Raffaele Mantegazza: perdenti?

E così siamo perdenti. In una precedente discussione su questo blog si è adombrata questa possibilità. Altrove si dice che coloro che hanno lottato per ideali di democrazia, uguaglianza, cambiamento sociale sono perdenti. Non si dice che “hanno perso” ma proprio “sono perdenti”. Il buon Hegel diceva “La storia del mondo non è il tribunale del mondo”, volendo significare che una idea, un principio, una posizione vinca –attraverso elezioni, battaglie, guerre- non significa sia migliore di quella che ha perso. Del resto, mi sembra tipico del pensiero laico, democratico e anti-totalitario fare propria la posizione gandhiana secondo la quale anche se esistesse una sola persona al mondo a sostenere un’idea, quell’idea non potrebbe essere definita sbagliata; per noi questo vale anche se, almeno momentaneamente, non ci fosse nessuna persona al mondo a sostenere quell’idea. Sostenere che una  idea  è perdente è possibile solo occupando una impossibile posizione alla fine del mondo, o peggio  occupando il posto di Dio che fonde tempo ed eternità. Peraltro, perdenti erano i cristiani a un certo punto della storia dell’Impero romano, perdenti erano i neri sudafricani e si potrebbe continuare all’infinito.

Il dato di fatto però è che per ora non abbiamo vinto; le idee di libertà, emancipazione dell’ultimo, espropriazione degli espropriatori, le utopie per le quali tante generazioni hanno lottato (e ancora lottano, occorre sottolinearlo, soprattutto ad altre latitudini) non sono certo compiute. Perché erano sbagliate? Forse: ma allora sono sbagliate le idee socialiste, le autentiche idee laiche e democratiche, le idee di giustizia sociale che stanno alla base di giudaismo, cristianesimo, islam e di buona parte delle cosiddette religioni orientali; era sbagliato il mondo del pensiero, aveva invece ragione il mondo degli interessi materiali, la “guerra di tutti contro tutti”. Ci permettiamo di dubitarne fortemente.

Se queste idee non hanno (per ora) vinto però, qualche difetto c’è stato. E mi sembra che per aprire un dibattito possano bastare alcune considerazioni:

  1. La lotta armata (mi rifiuto di chiamarlo terrorismo: terrorismo per definizione è l’atto di uccidere persone innocenti per scatenare…non si sa bene cosa; la lotta armata sceglie i suoi obiettivi. Due logiche folli, non c’è dubbio, ma di due ordini di follia differenti. La Strage di Piazza Fontana non è la stessa cosa dell’assassinio di Tobagi. Senza che venga meno l’assoluto orrore per ambedue). La lotta armata, dicevo, ha commesso quello che secondo il pensiero nonviolento è l’errore più grave: non adeguare i mezzi ai fini, usare la violenza per combattere la violenza. Tutto sacrosanto; facile però dirlo adesso. Si sta parlando di giovani che hanno visto i loro amici massacrati dalle bombe fasciste in Piazza della Loggia a Brescia (nella quale, è il caso di ricordarlo, si stava tenendo una manifestazione antifascista) e poi sono stati messi in galera come esecutori della strage, ragazzi che vedevano le forze dell’ordine  ignorare se non sostenere apertamente i fascisti; se la lotta armata è stato un errore, quanto coraggio e quanta lucidità ha invece avuto chi non l’ha scelta, né ha scelto di ripiegarsi sul privato ma ha continuato la lotta democraticamente? Eppure mai se ne parla.
  2. la scelta parlamentare e istituzionale, almeno dalla svolta di Salerno in poi, è sembrata indiscutibile. “La lotta va condotta con il partito all’interno delle strutture” chiosava un giovanissimo Vasco Rossi. Ma questa scelta, così apparentemente ovvia da essere poi compiuta anche dai gruppi ex-extraparlamentari, ha avuto costi altissimi, perché gestita male. Consociativismo, attitudine al compromesso, ricerca di alleanze impossibili fino al centrismo scatenato degli ultimi anni, incapacità di essere realmente là dove sono le lotte; questo è stato il costo di scelte strategiche (non era scontato che finisse così) di cui paghiamo il conto ancora oggi. Perché l’operaio del  Nord vota Lega? Perché è razzista, certo (io al Nord ci vivo, non raccontiamoci balle). Ma perché è razzista? Perche il Pci e  quel guazzabuglio che è venuto dopo hanno rinunciato a fare quello che una volta si chiamava “scuola di partito”  limitandosi a cercare voti (i voti moderati!) ogni 5 anni senza però essere nelle lotte, farle crescere, dare loro direzioni precise. Scrivere queste cose alla fine degli anni Sessanta mi sarebbe costato un rimbrotto dagli spontaneisti che dicevano che “la rivoluzione non la fa il partito ma il proletariato autogestito”. E’ stata questa contrapposizione l’errore capitale: non si tratta di scegliere tra lotta fuori o dentro le istituzioni, fra essere nelle lotte o guidarle, ma di fare tutte e due le cose  senza cadere nell’improvvisazione priva di guida o in quello che Gramsci parlava cretinismo parlamentare. Si tratta di partecipare attivamente e in modo unitario e umile alle lotte di base, ma anche di portare queste lotte a livello istituzionale, anche  nei Palazzi del Potere quei palazzi che dobbiamo smetterla di considerare snobisticamente e provare ad abitarli. Anche per sgretolarli dall’interno.
  3. Da dove iniziare? Scherziamo? Il neorazzismo nazistoide di Lega e amici vari, la questione morale (eh, sì, morale, altra parola che a sinistra si confonde con moralismo, dimenticando che esiste una morale rivoluzionaria), l’attacco al lavoro, il precariato, lo sfruttamento della donna, il disinteresse totale per la sorte dei minori, le carceri, gli ogm, i Cpt (ora Cie)…occorre che ognuno di noi scelga l’argomento, il tipo, la forma della lotta e ci si butti, per poi confrontarsi con gli altri e cercare di portare tutto questo –che è già politica- al livello della politica istituzionale. Oppure,  ed è una scelta condivisibile anche se rischiosa, restare fuori dalle istituzioni e avere la fantasia rivoluzionaria che ci permetta di inventare qualcosa di nuovo che non assomigli alla P38.

Ma intanto per favore rispettiamoci tra di noi. La politica dell’insulto è di destra, fascista, nazista: perché Cacciari e la Bresso, Grillo e Santoro non lo capiscono? Se la parolaccia aveva un senso rivoluzionario nell’Inghilterra vittoriana (ne dubito) oggi è solo acquiescenza al potere e conformismo. Iniziamo a lottare e a trovare le parole giuste per parlare almeno tra noi. Se nemmeno tra noi ci capiamo, come possiamo pensare che ci capiscano gli altri? Che ci capisca cioè quel mondo che cerchiamo ancora, tenaci sconfitti ma non  perdenti, di rendere a misura di uomo, donna, bambino, animale e pianta.

Redazione
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2 commenti

  • Condivido molto (su ciò che non condivido farò un commento “a freddo”)l’impostazione dell’intervento di Mantegazza sia sul concetto di “perdenti” sia sull’estensione “gandhiana” della lotta politica che fu ed è dei “perdenti” stessi. In particolare, non sono d’accordo che ci sia una generazione che abbia perso (come diceva l’ottimo Gaber). In democrazia si esercita il diritto di lanciare messaggi politici, di indicare opzioni morali, di fare proposte per migliorare in concreto le condizioni di vita degli esseri umani. Il fare questo è di per sè vincente.
    Quanto sopra è la premessa “a caldo” del commento che farò a freddo perchè l’intervento di Mantegazza – di cui non condivido solo “l’esprit de nostalgie” – merita davvero di essere approfondito.

  • Non cercare il fiore della libertà
    nel giardino del poeta
    o nell’orto del coltivatore di certezze
    e nemmeno nel libro del grande sapiente
    o nel pensiero adamantino dello scienziato.
    Non cercare lusinghe di libertà
    nelle forme dello stregone di sempre
    o nelle maschere degli amministratori della violenza
    e tanto meno nella dolce prigionia d’amore
    o nella spregiudicatezza dei tuoi sogni.
    Non cercare traccia di libertà
    nella totale dipendenza del tuo sangue
    o nell’infinita esistenza di mondi
    eternamente schiavi di un Sole.
    Ma se nella prigionia dell’esistere
    vorrai ancora cercare…

    S.A.

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