«Proust era un neuroscienziato»

Le considerazioni di Giuliano Spagnul sul libro di Jonah Lehrer

«Proust era un neuroscienziato» (Codice edizioni 2008, ristampato nel 2017) di Jonah Lehrer «narra di alcuni artisti che anticiparono le scoperte dei neuroscienziati: scrittori, pittori e compositori che scoprirono verità sulla mente umana – verità reali, tangibili – che la scienza solo oggi sta riscoprendo». Il libro interroga le figure di Walt Whitman, George Eliot. Auguste Escoffier, Marcel Proust, Paul Cézanne, Igor Stravinskij, Gertrud Stein e Virginia Woolf, che vissero in un’epoca, a cavallo fra Otto-Novecento, «segnata dall’ansia» per la morte dell’anima immortale: «l’uomo era una scimmia, non un angelo caduto». Il libro di Lehrer si fa leggere d’un fiato, è avvincente e ha una prosa chiara che si mette al servizio di concetti e teorie scientifiche normalmente ostiche al grande pubblico, senza cadere peraltro nelle usuali semplificazioni di tanta divulgazione spicciola.

Fa un po’ specie quindi scoprire che la carriera di questo brillante saggista, astro nascente dell’intellettualità newyorkese, sia potuta incorrere in un incidente di percorso come quello dell’auto-plagio (cioè l’aver riciclato a più riprese pezzi dei suoi articoli senza specificarlo) abbastanza banale in sé e anche un po’ astruso, ma che accendendo i riflettori sulle sue opere – che tanto denaro e stima gli avevano procurato (con l’inevitabile invidia acclusa) – hanno fatto scoprire altre, più gravi, magagne: citazioni inventate o comunque un po’ troppo aggiustate. (1) Non è il caso di questo libro, credo. Note e bibliografia sembrano abbastanza accurate per supportare la tesi di fondo del libro: che le due culture, quella umanista e quella scientifica (come dal famoso libro di Charles Snow richiamato nel capitolo conclusivo) possono e devono collaborare. «Entrambe possono essere utili ed entrambe possono aver ragione. In questo nostro tempo, l’arte è il necessario contrappeso alle glorie e agli eccessi del riduzionismo scientifico, soprattutto quando vengono applicati all’esperienza umana». Per dimostrare questo l’autore fa una brillante disanima dell’opera dei suddetti artisti mettendoli a confronto con le recenti scoperte dei neuroscienziati.

È così che Whitman, oggi lo si può affermare, diceva il vero quando, con la sua poesia, affermava che le emozioni sono generate dal corpo. «Le moderne neuroscienze stanno scoprendo oggi l’anatomia che soggiace alla poesia di Whitman: hanno preso la sua ipotesi poetica – l’idea che i sentimenti abbiano origine nella carne – e hanno trovato i nervi e le aree cerebrali che lo confermano. Antonio Damasio, un neuroscienziato che ha svolto un ampio lavoro sull’eziologia del sentimento, definisce questo processo circuito corporeo. Secondo questa teoria la mente sfrutta la carne: dai nostri muscoli traiamo il nostro umore. Così di seguito con la scrittrice George Eliot la quale «riteneva che la capacità della mente di trasformarsi fosse la fonte della nostra libertà». E il cuoco Escoffier con la sua duttilità del gusto; la memoria ambigua (in quanto trasformatrice dei ricordi) di Proust e l’ambiguità del processo della visione di Cézanne: un’ambiguità «parte essenziale del processo visivo, perché lascia spazio alle interpretazioni soggettive. Il cervello umano è costruito in modo tale che la realtà non possa risolvere se stessa»; occorre sempre il nostro intervento soggettivo. E ancora la rivoluzione di Stravinskij sostenitore di un senso della bellezza assolutamente malleabile. La ricerca dell’ordine, di cui il nostro cervello sembra letteralmente “ossessionato” fa sì che si è costretti sempre, di fronte al nuovo, al non consueto, a far uso della massima attenzione per ricercare un nuovo ordine possibile. Ritorniamo alla capacità del cervello di modificarsi costantemente. Siamo creativi all’infinito come dimostrano anche le prose delle ultime due testimoni del libro.

Con Gertrude Stein, avvalendosi del linguista Noam Chomsky, si concorda che «c’è un solo unico linguaggio» ed è infinito. «Siamo in grado di creare nuove frasi di qualsiasi lunghezza possibile, espressioni mai immaginate prima da un altro cervello. Questa creatività illimitata – perfettamente illustrata dalla prosa anticonformista della Stein – è ciò che distingue il linguaggio umano da tutte le altre forme di comunicazione animale». Con Virginia Woolf è direttamente la spinosa questione dell’«io» a essere presa di petto: «sebbene l’io sembri qualcosa di certo, le opere della Woolf ci insegnano che in realtà siamo fatti di impressioni in perenne mutamento, impressioni tenute insieme dalla sottile vernice dell’identità». Per quanto possa sembrare un’esagerazione scusabile solo in quanto artistica, aveva «colto nel segno: tutti gli esperimenti, uno dopo l’altro, hanno dimostrato che ogni esperienza può durare circa dieci secondi nella memoria a breve termine. Dopodiché il cervello non ha più lo spazio per il tempo presente, e la sua coscienza deve ricominciare da capo, con un nuovo flusso. Come anticipavano i modernisti, l’io – all’apparenza permanente – è in realtà una processione infinita di momenti disgiunti».

Quanto descritto fin qui è solo l’approssimativo assaggio di un discorso ricco e articolato e, ripeto, molto coinvolgente. Forse troppo? Un sospetto alla fine affiora, una sensazione sgradevole, a malapena avvertita, di essere stati presi in giro; non tanto dalle storie in sé così sapientemente raccontate, quanto da ciò che l’insieme di questa narrazione vuol far credere. Di fronte allo smantellamento costante di ogni verità che si vuole assoluta, ci viene offerta una particolare relatività del reale. Un relativismo che ci mostra un’interiorità umana all’insegna dell’incertezza e della precarietà capace di mantenere la propria entità illusoria solo grazie allo sforzo costante, da rinnovare continuamente, dell’attenzione. E un’esteriorità caotica che non aspetta altro che di essere messa in ordine dalla nostra soggettività, cioè dalla capacità del nostro cervello di dare senso a ciò che senso non ha. Dietro a tutto ciò il mistero, il luogo dell’ineffabile a cui solo gli artisti, che non cerchino risposte, sono autorizzati a intravedere e a entrare in punta di piedi.

Ma di risposte invece Jonah Lehrer, al di là delle buone intenzioni, ce ne offre. Sono risposte che lasciano intatto e non violabile solo quel mistero, appunto, assoluto e di verità ultima, quella che – se volessimo metterla sul pesante – renderebbe conto dell’essere piuttosto che del non-essere. Ma su tutto il resto il suo discorso ci mette giù una pesante ipoteca. Nel nostro mondo in cui «sappiamo abbastanza da ammettere che non conosceremo mai tutto» sappiamo che – ce lo hanno anticipato gli artisti e ce lo hanno confermato i neuroscienziati – apparteniamo a una specie che deve il suo statuto di sapiens a una eccezionalità che non deve spartire con alcuna altra specie vivente. Saremo scimmie, e dio non esiste (e quindi neanche la nostra anima immortale) ma qualcuno ci ha donato in sorte quel qualcosa che anche se divino non è ci si avvicina di molto.

Gli scienziati interpellati da Lehrer non ci vengono qui presentati come ricercatori con le loro teorie e ipotesi di lavoro ma come giudici che dispensano verità acclarate e, guarda caso, due dei pezzi da novanta sono Antonio Damasio (che ritiene la facoltà del linguaggio posteriore alla nascita del sé e della coscienza) e Noam Chomsky con la sua teoria dell’innatismo linguistico, la tanto discussa grammatica universale inscritta dentro il nostro cervello. Entrambe tesi rispettabilissime ma tanto scientifiche – per quel di più di verità che questo termine comporta – quanto la mitica e affascinante teoria del big bang. Forse dopotutto anche gli scienziati sono artisti e, a modo loro, si sentono investiti da una fede e una missione che trascende il puro dato del verificabile. Ed è tutto da dimostrare che questo sia necessariamente un limite. Ma qui abbiamo un quadro in cui la pretesa obbiettività, costituita da un’anticipazione che viene confermata da una puntuale scoperta, viene inficiata da un assunto tutt’altro che dimostrato.

Le pezze d’appoggio scientifiche servono qui ad avvalorare la tesi che siamo sì solo materia ma che questa nostra materia ha il dono «di prometterci di essere qualcosa di più che pura materia». C’è qualcosa che ci rende eccezioni nel mondo della natura da cui, comunque, proveniamo. È questo il mistero a cui ci dovremmo inchinare? E poi, tutta l’opera della creatività umana si dovrebbe davvero risolvere in questa tenaglia fra arte e scienza in cui, ovviamente, non possono trovare spazio altri saperi antichi o moderni che siano? Quanto è lontana questa finta dichiarazione di umile accettazione di ciò che non possiamo conoscere da quei solenni “ignorabimus” che Emil Du Bois-Reymond, più di un secolo fa, nel 1872 «faceva risuonare: noi ignoriamo e sempre ignoreremo, anche se conquistassimo la conoscenza del demone di Laplace, “ciò che è”, sia ciò che conosciamo (ciò che, laddove esiste la materia, “abita lo spazio”) sia ciò che conosce (l’essenza e l’origine della coscienza)». (2)

Nota 1: https://www.ilpost.it/2012/11/20/jonah-lehrer/

Nota 2: Isabelle Stengers, «Cosmopolitiche», Luca Sossella editore 2006, p. 725.

 

 

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