Punti e spunti a partire dalla violenza contro le donne

di Gian Andrea Franchi (*)

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1 – Crisi sociale

 La manifestazione di forme acute di violenza contro le donne non può non esser letta nel contesto della grave crisi complessiva attraversata dal nostro paese (per limitar il discorso al contesto in cui viviamo, peraltro, oggi più che mai, dipendente da quello europeo e mondiale), che implica una forte crisi dell’identità maschile in vasti strati sociali. La crisi dell’identità maschile lavorativa, familiare e in ogni altra forma, ha generalmente due sbocchi: depressione o violenza.

 Il pesante aumento della diseguaglianza sociale e del tasso di disoccupazione, inoccupazione e povertà in ampie fasce di popolazione, in particolare giovani e individui di mezza età, la diffusa precarizzazione del lavoro, la diffusione del lavoro a termine (che coinvolge quasi paritariamente uomini e donne); l’impoverimento del cosiddetto ceto medio; la costante riduzione di molteplici aspetti del welfare, come la sanità, le pensioni, l’impoverimento dell’istruzione pubblica…; tutto ciò provoca evidentemente crisi identitarie (di habitus, di status e di ruolo) fra gli uomini, producendo quindi individualità maschili emotivamente molto fragili. Vanno anche considerate le nuove, crescenti e molteplici forme di lavoro di tipo cognitivo che producono identità lavorative meno stabili e più invasive di quelle tradizionali, con conseguente cambiamento del rapporto pubblico/privato.

 Siamo attraversati e trasportati dentro vasti processi di trasformazione le cui conseguenze vanno oltre le capacità di controllo degli stessi centri di potere economico e finanziario che li hanno innescati; processi che toccano nel profondo, necessariamente, soprattutto le forme dell’identità maschile – sessuali, familiari, lavorative, ‘dopolavoristiche’ – prese in mezzo tra i due fuochi simmetrici del ‘privato’ e del ‘sociale’, entrambi in crisi e in cambiamento.

 Sono in atto inoltre cambiamenti radicali dei dispositivi di potere statali e governamentali che modificano in maniera fondamentale gli assetti delle democrazie di tipo liberale – ovviamente pensiamo a quello che ormai da anni accade nel nostro paese in modo più o meno sotterraneo e non solo al tentativo di riforma di una Costituzione già radicalmente modificata -, sottraendo progressivamente la possibilità di ogni anche modesto tentativo di controllo dal basso in forme legali.

 A tali processi di trasformazione va fatto carico, in Europa e altrove, anche delle “crociate neofondamentaliste”, del vasto movimento pro life, del risorgere di forme di neofascismo o fascistizzanti, razziste, nazionaliste, etniche, religiose, dell’irrigidimento di confini, delle campagne contro l’aborto (vedi ad es. Polonia: per il momento ottimamente ribattuta da un’efficace opposizione femminile di base), insomma di accentuazioni patriarcali e statal-nazionalistiche emergenti nella complessità del sociale, che non contraddicono la cosiddetta globalizzazione come residui arcaici, ma ne sono anzi un effetto.

2 – Emancipazione e liberazione

L’emancipazione femminile è prevalentemente un fenomeno delle società occidentali (anche se, in maniera molto più limitata, non solo di esse), in cui oltre a una relativa liberalizzazione del lavoro femminile, c’è una forte crisi del tradizionale istituto familiare con notevole aumento di unioni non istituzionalizzate, omosessuali, ‘single’ con figli, liberalizzazione sessuale (da non confondere con liberazione): anche quest’ultimo fenomeno, in connessione con il primo, induce crisi e violenza maschili.

La liberazione femminile, legata al movimento femminista, è un fenomeno certamente oggi molto più limitato rispetto agli anni ’70 del Novecento. Non ho riscontri tali da consentirmi una riflessione su basi fattuali ben documentate, ma mi sembra ristretto prevalentemente a settori femminili di ceto medio, poco diffuso fra le donne giovani (anche se vi sono qua e là gruppi interessanti, come si può cogliere in internet…), poco irrorato da idee nuove (parlo sempre dell’Italia, altrove il discorso è diverso e complesso), poco influente sull’insieme della società (un esempio potrebbe essere la non prosecuzione degli incontri di Paestum). Tutto ciò rientra nel deterioramento complessivo della società italiana negli ultimi trent’anni.

 Non intendo certamente negare che la liberazione femminile – che c’è stata e, in misura molto minore, agisce ancora – abbia influenzato le condotte maschili, sia spingendo diversi uomini verso un’autoconsapevolezza critica e invece altri al rifiuto della consapevolezza femminile; ma indubbiamente la crisi sociale e culturale è un fenomeno invasivo che comprende, e non può non comprendere, l’insieme della società. E’ del tutto evidente, ad esempio, che in Italia non ci sono state e non ci sono manifestazioni importanti di reazione/azione nei confronti  dei costanti e capillari processi di deterioramento della vita collettiva – ad es. una legge che precarizza il lavoro come da noi il cosiddetto Jobs Act (!) non ha suscitato nessun conflitto, come in Francia. Ciò non esclude che siano in atto, qua e là, resistenze e pratiche progettanti, ma certo non in grado di incidere a livello complessivo e con difficoltà di comunicazione tra di loro.

3 – Critica dell’androcentrismo

Un uomo che, anche attraverso la frequentazione del movimento delle donne, abbia preso coscienza della necessità della critica dell’androcentrismo – parola insieme più precisa e comprensiva di ‘patriarcato’ e di ‘maschile’ – quale dispositivo antropologico centrale delle civiltà e di ogni formazione di potere, dovrebbe essere consapevole che non può bastare un impegno emotivo e la buona volontà razionale di individui e gruppi, ma che una dimensione costitutiva dell’umano, come appunto l’androcentrismo, è attivo in ogni uomo, ben oltre la sua consapevolezza. L’androcentrismo inoltre è responsabile del carattere normativo dell’eterosessualità, data come forma naturale della sessualità, con relativa discriminazione di sessualità altre, anche quando vengano istituzionalizzate e tollerate o incluse.

Si tratta allora per noi uomini di costruire una critica dell’economia androcentrica, una intelligenza e una pratica critica e autocritica nei confronti della propria soggettività e dei contesti sociali in cui si manifesta, sia in termini di pratiche quotidiane, che in forme gruppali del tipo autocoscienza, che di impegno pubblico; e di cercare/inventare i modi politicamente più efficaci di pensiero/azione, nella consapevolezza che la matrice della violenza visibile, anche nelle sue forme acute come il cosiddetto ‘femminicidio’, è la violenza simbolica o epistemica dell’androcentrismo: quella cioè diffusa in tutti i pori della società e nell’intimo degli individui, annidata nella dinamica delle emozioni, nella struttura del linguaggio e del pensiero.

A me pare che, oltre ai gruppi di autocritica del maschile[1] e di intervento sulla violenza maschile, sarebbe opportuno cercar di costruire gruppi politici di base d’intervento sociale complessivo, che abbiano al loro centro la critica dell’androcentrismo quale relazione sociale originaria, fondatrice del dispositivo ‘potere’ come forma dominante di ordinamento del sociale. Un conto è la formazione di gruppi che si occupano della violenza maschile, palese e no; un altro è la formazione di gruppi politici, non composti solo da uomini, che mettano al loro centro il carattere androcentrico dell’ingiustizia sociale, articolata nei tre principali dispositivi storici di potere: genere, razza, classe.

I due livelli dovrebbero essere complementari. A mio parere, il primo senza il secondo rischia di essere facilmente risucchiata in modalità parziali che non toccano le radici dell’androcentrismo e quindi della violenza sulle donne, invece che in pratiche di liberazione; e il secondo dal rapporto con il primo può acquisire esperienze di dialogo e di confronto con la sofferenza, la conoscenza di dinamiche concrete. E’ indispensabile inoltre tener conto che, fra le nuove dinamiche sociali negative (indicate in parte sopra), significativa è la diffusione di varie forme occulte e palesi di razzismo, che recenti grotteschi episodi, come quello del paese di Gorino, hanno solo esemplificato: che cosa è il razzismo se non una forma acuta di androcentrismo, che sta emergendo di fronte al rovinare anche sull’Europa della politica occidentale sul Medioriente? E che cos’è l’androcentrismo se non la matrice di ogni razzismo che le nuove migrazioni, di carattere più evidentemente politico, estraggono dai pori della società e degli individui?

4 – Androcentrismo ed eterosessualità

Un’altra questione importante è quella messa in campo dal pensiero e dai movimenti transfemministi e queer, ancora poco diffusi in Italia (di cui un riferimento teorico significativo è Judith Butler), per cui la critica radicale dell’androcentrismo implica necessariamente anche quella dell’eterosessualità, intesa come comportamento normativo e normale, anche nei paesi con leggi e comportamenti più emancipati, in quanto fissazione antropologica di schemi relazionali ed erotici dominanti, imperniati sull’eterosessualità storica, intrinsecamente legata all’androcentrismo. Solo andando nella direzione di una effettiva liberazione sessuale, legata necessariamente ad una trasformazione sociale complessiva, che comprendesse la pari dignità sociale di comportamenti sessuali ed erotici eterosessuali e non eterosessuali, comporterebbe processi di liberazione anche del rapporto eterosessuale inteso allora come una delle possibili forme di relazione affettiva ed erotica. Chi si occupa ad es., della violenza maschile, che implica il dominio dell’eterosessualità come norma, non può non considerare la violenza contro omosessuali, trans, queer…

Ciò implica anche la messa in discussione dei legami sociali di base, come la famiglia, già in crisi per conto suo nella forma nucleare tardonovecentesca, e la coppia. Bisognerebbe pensare e, ovviamente dove possibile, praticare nuove forme di relazione anche in rapporto alla nascita, quindi alla paternità certamente, ma anche alla maternità, alla sessualità e alla coppia (tematiche presente negli anni Sessanta-Settanta del Novecento). Ci possono essere forme di convivenza affettiva non legate alla coppia, forme di maternità/paternità diverse non solo per le coppie omosessuali? Può esserci una sessualità non legata alla coppia (in cui sempre possibili forme di gelosia indicano ancora una dimensione di possessività)? E un accudimento amoroso per i figli in forme diverse da quelle della coppia e dalle due figure parentali dominanti? Non sarebbero queste tematiche importanti da tener presenti dentro la critica pratica all’androcentrismo?

Può sembrare che metter tutta questa carne al fuoco rischi di dare un senso di genericità e d’impotenza. Il punto è che per agire in situazioni specifiche – ad es. scegliere con consapevolezza critica di mettersi in coppia e fare un figlio o intervenire pubblicamente sulla violenza contro le donne – bisogna sempre aver presente il quadro e la prospettiva dell’insieme che non sono un semplice sfondo, ma agiscono e determinano lo specifico dell’intervento concreto, altrimenti esso diventa un’isoletta narcisistica di gruppo e/o un utensile dell’integrazione.

ottobre 2016

[1] Una tematica a mio parere particolarmente importante è l’analisi delle dinamiche di gruppo che inevitabilmente – sembra – tendono a spingersi verso forme di micropotere: tema che peraltro riguarda anche gruppi di donne; ma ritengo che la matrice del dispositivo-potere in generale sia androcentrica.

(*) ripreso da Maschile Plurale

 

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