qualche poesia e racconto di Anna Fresu

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In quale lingua 

In quale lingua
mi accoglierà il tuo sguardo
scandirai le mie ore 
con racconti di fate e di misteri
al gioco mi aprirai
e alla conoscenza.

In quale lingua 
imparerò per te
il canto dell’amore
le parole leggere
spese lungo il cammino
e intorno al fuoco.

In quale lingua 
varcherò i confini
del mare e del ricordo
legherò l’odio
per lasciarlo al vento

custodirò sapore e senso 
di questa libertà
vedrò i miei figli 
crescere e partire

sentirò che il mio tempo 
è tramontato
e ancora chiederò:

“In quale lingua
dovrò dirvi -Addio”

Agli inizi ero contento di andare a scuola. Mamma era contenta, diceva che avrei imparato tante cose nuove che poi mi sarebbero servite nella vita. Ma già dal primo giorno avevo cambiato idea. Il maestro era proprio antipatico, senza un sorriso, con la voce dura. Proprio come mio padre. La cosa peggiore è che ci ha detto subito che dovevamo parlare solo in italiano. Ma, chi lo sapeva l’italiano! Io e i miei compagni parlavamo come le nostre madri ché con i nostri padri non ci parlavamo o meglio loro ci parlavano solo per sgridarci, per dirci “fa’ questo, fa’ quello”. E quando ci interrogava, il maestro, – anche una domanda semplice che capivamo benissimo – stavamo zitti per paura di sbagliare. Qualche volta ci provavo a rispondere – ché non mi andava di sentirmi chiamare scemo – bastava un piccolissimo errore, che so, una “u” al posto di una “o”, una doppia dove lui diceva che non c’era, che ti beccavi una bella bacchettata sulle dita che per giunta in inverno erano piene di geloni, e ti faceva un male boia. Speravo che almeno in cortile, durante la ricreazione, potessimo parlare fra di noi in dialetto – che poi mi hanno spiegato che era addirittura una lingua, che ci avevano scritto anche la Carta de Logu, con tutte le leggi – e invece no, se ti sentiva parlare così ti arrivava alle spalle e ti dava uno spintone o ti tirava le orecchie fino a fartele diventare rosse rosse. E mi’ che il maestro Fadda non era nemmeno continentale, era del Campidano (e ce l’aveva anche lui l’accento, eccome) però è vero che se parlava in campidanese magari lo capivamo ancora meno. E poi chi si credeva di essere questo maestro Fadda, mica era meglio del prete che le prediche le faceva in sardo e che l’italiano lo usava solo quando era arrabbiato, come quella volta che dal pulpito se l’era presa con mia sorella piccola, chiamandola per nome e per cognome (e quando mai!) perché aveva legato le punte delle faldette delle donne che stavano sedute sulla scala tutte prese ad ascoltare le parole del prete. E nemmeno era meglio di mio nonno Antoni Vizente che era il primo cantore della chiesa e cantava in logudorese i canti di Natale e della Quaresima. Nonno lo nomino solo per questo, perché per il resto era un gran bastardo, pieno di soldi e di poderi, però a mia mamma l’ha fatta morire di fame perché non aveva sposato chi voleva lui e quando io sono andato nel suo frutteto a prendere le mele per mamma che stava male mi ha chiamato ladro e mi ha riempito il sedere di pallettoni di sale col suo fucile.
Insomma, un po’ per paura delle bacchettate, un po’ per orgoglio – e di quello a noi sardi non ce ne manca – l’italiano l’ho imparato prima degli altri. Solo che se mi scappava qualche parola in italiano a casa era mio padre che si arrabbiava e mi chiedeva cosa mi ero messo in testa. E io qualcosa in testa ce l’avevo davvero, soprattutto dopo che è morta mamma. Me ne volevo andare da quella casa, dalle botte e dalle urla di mio padre, dai secchi pieni di cemento e dai mattoni che mi faceva caricare, senza mai un grazie, figurati una lira. Volevo lavorare ma non un lavoro qualunque; volevo un lavoro dove potevo continuare a studiare, a imparare, a guadagnare un po’ di soldi da mandare a mia zia per le mie sorelle. E allora me ne sono andato in Marina e lì l’italiano mi è servito se no come facevo a parlare con un calabrese, un ligure, un napoletano. Però quando incontravo un sardo, magari delle mie parti, era una festa e non solo perché saltava sempre fuori un pezzo di pecorino o magari di formaggio con i vermi o un salzizzeddu col finocchietto. Appena potevamo ci mettevamo a parlare nella nostra lingua e quand’eravamo in franchigia pigliavamo una chitarra e una mandola, che poi era quello che suonavo io, e cantavamo le belle canzoni delle nostre feste, quelle che cantavamo in campagna attorno al fuoco mentre intanto arrostivamo un capretto o un maialino rigorosamente sotto una coltre di rami di mirto e di lentisco e coperti terra. E lì meno male che gli altri, soprattutto i nostri capi, non ci capivano perché alcune canzoni ci andavano giù pesante – e non parlo di quelle un po’ sconce, che c’erano anche quelle – ma di quelle in cui la nostra gente aveva riversato tutta la sua rabbia, il suo rancore contro le ingiustizie, le dominazioni (e sì, pure quella dei sabaudi che in quel momento dovevamo servire).
Mi è servito quando ho fatto le Scuole a La Maddalena e lì il dialetto era un po’ corso un po’ gallurese e in quell’isola poi ci ho passato molti anni, mi sono fidanzato, sposato, ci ho fatto nascere mie figlie. Al lavoro, con gli amici parlavo in italiano; con Maria, mia moglie, e Michela, sua madre, parlavo in logudorese. Anche loro erano venute via dal mio paese e, certo, Maria era bella e in gamba ma il fatto che venisse dal paese, che avessimo tanti ricordi in comune, che parlasse come me, era un valore in più. Maria era “poliglotta”, parlava benissimo l’italiano – è sempre stata una gran lettrice, come me del resto- e anche il maddalenino. Quando poi sono nate le nostre figlie abbiamo continuato a parlare in sardo fra di noi ma con loro sempre in italiano perché volevamo che andassero bene a scuola e si prendessero anche la laurea. E così è stato. Però certo un po’ mi è dispiaciuto e sono stato contento quando anche loro hanno cominciato a cantare le nostre canzoni (quelle quand’erano piccole gliele cantavo anche io tenendole sulle ginocchia, niente era meglio di un “duru duru”) e a leggere i nostri poeti. Poi, negli ultimi anni a Roma, quando mia moglie se n’è andata e anche le mie sorelle e l’unico amico sardo che mi era rimasto, ho parlato sempre meno e solo in italiano. Mi consolavano a volte i libri che Vladimiro, un amico di mia figlia, mi portava, con storie e poesie della mia terra, scritte nella lingua di mia madre e mi capitava anche di scoprire che uno di quei poeti, di quegli scrittori, era stato un mio caro amico che da ragazzo quei versi li recitava attorno al fuoco.

Una sera di gennaio anche mio padre se n’è andato. Avrei voluto che il suo ultimo saluto fosse accompagnato dall’Ave Maria in sardo cantata da Maria Carta, ma il parroco della chiesa del nostro quartiere non me l’ha permesso.

E allora, babbo, te l’ho cantata io “Deus ti salvet Maria”, l’Ave Maria nella lingua di tua madre, con la mia pronuncia imperfetta, col pianto nella voce, con quell’amore che di lingue, lo sai, ne parla tante.

da qui

 

 

Mia madre 

Di mia madre
È rimasto il suo sorriso,
il canto del mattino,
l’arma bianca della parola
contro l’ingiustizia,
il racconto di maggio:
di un vestito fatto di seta
di paracadute,
il viaggio di nozze
su un carretto,
il tempo lento e lieve
in riva al mare
appeso a un filo
in una cruna d’ago.
Mio padre in mare
mesi giorni ed anni.
Lei madre e padre
all’ombra di un braciere
a tessere i legami
e le memorie.
A cucire col canto
il mio futuro.

 

La mia casa valigia

La mia casa è racchiusa in una valigia, la porto sempre con me ovunque vada. Ha pareti che cambiano, che si dilatano, si restringono. La mia casa ha lo stesso nome in molte lingue. Ma non in tutte. Il nome è lo stesso in tutti i luoghi che ho abitato. E questo è un conforto. La mia casa a volte è piena, a volte vuota. Piena delle memorie e dei giorni, vuota del tempo che resta e di tutte le assenze. La mia casa ho spazzato di tutti i rimpianti e a volte anche delle speranze. La mia casa è sola o vicina alle altre. Così strette che si fanno compagnia. A volte è troppo grande, a volte troppo piccola. La mia casa mi riflette, mi assomiglia. Porta tracce di voci e di corpi. Ha sempre porte e finestre mai chiuse, pronte all’attesa, all’incontro. Ha pareti di libri e di storie, una bocca per raccontarle. Ha lacrime appese al soffitto come gocce di cristallo. Brillano e non si muovono. Ha risa che battono contro i vetri delle finestre. Risa e lacrime non solo mie. La mia casa ha il gusto del  mare, di onde, di sale. I sette colori delle montagne, di pietra e rocce, di cime mai scalate. Ha il sapore del mirto e della papaya, di vino buono e acajù. Sa di pioggia e di vento, di raggi di sole. Certe volte non ha voglia di viaggiare e vorrebbe restarsene lì ben piantata sulla terra. Ma non faccio fatica a convincerla e piano piano, prima mestamente, riprende il suo posto in valigia. E forse ci pensa su, perché dopo un po’ la sento ridere e la guardo dormire sognando nuovi confini.

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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