«Ragazze elettriche» in un mondo elettrico

Nel romanzo di Naomi Alderman il perno del potere maschile passa nelle mani delle donne

di Francesca Fiorletta (*)

Quanti miracoli ci vogliono? Non tanti. Uno, due, tre sono già molti. Quattro sono un’enormità, persino troppi. 

Naomi Alderman ha scritto un romanzo violento, brutale, angosciante. «Ragazze elettriche», appena pubblicato da Nottetempo Edizioni, è un viaggio senza ritorno – e senza miracoli – nell’intolleranza di genere.

Ispirato dalla lettura de «Il racconto dell’ancella», e supportato nella stesura dalla stessa Margaret Atwood [“che ha creduto in questo libro quando era ancora allo stato embrionale”, così scrive Alderman nei Ringraziamenti] «Ragazze elettriche» è un romanzo che ruota sostanzialmente attorno al pericoloso quanto invitante perno del potere. 

Un potere che, in una società secolarmente maschilista, per una volta s’immagina passare nelle mani delle donne. O meglio, a ben vedere, s’immagina letteralmente defluire dai palmi e dalla punta delle dita delle donne, per andare a irrorarsi e propagarsi a macchia d’olio, proprio attraverso una serie di vivide e adrenaliniche scariche elettriche.
Le protagoniste dei primi episodi di questo tipo – le primissime giovani donne che sperimentano su di loro questo mirabolante
potere appunto – sembrano a prima vista delle perfette vittime designate: vittime della violenza e della brutalità maschili, vittime del disamore, della cecità, prede molto coscienti del fuorviante vuoto pneumatico che attanaglia le loro vite.

Quest’elettricità, queste scariche furiose con cui sono in grado di colpire i loro simili, e specialmente gli uomini, sembrano dunque il giusto e meritato risarcimento per le loro disgustose sofferenze, nonché per le sofferenze millenarie che tutte le donne sono state sempre costrette a subire. Ma – ci si chiedeva all’inizio – Quanti miracoli ci vogliono?
E soprattutto, qual è il confine fra difesa e attacco? Tra raziocinio e follia?
Questo romanzo analizza, e lo fa in modo assolutamente cruento, forse addirittura spiazzante se si pensa che la mano che conduce la trama è una mano femminile, tutti gli scarti possibili fra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, fra il bianco e il nero, l’integrazione e l’intolleranza.

Il tema è: di quanti uomini abbiamo davvero bisogno? Riflettete, dicono. Gli uomini sono pericolosi. Gli uomini commettono la maggioranza dei crimini. Gli uomini sono meno intelligenti, meno diligenti, meno tenaci, hanno il cervello nei muscoli e nell’uccello. Gli uomini vanno più soggetti alle malattie e prosciugano le risorse del Paese. Ovvio che sono indispensabili per fare i bambini, ma per quello scopo quanti ce ne servono? Non tanti quanto le donne. Naturalmente, per uomini buoni, puliti, ubbidienti, ci sarà sempre un posto. Ma quanti ce ne sono? Forse uno su dieci. 

Ecco il risvolto, ugualmente maniacale, parossistico e dittatoriale, del regime – anch’esso distopico, anche se in maniera forse meno evidente – che incontriamo ne «Il racconto dell’ancella» di Margaret Atwood, in cui le donne venivano divise in caste, giudicate “buone” o “cattive” [tendenzialmente con lo stesso rapporto di “uno su dieci”] e utilizzate letteralmente al solo scopo della procreazione.
Ma possono gli uomini diventare tutti indistintamente nemici da abbattere, torturare, (e sì) violentare? Può l’odio secolarmente represso nella sfera femminile invadere così tanto la stirpe umana, da trasformare il mondo intero in uno scenario lugubre di guerriglia più o meno legalizzata?
Ovviamente no, ma il punto non è questo. Il punto è ancora – e a maggior ragione vien da chiederselo, dopo la lettura di quest’intenso romanzo di Naomi Alderman – di quanti miracoli avremmo bisogno per far convivere civilmente le sacrosante differenze di genere.

[L’autrice è stata ospite del Festival Letteratura di Mantova venerdì 8 settembre parlando del romanzo con Michela Murgia.]

(*) ripreso da «Nazione Indiana» 

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