Raffaele Mantegazza: «Con tutti i nostri colori»

Per creare un nuovo pensiero, una nuova resistenza, una nuova utopia occorre fantasia: lo strumento principale di quello che da qualche anno chiamo pedagogia della resistenza. Mobilitarci e mobilitare per un mondo diverso significa dare luogo a una festa della pace, della giustizia e della vita; significa avere il sorriso grintoso e la rabbia sorridente che sono stati propri di tutte le lotte operaie, studentesche, popolari, soprattutto femministe; significa ritrovare la creatività che un pensiero di sinistra o anche semplicemente democratico deve avere per  contrapporsi alla grigia violenza del cinismo e del nichilismo. Nuovi linguaggi, un nuovo pensiero. Per esperienza credo di sapere che soprattutto i giovani chiedono questo pensiero: ne chiedono il rigore e la pazienza ma anche l’urgenza e la bellezza.

Per questo denunciare non basta; è necessario ma assolutamente non sufficiente. Occorre cantare un diverso futuro. Mutare la denuncia in canto significa praticare una attenzione alla forma della denuncia stessa, forma che non può essere dettata dall’esterno, non più scopiazzare il dominio nei suoi linguaggi; violenti, urlati, sessisti. Una poesia contro lo sfruttamento, una canzone contro la vivisezione non possono essere solamente urla; un film su Auschwitz non può essere solamente la rassegna delle immagini delle pile dei cadaveri in attesa di essere cremati. Trasformare la denuncia in canto, in opera d’arte  significa cercare parole ingentilite e cantate per dire che cosa non va, che cosa non può più continuare così; non si possono usare mezzi violenti  -nemmeno verbali- per denunciare la violenza: questo è un altro contenuto di verità del pensiero nonviolento.

Denunciare significa anche scrivere poesie e fare della propria vita qualcosa di simile a una poesia: opporre alle parole gutturali del fascismo e  del dominio la parola gentile e quasi pudica del tocco di colore, della rima baciata, del contrappunto. “Prendimi così con tutti i miei colori” diceva una canzonetta di moda sulle spiagge qualche estate fa: e quali sono i nostri colori? Una protesta in bianco e nero, una protesta in grigio è troppo poco;   perché grigia è la morte, nere sono le camice che speriamo di non dover più rivedere. Ritroviamo la follia e la passione di colorare le nostre lotte, di colorare la nostra voglia di pace, di giustizia, di salvaguardia del creato; cerchiamo e produciamo parole nuove, soprattutto  parole che sappiano osare, che non lascino spazio alla paura di spiegare –anche alla inevitabile tentazione di cercare di spiegare tutto. Raccogliamo il coraggio e la fantasia e poi iniziamo: a colorare la lotta, a rivoluzionare il vocabolario (o saremo proprio noi ad avere paura delle rivoluzioni?) a dire ai ragazzi con la voce, col gesto, col canto che non è vero che andrà sempre così.

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