«Reparto numero 6»: due racconti (oltre Cechov)

di Giuseppe Callegari

Il 29 gennaio 1860 nasceva Anton Cechov. Ecco due racconti ispirati ai due personaggi principali di quel bellissimo (è un eufemismo al ribasso) libro che è  «REPARTO N. 6»

IVAN DMITRIC GROMOV

Faccio l’università a Mosca, vengo da una famiglia benestante, che possiede una casa, in proprietà, nella cittadina in cui viviamo. Studio, ho soldi in tasca, mi diverto, insomma, tutti gli ingredienti per essere felice. Poi, in poco tempo, l’incantesimo comincia a vacillare: problemi famigliari, di salute ed economici, mi impediscono di ricevere il denaro che ritenevo mi fosse dovuto per volontà divina. Torno a casa e trovo lavoro come maestro, ma le cose non funzionano, né con gli allievi, né con i genitori e, quindi, dopo poche riprese, getto la spugna. Ma non mi rattristo più di tanto, qualcosa troverò, prima o poi. Accetto di fare l’usciere in tribunale, sono benvoluto da tutti, mi piace quello che faccio, coltivo la mia passione per la lettura. Mi sento appagato. Poi, un giorno, mentre passeggio, vedo alcuni detenuti incatenati e scortati dalle guardie. Un tarlo comincia trivellare il mio cervello. “Perché è toccato a loro e non a me? Quali le loro colpe e quali i motivi e le cause da cui traggono origine le loro disgrazie? La mia tranquillità finisce in quel momento, quando mi chiedo l’origine di scoscesi percorsi su crepacci, sotto il sole, in salita, dove non è possibile intravedere né l’inizio, né la fine di una notte fredda come il gelo. Mi chiedo il perché, invece, ad altri è concesso di camminare su viottoli profumati, con fiori che si ergono e piegano per essere raccolti. Comincio a vedere paesaggi lunari, crateri sparsi, proiezioni di ombre gigantesche. Le mie allucinazioni sono medicate da inutili grida, che accompagnano l’onnipotente rappresentazione di quel misterioso lembo che sta fra l’inizio e la fine. Intorno a me, l’assenza di domande fa da eco a improbabili e improduttive risposte e finestre, accuratamente chiuse, nascondono ombre di rumori. Mi avventuro in strade labirintiche e anche i ricordi mi lasciano solo, perché l’uscita è la corsia psichiatrica numero sei di uno sporco ospedale della Russia zarista. Qui, la malattia non viene curata, si preferisce eliminare l’uomo. Cerco di spiegarlo al direttore dell’ospedale. Ma lui non comprende che il silenzio è la colpevole casa dell’indifferenza, perché il desiderio della pancia e del cuore è sconfitto dalla paura della mente. Nessuna luce, anche la più luminosa, riesce a dare luce il cinico sepolcro quotidiano. Tutto si perde nella nebbia ovattata che circonda il suo grigiore. Continua a venirmi a trovare, vuole parlare, credo si sforzi, ma non riesce a dare un volto alla mia disperazione. Vorrei diventare una lama tagliente, vivisezionarlo, per comprendere se mai ha avuto il soffio della vita. Poi, col passare del tempo, smette di parlare, mi ascolta e accetta, con un sorriso, i miei insulti. Quando lo guardo, mi pervade un senso di rabbia e sgomento, perché lui è ancora fuori, ma sono sicuro, che quando i nostri sguardi, finalmente, si incontreranno senza filtri predisposti all’uopo, lui non potrà più scegliere di venirmi a trovare, perché sarà rinchiuso insieme con me. Purtroppo vedrà la luce: avrà compreso che chi si è arrogato il diritto di decidere le regole deve necessariamente eliminarci, la nostra lotta non può essere accettata dall’immondizia del potere. Siamo divorati e dati in pasto a tutti quegli esseri grigi, che riescono a dare un senso alla loro inutile vita scacciando le mosche, che si avventano prima di loro per cibarsi della nostra carne defecata.

ANDREJ EFIMYC RAGIN

Sono figlio di un medico ed esercito la stessa professione, come direttore di uno sporco ospedale della Russia zarista. All’interno della struttura ospedaliera, c’è un padiglione, la corsia numero 6, dove sono rinchiusi 5 folli: un ebreo, l’unico che ha il permesso di uscire per chiedere l’elemosina, che è impazzito quando si è incendiata la sua fabbrica di cappelli; un uomo alto e magro, considerato ipocondriaco e, invece, affetto da paralisi progressiva; un contadino grasso e sudicio, ridotto a uno stato bestiale, un ex impiegato postale e Ivan Dmitric Gromov, che non avrebbe motivo di essere qui. E’ un inguaribile pessimista pervaso da una profonda malinconia, ma ama profondamente la fatica e il dono di poter discernere e considera l’onestà la dote fondamentale di un uomo. Questi malati non sono curati, se non dal guardiano, Nikita, un vecchio soldato in congedo, che conosce solo le ragioni della forza, della sopraffazione e dell’annientamento dell’altro. Non sono un coraggioso, so che l’economo ruba, causando danno ai malati, ma taccio e, soprattutto, non metto mai piede nella corsia numero 6, finché, una sera di marzo, riaccompagno dentro l’ebreo, che, al ritorno dalla questua, ha i piedi sanguinanti. Entro nel reparto e conosco Ivan Gromov, che mi accoglie con un caloroso: “Rettile maledetto”. Mi giustifico, almeno cerco, chiamando a mia difesa il fatto che non rubo, che cerco di rispettare tutti, ma lentamente sono avvolto dalla tela che l’uomo tende intorno a me. Gli dico di calmarsi, che è malato e lui mi sputa addosso che ci sono centinaia di pazzi che girano in libertà e solo l’ignoranza dei benpensanti è incapace di distinguerli dai sani. Il giorno dopo ritorno a trovarlo. Non mi accoglie bene, ma poi comincia a parlare di Dostoevskij, di Voltaire, di Marco Aurelio, di Diogene e dell’impotente rabbia che si porta addosso. Cerco di consolarlo, presentandogli le ragioni dell’insulsa strada che sta nel mezzo e che ci permette di sopportare la vita E lui grida che quanto più in basso sta un organismo, tanto meno è sensibile e tanto più bassa è la reazione che da agli stimoli esterni; e, quanto più in alto sta, tanto più è recettivo, e con tanta più energia si confronta con la realtà. Mi alita addosso che lui reagisce: al dolore risponde con le grida e le lacrime, alle bassezze con lo sdegno, alla turpitudine con la nausea. Da quel giorno ritorno nel padiglione tutti i giorni. Ivan mi aggredisce, ma, poi, prima di una nuova aggressione, parliamo con parole di pudore, rabbia, misantropia, melanconia, euforia, lucidità, follia, che sono le uniche medicine capaci di alimentare il rapporto con l’altro. Non posso dire che Ivan stia diventando un amico, ma sicuramente una persona importante. Nella mia vita tutto è stato grigio, io stesso sono grigio e adesso, oramai quasi vecchio, con lui, sto imparando a scorgere i primi bagliori di colore. Ma gli spaventapasseri umani, che, con il marchio della bassa qualità, possono decidere e stabilire chi è dentro e chi è fuori, non gradiscono che vengano abbattuti i granitici confini fra vero e falso, gioia e dolore, odio e amore, diversità e normalità. E allora gli abitanti della città, la mia stessa domestica, cominciano a guardarmi con espressioni che sanciscono la fine di un percorso comune. Il sindaco mi invita a un ricevimento, qui un giovane e antipatico dottore mi chiede se sono in grado di dirgli quale sia il giorno della settimana, del mese e dell’anno. E allora mi viene spedito a casa Michail, un amico, che mi convince delle mie precarie condizioni fisiche e mi invita a fare un lungo viaggio in Europa. Quando ritorno, ho speso mille rubli e mi rimangono pochi spiccioli. Praticamente, sono diventato povero. Ho voglia, per la prima volta, di fare il medico. Chiedo di poter tornare a lavorare, ma mi viene negato. Il dottor Cholotov, che mi ha sostituito in ospedale, viene a trovarmi con Michail. I due intendono darmi del bromuro, mi ribello, li scaccio fuori di casa con una forza e un’indignazione che non conoscevo. Capisco che per me è finita, ma m’illudo nel perdono di chi ha deciso la mia sorte. Ritrovo Michail, dopo alcuni giorni, gentile e sorridente, è in compagnia di Cholotov, che, addirittura, mi chiede una consulenza in ospedale. Sono felice di poter ricominciare. Quando mi presento, il nuovo direttore non c’è, ha un improvviso impegno. Capisco che, come il topo, sono stato attirato dentro la trappola. Sbuca Nikita, che mi fa gli onori di casa, prendendomi in custodia, facendomi spogliare e rinchiudendomi nella corsia numero 6. Ivan Gromov mi vede, sputa per terra e con un ghigno di impotente soddisfazione mi comunica che adesso è toccato a me. I suoi occhi scrutano il caliginoso caravanserraglio, riempiono il dubbio consapevole, spogliano inutili rappresentazioni. I suoi occhi immaginano volti e parole, sono il boato di una bussola nel buio, che si fa strada in un vortice danzante. I suoi occhi sono immagini riflesse con frammenti che sciamano tumultuosi. Inseguono l’imprevedibile ricomposizione di verità non moltiplicabili. I suoi occhi sono fulmini e saette dove i pensieri si agitano cercando un impossibile rifugio nel nido nascosto fra le pieghe di materia e ombra. Intorno a lui, intorno a me: impotenza, ululati, vomiti, disperazione, grida sincopate e asincroniche. Poi cade un disperato silenzio su un quotidiano che è stato squarciato, ma non rivelato.

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

La redazione – abbastanza ballerina – della bottega

 

Redazione
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