Riappropriarsi del tempo e ridurre l’orario di lavoro

di Mario Agostinelli (*)

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«Lo scopo del lavoro è quello di guadagnarsi il tempo libero» (Aristotele)

TEMPO E VELOCITA’ HANNO UN LIMITE

Il mondo non ha più tempo da perdere. Siamo nel mezzo della crisi energetica più rilevante nella storia dell’umanità. Se per gioco volessimo rappresentare con personalità conosciute le generazioni che succedendosi hanno “plasmato la memoria” su cui risiede la nostra civiltà occidentale – a scelta da Pitagora a Pericle a Cesare a Carlo Magno a Marco Polo a Napoleone a Marx, ad Einstein a Feynman, fino ad Obama – sarebbe sufficiente spalmare su un grande palco una novantina di illustri individualità – (90 personalità x 25 anni a generazione =2250 anni di storia). Ma se volessimo prevedere quanti nuovi personaggi potranno salire d’ora in avanti su quel palco, dovremmo riflettere che, almeno a detta del mondo scientifico più responsabile e accreditato, non potremmo andare oltre alle quattro o cinque unità, se i nuovi “leader” si limitassero a replicare il “business as usual”, con i conseguenti effetti irreversibili e devastanti sul clima e la temperatura del pianeta.

In pratica, la velocità di trasformazione e di sfruttamento delle risorse naturali e lavorative è giunta al punto tale da pregiudicare, con gli effetti di manomissione dei cicli naturali, il mantenimento della biosfera e la sopravvivenza della specie. È singolare come questa constatazione venga totalmente rimossa per continuare a tenere in vita il più a lungo possibile un presente senza futuro, creando così uno stallo per superare la crisi e rendendo impraticabile – in assenza di “desiderio” – il terreno per la ricostruzione di una ipotesi politica alternativa. La mia convinzione è che la cultura egemone del liberismo (una ideologia economica e politica, non un metodo scientifico validato!) si ostini a non voler far conto sulla descrizione della realtà che ci è restituita dalla rivoluzione scientifica e concettuale innescata dal XX secolo – in particolare dalla relatività, dalla quantistica, dalla biologia molecolare o dalle neuroscienze – per continuare a sostituirla con narrazioni ancorate al modello meccanicistico e deterministico, al tempo e allo spazio assoluti, al mito risolutore della crescita, alla provocazione dell’ineguaglianza sociale come molla per la competizione e giustificazione dell’esclusione. Perpetuare l’ambiente anche scientifico-culturale della rivoluzione industriale, chiamandola seconda, terza e oggi 4.0, corrisponde a permanere all’interno di un paradigma di crescita ineguale, in cui la tecnologia risolverebbe a valle i problemi che la scienza pone a monte, spesso dando supporto, come vedremo, all’ambientalismo, alle lotte per la liberazione dall’alienazione del lavoro e per l’uguaglianza.

In questo testo mi concentrerò sul tempo e sulla velocità che lega quest’ultimo allo spazio attraverso la relatività, facendo riferimento a sviluppi attuali ancora poco indagati riguardo al mondo del lavoro e, più in generale, al tempo complessivo (e alla possibilità) di vita. (Terrò conto, ma non entrerò specificamente nel merito dei principi altrettanto rivoluzionari che hanno reso possibile lo sviluppo dell’elettronica e delle tecnologie digitali e che supportano le nuove opportunità offerte dalla penetrazione della scienza nel mondo microscopico).

Siamo, senza rendercene razionalmente conto, prigionieri ormai di un tempo innaturale, prodotto artificialmente, che istantaneamente connette ogni luogo, ma è anche caratterizzato dalla paura di quanto il diverso ci si avvicini e occupi i nostri spazi fisici, non solo virtuali. Intanto – e incessantemente – innumerevoli e insignificanti eventi periferici popolano il quotidiano e distraggono da una ricerca e da una visione di un futuro finalmente sgombrato dalle sole emergenze e non più esposto al rischio di non sopravvivenza. Un tempo, quello presente, disegnato con il contributo dei media, abituati ormai a seguire gli eventi e a non cogliere i processi. Un tempo soggettivamente concepito ma reso maggioritario dalla precarietà che accomuna il senso comune, impregnato dal timore e dalla banalità. È esperienza diffusa che molti dei nostri incontri (parlo almeno delle generazioni vicine alla mia) ci riportino immancabilmente a ricordi trascorsi oppure vagolino nel presentismo generico, riducendo tutta la densità e la ricchezza sociale delle nostre relazioni al passato o ad un “presente continuo”, dato che il futuro si ritiene imperscrutabile o si teme peggiore. Sembrerà ad alcuni singolare, ma da tempo avanzo l’ipotesi che una più intensa interazione con l’evoluzione del pensiero scientifico e la scoperta di una interpretazione della realtà naturale e sociale non più inchiodata al meccanicismo e all’economicismo, contribuirebbe a liberarci dalla “paura della paura” e, quindi, fornirebbe anche la politica di una cassetta degli attrezzi e di un metodo per programmare un futuro più desiderabile.

Prima di esaminare casi concreti, ancora una breve premessa, utile al resto del ragionamento per attribuirgli un certo rigore e non introdurre metafore con il sapore della fantascienza, E utile soprattutto per confermare la distanza tra i nuovi concetti e il punto di vista comune. Lo stupefacente superamento del presente come attimo deriva dal fatto che, dopo Einstein, ad ogni evento con una propria accelerazione e velocità non si accompagnerà mai più un tempo assoluto, perchè quell’evento si compie solo nelle quattro dimensioni indistinguibili dello spaziotempo, che si incurva tanto più quanto più si è in presenza di una concentrazione di massa e di energia. A seguito di ciò, per un osservatore a riposo sul suolo terrestre il tempo passa più velocemente in altitudine e più lentamente in basso, verso il livello del mare; un oggetto si contrae nella direzione del suo moto al crescere della sua velocità; se si viaggia ad alta velocità il tempo, misurato da un osservatore a riposo, passa più lentamente (ci sono cioè due diversi orologi nei due sistemi di riferimento e la velocità relativa ne è responsabile). Per rimetterci coi piedi per terra, ricordo che per questi motivi ogni sistema GPS montato sulla nostra auto, comunicando con satelliti collocati in alta quota e oggetti terrestri in moto relativo, funziona solo perché corregge relativisticamente in automatico i dati ricevuti: se così non fosse, svoltereste sempre e solo in strade sbagliate. Infine, la realtà che percepiamo non è detto che corrisponda all’effettività del mondo fisico che ci circonda, perché la descrizione di un sistema fisico è la descrizione dell’informazione tratta da un altro sistema fisico ad esso correlato, che permette all’osservatore di ottenere la misura richiesta solo – come dimostra Heisenberg, con una intrinseca indeterminazione. In conclusione, soprattutto ai fini di queste note, il tempo non è un continuo che scorre da sé e lungo il quale avvengono gli eventi, ma va pensato come entità locale il cui orologio è diverso da quello di un’altra entità locale che si muove a diversa velocità. Da ultimo, poiché è impossibile conoscere esattamente il presente le evoluzioni future non sono predeterminabili con certezza.

Cosa c’entra, ci si chiederà, tutto ciò con il lavoro, la sua contrattazione, una necessaria riduzione e la cura della natura e dei beni comuni? Economia è sempre più economia di tempo. Tempo di lavoro o di consumo necessario o imposto. Ora la nostra concezione del tempo, ma il tempo stesso, se si può dire così, ha subito una rivoluzione: le possibilità di comprimerlo e di accelerarlo sono cresciute all’inverosimile, con conseguenze imprevedibili sul nostro quotidiano che occorre indagare.

Potremmo assumere il punto di vista per cui la fisica ponga alcuni vincoli invalicabili alla politica e all’azione sociale quando occorre prendere decisioni soprattutto nell’ambito del tempo di vita e dello spazio della biosfera. Anche se nel mondo macroscopico non ce ne accorgiamo quasi, tuttavia il ricorso diffusissimo alle tecnologie moderne, così sofisticate e attraversate da onde e particelle ultraveloci, rivela, come vedremo, che i nostri sensi possono essere ingannati. A fronte di una trasformazione ancora non pienamente metabolizzata, quel che mi sembra oggi indispensabile è disegnare delle immagini mentali per l’occhio materiale e spirituale. Se può convincere in anticipo di quanto profondo sia il cambiamento in gioco e in quale verso corra, si provi a cliccare su You Tube per questo geniale video di un grande artista come David Bowie1, frastornato dalla velocità artificiale con cui la sua mente deve fare i conti.

AGGIORNIAMO GLI OROLOGI

Possiamo ricordare che in tutte le epoche in cui è stato realizzato un profondo cambiamento della struttura produttiva e sociale, si è determinato anche un cambiamento delle concezioni dello spazio e del tempo, spesso anticipate come metafore dalla poesia e dall’arte. In tutti i casi, una riorganizzazione economica e sociale ha poi costituito l’hardware per sistemi duraturi. Ciò è avvenuto durante tutti i passaggi di modifica sostanziale dell’ambiente (dalla caccia, all’agricoltura, all’industria etc.) in cui le cadenze e il territorio vitale assumevano connotati nuovi a seguito dell’innovazione tecnologica e sociale dovuta alle nuove scienze e ai nuovi modi di pensare e percepire e il cambiamento storico dei sistemi energetici e di produzione si è trovato in corrispondenza coi mutamenti delle relazioni spazio-temporali del lavoro e della organizzazione della vita sociale. Ogni cultura e, al suo interno e entro certi limiti, ogni individuo libero, ha un proprio particolare bagaglio di impronte temporali, valori e dinamiche che devono fare i conti con i sistemi e i rapporti di produzione, da sempre condizionati anche dalle macchine, dagli apparati organizzativi e dalle tecnologie impiegate. Con l’entrata in scena del comportamento della luce e di distanze e forze prima irraggiungibili e irriproducibili coi soli nostri sensi e muscoli, siamo di fronte ad un “salto antropologico” indotto nella sfera culturale e, certo, più assimilabile al modello neurologico-istantaneo che a quello meccanico-sequenziale. Si può affermare che la rivoluzione delle scienze post novecento sia insolitamente radicale e vada ben oltre lo spazio e il tempo che l’umanità aveva fin qui sperimentato: questo autentico sovvertimento ha il suo fulcro nella confluenza di spazio e tempo nel loro rapporto universalmente immutabile: la velocità della luce. Nell’analizzare a fondo i meccanismi vitali, sociali e mentali e gli effetti su di essi del mondo artificiale, ci si deve render conto che la stessa chimica, ma ancor più l’elettricità, la luce, l’elettronica, gli elaboratori che controllano e scandiscono il tempo di uomini e tutte le apparecchiature con velocità di calcolo di molti ordini di grandezza superiore a quelli umani, ci immettono in uno scenario non più newtoniano.

Si può ormai affermare che solo la relatività e la quantistica forniscono le spiegazioni più convincenti per affrontare l’evoluzione in corso, una volta adattate ai livelli superiori della biologia, della psicologia, delle neuroscienze Nelle più recenti ricerche si interfacciano ormai le azioni del cervello con l’esecuzione di programmi del computer. La genetica, come intersezione di informazione e biologia, scopre e modifica il meccanismo di riproduzione delle cellule. L’assemblaggio attraverso nanotecnologie e robot programmabili (una realtà in parte applicata e certamente prevista per le stampanti 3D), apre spazi insondati alla costruzione di manufatti di estrema precisione e addirittura ad assemblatori molecolari, in una fantastica intersezione tra progettazione, informazione e realizzazioni nel mondo fisico e naturale. L’intelligenza artificiale è una realtà sempre più assestata, che prelude a forme avanzatissime di elaborazione del linguaggio e alla creazione di intelligenza non biologica, che ormai si spinge ai limiti contemplati dalla macchina di Turing, oltre a intervenire nei processi di progettazione, assemblaggio e consegna dei prodotti.

La chiave per riguadagnare una autonomia rispetto al prevalere della tecnocrazia – e questo è fondamentale per una strategia sindacale – e cogliere così i processi sottesi agli obiettivi mai esplicitamente dichiarati, sta, a mio avviso, nel mettere a fuoco il concetto di velocità. Quando un algoritmo in base ad un modello adatto viene elaborato in una macchina digitale, viene eseguito a velocità di vari ordini di grandezza superiori rispetto a quella a cui funzionano le connessioni nella mente umana. Inoltre, i computer possono condividere le loro “conoscenze” con rapidità assai maggiori rispetto a quella con cui comunica il linguaggio umano. In concreto, i primi commutano segnali elettronici a velocità dell’ordine di quella della luce (300 milioni di metri al secondo), mentre i segnali elettrochimici del nostro cervello viaggiano a circa 100 metri al secondo (anche se gli stimoli psicofisici che presiedono alle emozioni corrono tremila volte più veloci del pensiero razionale). Un fattore 3.106 per l’elaborazione (e 103 rispettivamente per le reazioni emotive) differenzia la velocità della macchina rispetto a quella dell’uomo. Per trarre dai confronti tra le velocità relative una prima conclusione, portiamo a paragone anche le velocità muscolari e quelle delle macchine in moto sulla terra: i nostri movimenti arrivano fino a poco più di 10 metri al secondo (la corsa di Usain Bolt) ed un’auto veloce arriva fino a 90 metri al secondo (una Formula 1). Ne segue che il cervello umano può agevolmente controllare l’attività muscolare e quella meccanica (un bravo pilota guida porta al traguardo la sua vettura), ma non può competere con la rapidità di controllo che un computer può esercitare su un qualsiasi apparato biologico o meccanico, anche se il vantaggio del cervello rimane quello di consumare poco e, soprattutto, di svolgere operazioni di cui si rende cosciente. Ogni donna e uomo può pensare, intuire, progettare, sognare e comunicare attraverso la propria facoltà cognitiva. Lo può fare, ma in tempi relativamente lunghi, mentre se sa copiare e trasferire qualsiasi attività cognitiva nel linguaggio di una macchina elettronica, quest’ultima è in grado di riprodurre le operazioni mentali più e più volte in un baleno. In conclusione, esiste una gerarchia di velocità e di potenza di calcolo da quando sono state inventate le macchine elaboratrici tra loro interconnesse in rete, che, per quanto riguarda il controllo di dispositivi meccanici, di movimenti e di attività dei viventi, superano di gran lunga in rapidità le potenzialità fino a prima riservate al cervello umano, che agisce come spettatore a valle di un progetto pensato a monte. La questione ha grande rilevanza nei processi lavorativi e in quelli della comunicazione e in tutte le forme di automazione che si interfacciano con la persona, lavoratore o consumatore che sia.

Il problema tocca tutta la vita di relazione, ben oltre la produzione, i servizi, il consumo. Quando, come avviene oggi, dobbiamo prendere in considerazione l’essere umano ormai “protesizzato” completamente e integrato nei propri strumenti che elaborano e si collegano a velocità prossime a quelle della luce, o la “civiltà di macchine intelligenti” o la manipolazione genetica delle speci, ci dobbiamo attrezzare per poter consapevolmente affrontare una incessante compressione del tempo biologico operata artificialmente, che andrebbe regolata da un’etica condivisa e da una democrazia che non si consuma alla velocità della luce. È indispensabile cioè mantenere una prospettiva di società che necessita di un tempo umano e che non è certo predeterminata dall’accanimento dei tecnocrati. Quando constatiamo che lo sforzo più impegnativo dei governi sta nel potenziare l’impiego delle armi, costruire muri e tollerare crimini contro l’immigrazione, accettare il dilagare della povertà e sottovalutare il cambiamento climatico, capiamo che stanno sempliceente perpetuano un mondo e una società strutturata anche attraverso la velocità in divisioni invalicabili. Ma… “per quanto tempo ancora?

RIAPPROPRIARSI DEL TEMPO

Nel Novecento, l’ultimo secolo del secondo millennio, il socialismo ha mancato il suo obiettivo più ambizioso: un tempo libero dalle costrizioni del consumo, del mercato e delle macchine. Nella sua presunta oggettività, oggi come ieri, la scansione dei secondi e delle ore degli orologi registra – come in un campo di battaglia – furti e appropriazioni di tempi. Ho scritto orologi al plurale perché con la digitalizzazione siamo spesso di fronte a sistemi che funzionano a velocità relative talmente diverse dall’orologio biologico da far intervenire la legge della relatività.

Questa contesa con tutti i connotati di classe a noi noti, può sfuggire nelle sue proporzioni, se non si coglie che, in particolare negli ultimi quarant’anni le telecomunicazioni, la digitalizzazione, l’accesso alle banche dati, la rapidità di interconnessione e di elaborazione hanno accentuato la possibilità di espropriazione del tempo per alcuni e del suo possesso per altri. Senza una piena comprensione qualitativa e quantitativa del “furto di tempo” il valore sociale del lavoro – operaio ma non solo – perde il potere di riscatto civile e di equa redistribuzione che aveva conquistato. Anche i tempi di vita, di ozio, di apprendimento sono oggetti di esproprio, al punto che il riscatto del “tempo proprio” rappresenta forse l’esigenza primaria dell’esistenza ai giorni nostri. Si tratta allora di denunciare con tutta l’autonomia necessaria la colonizzazione del tempo come punto di emersione dei conflitti più abilmente mascherati. Di fatto, possedere e dominare il tempo – lavoro e ozio, orario vincolato e tempo libero – così come una volta possedere e dominare lo spazio, corrispondono, nel senso comune, ad una manifestazione di successo e di supremazia politica e sociale, mentre subire un imponente meccanismo di controllo e sequestro del tempo – saturato, accelerato, compresso, spiato, sprecato, ormai al di fuori di qualsiasi forma di negoziato – fa parte dell’affermazione di uno stile di vita imposto e passivamente accettato, contraddistinto dal consumo e dallo spreco.

Un’azione è data dal prodotto di un’energia per un tempo. Se il tempo viene artificialmente saturato perché un dispositivo riempie le pause biologiche di un dipendente, nel tempo del lavoratore si compiono una grande quantità di operazioni del dispositivo: l’applicazione è muscolare, mentale, cognitiva, reattiva, diremmo incessante, ma non è assolutamente retribuita come tale Oggi, il sistema d’impresa punta soprattutto a saturare con il massimo di operazioni il tempo retribuito; a non pagare il tempo di attenzione richiesto tra un’operazione e l’altra e a allungare di fatto la prestazione lavorativa in base ad una reperibilità incessante. Addirittura, può riservarsi il potere, riconosciuto per legge dopo il varo del Job Act, di annullare o sospendere a comando il tempo di lavoro dei suoi salariati. La strategia d’impresa consiste nel massimizzare tempo ed energia sotto il profilo economico a lei utile, e non restituendo né al lavoro né alla natura l’accumulo del loro sfruttamento. La natura, al contrario, sceglie, tra i vari concepibili modi di realizzare le sue azioni la traiettoria più economica dal suo punto di vista, che è quella della minimizzazione dell’energia. Avvengono così delle scissioni irreparabili tra mondo artificiale e naturale, tra tempo fisico e tempo biologico, tra tempo produttivo e tempo proprio e viene infranta definitivamente l’armonia tra tempo del mondo, tempo di vita e tempo di lavoro. La globalizzazione liberista e la accentuata finanziarizzazione dell’economia producono una irrecuperabile distruzione della biosfera e, contemporaneamente, iniquità sociale.

Riappropriarsi del tempo ha anche una componente di genere che va liberata dall’assetto attuale di potere maschile, per ricondurla al ragionamento generale fatto sopra. Sono da combattere le pratiche sociali ed economiche, le istituzioni e i sistemi culturali o religiosi che sostengono o applicano la discriminazione della donna. Sono passibili di sanzioni tutte le forme di dominio maschile e in particolare le differenze di entrate economico-salariali e il non riconoscimento del lavoro domestico intra-familiare legato alla riproduzione della vita.

Il mutare del sistema di produzione, delle tecnologie e dei rapporti di classe ha rivoluzionato il tempo dei salariati, creando le condizioni di un irrazionale eccesso di capacità trasformativa da parte del lavoro e accelerando così il degrado (entropia) del mondo naturale (materie prime) e quella crisi da sovrapproduzione che è una delle cause principali della crisi attuale. Occorre perciò convincersi che non siamo più soltanto di fronte ad un tradizionale conflitto tra capitale e lavoro. L’enorme “dividendo” che si ottiene a spese della natura e del lavoro nella nuova organizzazione su scala temporale e spaziale della produzione, deve essere dal capitale restituito alla natura conservando l’ambiente e distribuito tra i lavoratori con la riduzione generalizzata e politicamente sostenuta dell’orario di lavoro.

NUOVA MANIFATTURA E ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO (4.0?)

In ogni settore le aziende utilizzano ormai l’Intelligenza Artificiale (IA) per ottimizzare la logistica (il primo contratto della Ascent è stato redatto per la logistica di Desert Storm in Iraq), valutare la correttezza delle transazioni con i clienti, (il NASDAQ controlla così gli insider trading), fare valutazioni di mercato (Wal-MArt rifornisce le scorte in base alle tendenze manifestate in tempo reale dai consumatori). I sistemi esperti di AI anticipano in tempo reale le soluzioni migliori per l’impresa, anche apprendendo iterativamente dal passato. Nelle linee e nei reparti di produzione, poi, l’impiego di robot che interagiscono con gli umani è in evoluzione, mentre nella manifattura entrano di prepotenza le stampanti 3D.

Vediamo di che cosa si tratta e quali ripercussioni si avranno sull’organizzazione e sul mercato del lavoro. Sono in corso due grandi trasformazioni che li riguardano da vicino: in primo luogo l’implementazione di sistemi di intelligenza artificiale applicati alla robotica e, in secondo luogo, la conferma delle possibilità delle nanotecnologie, che permettono un grande sviluppo di “assemblatori” programmati – le attuali stampanti 3D – consentendo evoluzioni che fino ad un decennio fa erano impensabili.

Per intelligenza artificiale (IA) si intende l’abilità di un computer di svolgere funzioni e ragionamenti tipici della mente umana. È in corso un dibattito sulle potenzialità aperte per far compiere ai computer azioni in cui, al momento, gli esseri umani sono più performanti. Le macchine possono condividere tra loro conoscenze: noi d’altra parte abbiamo bisogno del linguaggio che è estremamente più lento. Poiché le macchine sono più rapide degli individui nell’aggregare e connettere le loro risorse, se la conoscenza, come sta avvenendo, migra sul web, le macchine interconnesse accrescono enormemente la loro capacità di leggere, ricercare e comprendere le informazioni.

I robot in simbiosi con la IA sono sempre più impiegati nei processi di produzione. L’ultima generazione usa sistemi di visione flessibile, che rispondono anche a condizioni variabili. La visione delle macchine migliora la capacità dei robot di interagire con esseri umani, mantenendo un contatto visivo diretto. È ormai notizia di tutti i giorni l’imminente circolazione di veicoli guidati senza intervento umano. Per la gestione dei processi manifatturieri e la gestione dell’organizzazione del lavoro vengono impiegati in coordinazione robot evoluti e sistemi esperti, che comportano lo sviluppo di regole logiche specifiche per simulare i processi decisionali degli esperti umani, anche se va ricordato che gli umani non si basano solo su decisioni logiche, ma anche sulle loro esperienze precedenti. È per questa ragione che questi sistemi sono progettati per apprendere, “si fanno un’esperienza” sulla base dello scambio delle pratiche migliori e l’eliminazione degli insuccessi.

A livello superiore ai capannoni di produzione, il CIM (Computer integrated manufacturing) impiega sempre più spesso tecniche di IA per ottimizzare l’uso di risorse, logistiche, just in time. La conoscenza viene codificata in paradigmi di soluzioni preparate da tecnici. Successivamente gli archetipi vengono corretti via via in base a nuovi casi dell’esperienza reale.

Passando al processo manifatturiero di produzione di opzioni personalizzate e su richiesta ci si appresta in un futuro non tanto lontano a utilizzare assemblatori molecolari (l’evoluzione delle stampanti 3D) e a “fare cose a livello atomico: metti gli atomi dove dice il chimico e crei la sostanza” (Feymann2). Eric Drexel3, il ricercatore di riferimento in questo campo, teorizza un assemblatore molecolare per realizzare strutture stabili: addirittura un computer funzionante.

Quella che si chiama nanotecnologia promette un po’ precocemente nientemeno che gli strumenti per ricostruire il mondo fisico un frammento molecolare dopo l’altro. Si ridurrebbero così le dimensioni spaziali della tecnologia a velocità esponenziali. A questo ritmo, le dimensioni chiave per la maggior parte delle tecnologie elettroniche e meccaniche entrerebbero in qualche decina di anni nell’ordine delle nanotecnologie. L’energia poi potrebbe essere fornita in forma di elettricità o in forma chimica. In pratica, si costituirebbero unità da scrivania che possono produrre qualsiasi oggetto progettabile. Inizialmente di piccole dimensioni e poi, a vari stadi di assemblaggio sempre più grande. “Internet delle cose”, provvederà a far sì, per esempio, che i sensori non abbiano bisogno di batterie o si avvalgano di energia di scarto prodotta da calore e vibrazioni.

Il costo reale di questi processi di inaudita portata, ove fossero realizzati su vasta scala e in forme stabili e ingegnerizzabili, non è tanto nell’investimento o nel consumo di materie prime e energia, quanto nel valore dell’informazione che descrive ciascuna tipologia di prodotto da realizzare (abito, componente meccanico, organo artificiale etc.). Addirittura, si pensa che in un futuro assai prossimo i prototipi potrebbero essere di norma scannerizzati e tradotti in software operativo. Il valore allora della produzione entrerebbe sostanzialmente nel campo dell’informazione.

C’è da chiedersi cosa sia avvenuto già oggi quasi a nostra insaputa dell’organizzazione delle imprese e di quella del lavoro e in quale direzione si stia andando. Per il presente è significativo come le aspettative riguardo il dominio della nuova tecnologia spingano il padronato a relazioni sindacali che escludono la contrattazione e prevedano la messa totale a disposizione della forza lavoro, una volta concepito e realizzato un investimento. Il caso Marchionne-Fiat-Chrysler è emblematico: tempi, carichi, ritmi, saturazioni, interventi robotizzati, sono studiati a tavolino e imposti con la complicità dei governi che si fanno poi vanto della destinazione di un impianto in una località di loro competenza, costi quel che costa. Per questa via le strategie delle aziende vengono sottratte definitivamente alla partecipazione dei lavoratori organizzati: i sistemi esperti condizionano i programmi e i bilanci previsionali, che non sono quasi mai notificati pubblicamente. Il tempo della produzione è ormai già tutto nelle mani delle direzioni aziendali e il diritto al lavoro è confuso con la disponibilità e una progressiva alienazione che, a dispetto della fatica fisica, era sconosciuta nel secolo scorso. Impressiona la sproporzione tra l’accesso delle imprese a strumenti esclusivi sul terreno dell’informazione e della sua elaborazione e la possibilità di intervento autonomo da parte dell’organizzazione dei lavoratori. Semplificando, si potrebbe affermare che l’impresa adotta il modello neurale, mentre il sindacato rimane inchiodato anche nelle sue rivendicazioni a quello meccanico-muscolare dell’o.d.l. taylorista e che il sistema [AI- robot- nanotecnologie] si orienta ad agire come un despota che decide in quali ordini di tempo e spazio condurre il gioco delle relazioni industriali e sindacali.

Per l’oggi e ancor più per il futuro, lo scenario su cui vogliamo porre l’attenzione è quello che incrocia ancora una volta tempo e spazio nella concezione di cui si è impadronita la scienza più attuale ma che rimane estranea alle congetture su cui si difende il sindacato mentre la politica si esercita come ancella dell’economia. La manifattura futura potrebbe comprimere a tal punto lo spazio e il tempo della fabbrica, da portarlo a dimensioni accessibili più agli algoritmi ai robot e alle operazioni degli elaboratori pre-programmati che all’intervento dall’esterno di qualsiasi antagonista che agisca in autonomia. Anche la manifattura, quindi, sta dirigendosi verso la dimensione astratta, superveloce e di difficile controllo in cui si è già situata la finanza. Ma a non essere cambiate sono le forme e le norme di organizzazione e di funzionamento del sistema, basate sempre sulla suddivisione e l’individualizzazione del lavoro e poi sulla sua ricomposizione/totalizzazione in qualcosa che per il “padrone” – usato etimologicamente – deve essere sempre maggiore della semplice somma delle parti prima suddivise e separate. Se ieri, nel fordismo era necessario concentrare migliaia di lavoratori all’interno di luoghi chiusi come appunto le grandi fabbriche perché il mezzo di connessione/totalizzazione delle parti suddivise del lavoro era necessariamente fisico e presupponeva uno spazio concentrato e concentrante (questo permetteva l’efficienza produttiva di allora), oggi il mezzo di connessione, ovvero la rete, permette di scomporre e di individualizzare n volte di più la forma e la norma di organizzazione e di farla esplodere in lavori (e in lavoratori) disconnessi da un luogo fisico (la fabbrica) ma connessi in un luogo virtuale come appunto la rete. E, nel contempo, si risparmia lavoro e si saturano i tempi, possibilmente 24 ore su 24 e 7 giorni su sette.

Giunti a questo punto c’è tuttavia da chiedersi se sia socialmente e economicamente compatibile una elevata sostituzione del lavoro con intelligenza artificiale, macchine autoreplicanti e robot. Lo spostamento dell’intervento umano solo verso la progettazione, gli automatismi, lo sviluppo della robotica e dei sistemi esperti, che dilagano già oggi anche verso professioni intellettuali autonome, agiscono tutti come risparmiatori di forza lavoro. E mentre per il vecchio paradigma l’innovazione produceva disoccupazione nell’immediato, che veniva compensata in seguito da nuovi domini produttivi, c’è da chiedersi se questo sarà ancora vero in futuro. Se non lo fosse, le alternative verso cui scivoleremmo malauguratamente sarebbero due: o la maggioranza dell’umanità diventerà (per semplificare) progettista, oppure non avrà i mezzi per vivere (e per comprare). Uno scenario possibile sarebbe quello di una impossibile alleanza tra superesperti e possidenti e tutto il resto della società ridotta a mestieri serventi e sottopagati, (scomparsa della middle class); oppure, ancora (ma servirebbe un governo mondiale) il salario universale di cittadinanza, alimentato dal surplus dei nuovi schiavi robotici. In entrambi i casi solo una parità di rappresentanza potrebbe ribaltare la china ridando attraverso il potere elettorale e rappresentativo quella sovranità ormai confiscata in rapporti di forza. Va detto infine che, ancor prima di prospettare scenari che potrebbero apparire da fantascienza, non reggerebbe il bilancio economico di una società siffatta. Immaginiamo migliaia di robot che lavorano in una fabbrica e un esiguo numero di lavoratori che li controllano. I robot avranno una vita assai più breve dei lavoratori e, quindi, nella competizione capitalistica, andranno continuamente sostituiti con costi di ammortamento annuo e reinvestimenti enormi. Sarebbero minimi gli occupati, mentre l’utile netto sarebbe basso e finiremmo col vivere in un mondo pieno di macchine complicate con tantissimi disoccupati, senza reddito e possibilità di consumo. E dato che solo il lavoro e la natura producono “nuovo valore” e ben pochi lavoratori sarebbero occupati e le risorse esaurite, anche il “nuovo valore” sarebbe assai basso e non ci sarebbe sufficiente plusvalore da ridistribuire. Di che cosa si occuperebbe allora la politica se la maggioranza della popolazione sarà privata della propria capacità lavorativa, cioè espropriata dal lavoro?

Certamente l’intuizione di immergere la realtà, tutta, in un ambiente spazio-temporale e in relazioni di materia ed energia che non sono puro contorno, ma si impastano con la realtà stessa, non basta a mostrarci la necessità di un diverso modello di sviluppo globale e di un assetto di potere meno protervo. Ma se continuiamo a immaginare la realtà e il suo evolversi come un inesorabile prolungamento del presente, non entreremo mai in sintonia con quelle stesse leggi della natura che impieghiamo per creare le protesi artificiali e tecnologiche di cui ci circondiamo e da cui diventiamo dipendenti senza prenderne adeguatamente coscienza. Rettificare e riallineare il bagaglio di conoscenze su cui ragionare, aiuta ad approfondire le fratture del nostro tempo.

LA NECESSITA’ DELLA RIDUZIONE DELL’ORARIO DI LAVORO

L’espropriazione del tempo è una condotta di classe che non ha confini. Ripristinare l’autonomia individuale e collettiva sul proprio tempo caratterizzerebbe i diritti civili e sociali in una società liberata. Non si tratta solo di quantità di ore della giornata e della vita, ma della qualità sociale che assumerebbe l’intero arco della esistenza e dell’attività di riproduzione, produzione, ozio e consumo4. I tempi che sperimentiamo hanno una componente relativa e soggettiva che dipende dall’intensità dei ritmi, dalla velocità con cui si accumulano esperienze, dal riconoscimento ottenuto nell’ambiente sociale di riferimento. Tuttavia le tecnologie in uso, basate sull’elettronica e la digitalizzazione, uniformano le cadenze e i ritmi delle esistenze in base a velocità artificialmente determinate. È possibile ribadire la priorità del tempo biologico e di quello dei cicli della biosfera su quello della produzione e del consumo regolato dagli orologi digitali? Sarebbe di per sé una straordinaria conquista culturale da portare a compimento. Basterebbero tre ore di lavoro e tre ore di studio per educare al controllo democratico in dimensione storica della direzione e delle ricadute delle trasformazioni scientifiche tecnologiche culturali in corso.

Con il progredire dell’automazione flessibile e l’invasione di piattaforme software di progettazione e comunicazione ormai adattabili a qualsiasi utilizzo e installabili su qualsiasi terminale – anche lo smartphone del dipendente! – l’organizzazione sindacale e una politica rappresentativa del lavoro dovranno affrontare un aspetto che va oltre il tradizionale contrasto tra produttori. Ci troveremo presto di fronte all’alienazione della maggioranza della popolazione, la quale sarà privata della propria capacità lavorativa, cioè espropriata dal lavoro, trasferito in procedure e conoscenze codificate e eseguito con velocità e ritmi biologicamente insostenibili. E’ per questo che con la massima urgenza si deve ripensare radicalmente il lavoro, scegliendo la via della cooperazione e dell’integrazione tra componente manuale e intellettuale, dando accesso alla formazione di base non di meno che alla formazione specialistica, rendendo trasparenti i processi e mettendo a disposizione della contrattazione collettiva (parliamo del contratto nazionale di lavoro!) la scelta degli algoritmi e delle piattaforme software di cui la prestazione del lavoratore si deve avvalere. Non sembri una fuga in avanti: già oggi il risparmio di lavoro e la sua sempre maggiore subordinazione avvengono passando dalla comunicazione interna via mail, dal ricorso ad “App” appositamente destinate, dalla presa d’atto dell’avanzamento della produzione su terminali condivisi. Le innovazioni nel flusso delle decisioni e nell’organizzazione del lavoro sono basate su sistemi elettronico-neuronali, con il posizionamento di elaboratori e robot lungo la filiera di produzione, con l’impiego di telecamere, fotocellule e sensori che funzionano a velocità non troppo lontane da quelle della luce. Essi si estendono sempre più al di fuori del luogo di produzione tradizionale attraverso la sintonizzazione e la sincronizzazione permanente delle reti di produzione e consumo in tempo reale. Si sta strutturando così negli intenti del datore di lavoro un “tempo della prestazione” che non appare nel quadrante dell’orologio appeso alla parete, che non può essere misurato solo in durata di secondi minuti o ore. Emerge dunque una voluta discrepanza con l’unità di misura tempo-orario utilizzata per il salario e la contrattazione. È come se, attraverso l’apparato tecnologico appositamente progettato, venisse creato del tempo in più donato all’azienda che ha introdotto a questo fine l’apparecchiatura artificiale: tempo non riconosciuto in alcun modo al lavoratore. Usando il paradosso dei gemelli di Einstein, potremmo dire che se l’addetto a un computer dovesse elaborare coi suoi tempi le stesse operazioni che un computer elabora in un minuto, si troverebbe di parecchi anni più vecchio. Per quel tempo il sindacato una volta dei ritmi, dei cottimi, non contratta più. C’è solo da ridurre le ore giornaliere, settimanali, annue contrattualizzate. Altro che superamento dell’orario di lavoro come proclamano in sintonia il ministro Poletti e il segretario della Fim Bentivogli!

Se non si riparte da una revisione del tempo retribuito, dando per scontata una saturazione inimmaginabile prima d’ora e non si rivendica la riduzione dell’orario di lavoro per poter fare altro, non sarà mai possibile redistribuire i guadagni di produttività accaparrati esclusivamente dall’impresa e tanto meno rifinalizzare all’ambiente e alla società l’eccesso di capacità trasformativa che è oggi indirizzata esclusivamente verso il massimo profitto, l’eccesso di consumo e lo spreco.

CONCLUSIONI

Il neoliberismo come fenomeno mondiale combatte il riconoscimento di una soggettività politica al lavoro sfruttato e alla natura degradata, depotenzia l’autonomia che andrebbe riconosciuta alle loro rappresentanze e offusca le loro identità con una torsione imposta ai media, mentre il governo dell’innovazione tecnologica punta a ridurre anziché allargare le forme legittime di partecipazione. Questi processi hanno una radice comune nel sequestro di tempo ottenuto anche attraverso l’incontrollabilità della velocità relativa dei dispositivi impiegati e nella privatizzazione dei dati resi disponibili dall’attività sociale che viene registrata dalla rete.

Ricavare esclusivamente valore economico dal tempo e dalle conoscenze condivise è la peggiore illusione su cui ci si può incamminare. Significherebbe una continua compressione del tempo, l’offuscamento della memoria, l’inseguimento del presente, nessuna strategia per un futuro che si annuncia drammatico, una rimozione della democrazia come processo che richiede tutta la durata della partecipazione attiva.

Riappropriarsi del tempo, ridurre drasticamente l’orario, ricontrattare l’organizzazione del lavoro e le piattaforme e gli algoritmi in uso nella rete, utilizzare parte del tempo libero reso disponibile dalla tecnologia per estendere la conoscenza generale e la consapevolezza delle implicazioni delle nuove tecnologie: mi sembra questa una possibile indicazione. Senza un supporto culturale adeguato e una padronanza dei meccanismi che si utilizzano, si diventa individui isolati, informaticamente atomizzati e, purtuttavia, connessi alle catene di produzione e di consumo, senza distinzione di orario e senza il privilegio di un tempo consapevolmente liberato. Si finisce con l’essere incessantemente al lavoro e, contemporaneamente, con l’essere più o meno inconsapevolmente fornitori di informazioni e dati sensibili. Si diventa e rimane – al lavoro, al consumo e nella vita sociale – connessi ma lontani.

(*) E’ un articolo di prossima pubblicazione su «Alternative per il socialismo»; l’autore segnala che «alcune di queste riflessioni saranno riprese in un contesto più esauriente in un libro di prossima pubblicazione dal titolo “Connessi ma lontani” per le edizioni Mimesis».

 

1 https://www.youtube.com/watch?v=brEGsP4G5uk . Intervista del 1977 a Odeon TV, dal minuto 11 al minuto 12.30

2 R. Feynman, There’s plenty of rooms in the bottom, conferenza 1959

3 M. Madou, Microfabrication, ed. CRC press, 2011

4 Jonathan Crary -24/7 Il capitalismo all’assalto del sonno – Einaudi 2015

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