Provenzano, 41bis e dignità

di Stefano Anastasia (*)

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Provenzano è il nostro Breivik? A proposito della relazione della Commissione diritti umani del Senato

Non poco disorientamento ha suscitato la condanna da parte della giudice Helen Andenaes Sekulicha della illegittimità delle condizioni di detenzione cui è stato sottoposto Anders Breivik, autore nel 2011 delle stragi di Oslo e Utoya in cui morirono 77 persone, in gran parte giovani militanti del partito laburista norvegese. Le prigioni più belle del mondo non sono state sufficienti a esentare lo Stato norvegese da un duro giudizio: l’isolamento cui Brevik è stato sottoposto costituisce un trattamento inumano e degradante il cui divieto – come ha detto la giudice – “è un valore fondamentale di ogni società democratica che si applica in ogni caso, anche a terroristi e assassini”. Parole che fanno il paio con quelle pronunciate dalle autorità politiche dell’epoca, che difendevano il diritto vigente dall’invocazione di una pena eccezionale per l’autore del più grave delitto della storia norvegese contemporanea.

È tutta qui, in fondo, la differenza del diritto penale dalla sua antica ascendenza vendicativa: nessuna giustizia potrà mai fondarsi sulla equivalenza tra la la sofferenza causata dal reato e quella motivata dalla pena. Al contrario, in una società democratica il diritto penale si fonda sulla necessità di contenere l’arbitrio, la violenza e le sofferenze tra i consociati, anche attraverso l’autolimitazione del potere di punire, fino al minimo necessario a evitare – appunto – la vendetta privata e il suo continuo ripetersi in forma di faida. Dobbiamo quindi essere di nuovo grati al sistema penale norvegese per questo ulteriore richiamo ai fondamenti di un diritto penale legittimo. E dobbiamo trarne insegnamento per fare la nostra parte, rinunciando ad abusi ed eccessi che non si giustificano nel pur legittimo esercizio del potere punitivo dello Stato. Un’occasione in questo senso ci è offerta dalla relazione sul 41bis recentemente approvata dalla Commissione per i diritti umani del Senato presieduta da Luigi Manconi.

Potrebbe essere Bernardo Provenzano il nostro Breivik? Provenzano è stato il capo della mafia siciliana dall’arresto di Riina fino al suo, avvenuto ormai dieci anni fa. Da allora è detenuto in regime di 41bis. Eppure, già da qualche anno Provenzano, ormai ultraottantenne, era ricoverato in un reparto speciale dell’Ospedale San Paolo di Milano, in condizioni neurologiche che, secondo i medici, “lasciano supporre un grave decadimento cognitivo”, al punto che due delle tre procure interessate dalla sua attività criminale, non ritengono più necessario il mantenimento del regime speciale di detenzione, non ritenendolo più capace di influire sulle scelte dell’organizzazione criminale. Il Ministro della giustizia invece, confortato dalla Procura di Palermo, ha ritenuto che quella concreta pericolosità sussista ancora e recentemente ha rinnovato per altri due anni l’applicazione del 41bis all’anziano capomafia.

Il 41bis, si sa, comporta condizioni di isolamento per 22 ore al giorno su 24 – nelle restanti due, i detenuti possono andare “all’aria” o nelle “salette di socialità” in piccoli gruppi, eterogenei per affiliazione criminale -, la censura sulla corrispondenza e contatti limitati anche con i familiari più stretti (non più di quattro ore di colloquio al mese, non cumulabili e alternative a telefonate settimanali non superiori a dieci minuti). In un caso analogo a quello di Provenzano la Corte di Cassazione ha ribadito che “il diritto alla salute del detenuto è prevalente anche sulle esigenze di sicurezza” e che anche quando si è in presenza di esponenti di spicco della criminalità, è necessario equilibrare “le esigenze di giustizia, quelle di tutela sociale con i diritti individuali riconosciuti dalla Costituzione”. Quindi, anche nel caso di Bernardo Provenzano il 41bis non può essere applicato indipendentemente dalle sue condizioni di salute o in condizioni tali da soffocarne umanità e dignità: quella umanità che lui ha violato, ma che le istituzioni democratiche – proprio perché opposte al potere mafioso – non ledono, riconoscendola in ciascuno dei suoi abitanti, anche negli autori dei reati più gravi.

Questo, in fondo, è il limite del 41bis, e la ragione della competenza a discuterne della Commissione per la tutela e la promozione dei diritti umani. Ne era ben consapevole il legislatore del 1992 quando prudentemente diede alla norma un termine triennale di vigenza (poi, di proroga in proroga, si arrivò alla stabilizzazione nel 2002). Alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale, della Corte europea dei diritti umani e delle indicazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, ampiamente richiamate dalla relazione del Senato, il 41bis non si giustifica come una pena di specie diversa per autori di gravissimi reati (il “carcere duro” della vulgata politica e giornalistica) ma solo quale misura eccezionale per impedire ai capi delle organizzazioni criminali di continuare a svolgere la loro funzione dal carcere. Non è in discussione quindi la sua legittimità, ma i suoi limiti. I limiti alla frequenza del suo uso, alla durata della sua applicazione e ai suoi contenuti. Al 31 dicembre dello scorso anno erano 730 i detenuti in 41bis, quanti non sono stati mai dal 1992 a oggi: tutti boss capaci di determinare dal carcere l’attività delle organizzazioni criminali di provenienza? Anche quei 190 sepolti vivi da più di dieci anni? Anche quei 29 che ci stanno praticamente da sempre?

La Commissione per i diritti umani ha visitato le sezioni dedicate alla detenzione in 41bis, ha audito magistrati ed esperti e ha stilato una lunga serie di raccomandazioni affinché il regime speciale resti sui binari della legittimità: dal rigoroso rispetto dei presupposti per l’applicazione o per la sua proroga alla eliminazione di inutili divieti al possesso di cose o alle relazioni affettive e familiari, dalla possibilità di svolgere attività intellettive e motorie alla progressione nel trattamento penitenziario che consenta anche ai detenuti in 41bis non solo di non morire, ma anche di non terminare la propria pena in condizioni di isolamento. Certo, non sono cose facili di cui discutere, soprattutto quando si tratta di persone che hanno sulle spalle gravissimi reati, contro le persone e contro la comunità, ma questa è la differenza del diritto.

(*) Questo articolo è tratto da «ius20pg» blog di “informazioni e discussioni animato da docenti, studenti, laureandi, laureati, cultori, ricercatori e appassionati di filosofia, sociologia e teoria del diritto che frequentano il dipartimento di giurisprudenza dell’università di Perugia”. Io l’ho ripreso, con l’immagine, da «Comune Info» che lo presenta così: «Nonostante i giudici lo ritenessero ormai incapace di rispondere in giudizio, Bernardo Provenzano è morto dunque in stato di detenzione sottoposto al regime di 41bis. Con grande lucidità e coraggio per i tempi di giustizialismo che viviamo, Stefano Anastasia – ricercatore di filosofia e sociologia del diritto nell’Università di Perugia, tra i fondatori dell’associazione Antigone – prova qui a ragionare dei limiti e degli abusi del 41bis. Il punto, spiega Anastasia, è che quell’articolo non può essere applicato indipendentemente dalle condizioni di salute del detenuto o in condizioni tali da soffocarne umanità e dignità: “quella umanità che lui ha violato, ma che le istituzioni democratiche – proprio perché opposte al potere mafioso – non ledono, riconoscendola in ciascuno dei suoi abitanti, anche negli autori dei reati più gravi…”. Da leggere assolutamente». Sulla vicenda di Anders Breivik qui in “bottega” consiglio Breivik ha perso, vincendo di Riccardo Dal Ferro. (db)

Redazione
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Un commento

  • Giuseppe Lodoli

    In morte di Provenzano ci voleva proprio una riflessione del genere, condivisibile al cento per cento.

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