colaninno alle sue avventure e si trasferì a Milano per seguire le proprie, che l’avrebbero segnato sia nello spirito sia nel fisico. Ma allora non poteva immaginarlo.
Si sistemò con un compagno di corso in una stanza nella zona fra Porta Vittoria e Porta Romana, sull’angolo di via Spartaco, dove il tram faceva una curva stretta provocando un frastuono incredibile, soprattutto la notte. Fu in quella camera spoglia che in un’afosa nottata di luglio, quando tutte le finestre di Milano erano spalancate, sentì l’eco della voce di Tito Stagno che annunciava in tv lo sbarco di Amstrong e Aldrin nel Mare della Tranquillità sulla superficie lunare. «Ha toccato…no…sì…forse …chissà».
In un paio di mesi Giorgio imparò il significato di parole mai sentite prima d’allora ma soprattutto capì come trasformare la logica umana nella logica binaria della macchina, battezzata con il fuorviante termine di “cervello elettronico”. Insomma fu una specie di corso di lingue. Finite le lezioni si aggirava alla scoperta delle latterie di Milano, dove a poco prezzo sfamava i suoi appetiti. Verso sera faceva due passi alla libreria Feltrinelli di via Manzoni poi s’infilava in piazza Duomo ad ascoltare qualche gruppo di discussione. Sì, proprio così, a quei tempi le persone scambiavano idee, criticavano, confutavano, polemizzavano, dibattevano e s’incontravano in piazza.
A metà luglio fu convocato da un tizio simile, per l’aspetto del cranio, a Eta Beta, il famoso personaggio di Disney, quello con la testa fatta a triangolo. Gli chiese che genere di film amasse, cosa leggesse, cioè quali giornali comprava. Voleva sapere se aveva una ragazza, quali passioni nutriva. Anche se vi può sembrare strano fu questo il colloquio fondamentale con cui fu assunto in Montedison. In pratica Giorgio si sforzò di mentire a ogni risposta, in modo da apparire proprio per benino, un bravo ragazzo senza fronzoli bislacchi. Per il lunedì successivo fu fissato un appuntamento per la visita medica cui doveva sottoporsi prima di prendere servizio. Giorgio uscì dal colloquio un po’ confuso. Gli sembrava d’essere stato ingaggiato in una squadra di calcio o di dover tornare militare. In effetti, la sua sensazione era vicina alla verità. Fu inquadrato in un gruppo per realizzare un progetto, cioè vincere una sfida sia tecnologica che politica. La figura simbolica dell’allenatore era proprio quell’Eta Beta lì. Il padrone della squadra, il presidente, era nientepopodimeno che Eugenio Cefis, un vero padrone di razza. Una specie di generale con incarichi speciali.
Alle quindici del lunedì varcò l’ingresso monumentale di Foro Bonaparte per sottoporsi alla visita. Una biondina con il camice bianco lo accolse in un piccolo ambulatorio e gli tese una specie di bottiglione a bocca larga. «Faccia un po’ di pipì qui dentro» gli disse, poi chiuse la porta. La stanzetta non presentava né lavandini, tantomeno altri servizi. Giorgio estrasse il proprio arnese e lo infilò nel collo di quella strana bottiglia. Purtroppo l’impeto del flusso non fu arrestabile a comando. Del resto erano parecchie ore che aspettava l’occasione buona per svuotare la vescica, ormai gonfia come una mongolfiera. Con gli occhi sbarrati e il fiato sospeso, finì di pisciare proprio quando il liquido giallo aveva ormai raggiunto il filo del bordo superiore. Con estrema cautela appoggiò il bottiglione sulla scrivania, si ricompose con un senso di sollievo e chiamò la biondina. Giorgio le allungò il contenitore ancora caldo con un gesto fermo e lento, in modo che il piscio non traboccasse. Lei lo guardò sbalordita rimarcando, con voce sottile, che sarebbe stata sufficiente una goccia di pipì. Tuttavia, rassegnata, raccolse l’intero tributo.
Dopo qualche giorno di risate con gli amici si presentò in ufficio, lì vicino, in via San Nicolao. Quando il venerdì sera tornò a casa, sua madre gli disse che il giorno prima era stata interrogata da un maresciallo dei carabinieri in pensione. Voleva notizie su Giorgio, del tipo: dov’era stato a militare, perché si era congedato in ritardo, chi frequentava e via di questo passo. In pratica, ognuno aggiornava una scheda, per quanto gli competeva. Ogni informazione sarebbe servita a gestire i lavoratori con un buon grado di affidabilità, così almeno credevano loro. Meglio esser prudenti, avrà pensato Cefis, un ex agente segreto, ex partigiano e ideatore della P2. Altroché la Fiat! Tuttavia non sospettavano che ogni persona poteva evolvere il proprio atteggiamento, in funzione di esperienze inaspettate o più semplicemente per una nuova consapevolezza acquisita lavorando assieme a tanti altri.
Con una tempistica pendolare, Giorgio frequentò Milano fino alle feste di Natale, prima di essere trasferito nello stabilimento petrolchimico di Mantova. Finalmente a casa!
L’autunno del sessantanove conservò una temperatura mite, anzi no, fu l’autunno più caldo del dopoguerra. Il dodici dicembre, addirittura, fu infuocato. Da quella vampata in piazza Fontana Giorgio imparò a crescere, ma questa storia mi pare d’averla già raccontata in un altro libro.
(*) Sotto un “insolito” titolo – Cancro enfisema fumo intossicazione silicosi – trovate in blog la mia recensione di «Fango nero»: ed è attraverso la lettura di questo bel libro che ho conosciuto Sergio Mambrini e adesso ho il piacere di ospitarlo spesso in blog. (db)

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