Perchè uccisero la bella gioventù argentina

“Mar del Plata”: i rugbysti che sfidarono la dittatura

David Lifodi sul romanzo (veritiero) di Claudio Fava con testi di Fabio Casalini, Pietro Frattini, Mauro Presini e alcuni video preziosi

 

dieci minuti di silenzio per morire

Javier se lo llevaron al termine degli allenamenti: stava nel movimento studentesco e di certo sarebbe diventato un guerrigliero. Il Turco e Mariano avevano partecipato ad un’assemblea sindacale in fabbrica: sicuramente il loro futuro sarebbe stato quello di vendepatrias. E ancora: Gustavo, Otilio e gli altri, la squadra di rugby di Mar Plata, quella che con le sue giocate mandava in estasi il pubblico e fu sterminata dalla giunta militare. Le ferocia degli aguzzini al servizio di Videla pari a quella dei boss mafiosi che infestano la Sicilia, il coraggio dei giovani rugbysti che sfidano la dittatura come quello degli agenti che difendono i magistrati antimafia.

C’è questo e molto altro nel romanzo di Claudio Fava, Mar del Plata (Add Editore, Torino, 2013) che racconta la storia di una squadra di rugby che, prima di tutto, è un collettivo nel senso più ampio del termine: i ragazzi del club fanno quadrato anche fuori dal campo, è così che il capitano Raul viene a sapere che una patota ha rapito il suo amico Javier e allo stesso modo decidono di votare, a maggioranza, se mettersi al riparo in Francia o rimanere in Argentina per portare a termine il campionato “alla faccia di quei porci dei militari”, come dice uno dei protagonisti. Claudio Fava è venuto a conoscenza della storia del La Plata Rugby Club da Gustavo Veiga, un giornalista che, da poco, ha dato alla luce il libro Deporte, Desaparecidos y Dictadura: nelle raccolte Memoria y Balance de la Unión Argentina de Rugby degli anni ’76-’77, spiega,  non c’è alcun riferimento alla dittatura. In Mar del Plata c’è la suggestione della Poderosa, la moto del Che Guevara che assume qui le sembianze di una vecchia Guzzi del capitano Raul, la descrizione feroce degli sgherri della dittatura, messi in ridicolo da Fava sia nelle sue descrizioni fisiche sia a livello psicologico: sono spietati, ma al tempo stesso soli con loro stessi e con la loro malvagità, come lo era l’aguzzino Fleury, il torturatore dei frati domenicani brasiliani descritto da Frei Betto nel suo Battesimo di sangue. Il loro mondo è fatto da “pensieri malati”, scrive Fava: i militari sono ossessionati dal loro compito, quello di ripulire l’Argentina dai sovversivi, convinti che il paese gliene renderà merito. E invece è la stessa folla a disconoscerli, cantando l’inno argentino perché si riconosce in un paese stufo della dittatura, tanto da costringerli ad una poco onorevole fuga. Il calcio piazzato del capitano avversario del La Plata Rugby Club, diretto verso la tribuna dove sono nascosti, in mezzo al pubblico, Montonero e il suo superiore Benavides, i due militari spioni che avevano inviato i loro sottoposti ad eliminare i rugbysti, il cui gioco aveva incantato l’Argentina, è il segnale di un’intera comunità contraria ai militari e al loro desiderio di ordine e pulizia: poco dopo si sarebbero disputati i mondiali di calcio e la giunta militare avrebbe presentato la nazione come la tierra di derechos y humanos. Il romanzo di Claudio Fava, che alterna termini spagnoli a quelli del dialetto siciliano, commuove per la caparbietà dei suoi protagonisti: i minuti di silenzio infiniti, prima di ogni partita, per commemorare i loro compagni che scompaiono settimana dopo settimana. Il La Plata Rugby Club avrebbe vinto il campionato se non fosse stato sterminato e costretto a presentarsi in campo, nelle ultime partite, con un manipolo di ragazzini, tanto che le stesse squadre avversarie vincono contro di loro di malavoglia. Solo uno di loro, Raul Barandiaran Tombolini, riuscirà a sopravvivere allo sterminio: il capitano era di origine siciliana: suo nonno era giunto in Argentina dalla Sicilia per lavorare come mandriano. È l’unico a cui Claudio Fava ha mantenuto il suo nome autentico raccontandone la storia reale: gli altri nomi sono di fantasia, ma la progressiva eliminazione dei rugbysti purtroppo non è frutto del romanzo, ma è vera. Molti dei giocatori del club finirono all’Esma, compreso l’allenatore, che aveva inizialmente cercato di convincere la sua squadra a pensare solo al rugby e non alla politica per evitare che finissero nelle mani dei militari: Hugo Passarella sapeva che con loro c’era poco da scherzare e ne conosceva la cattiveria. Nel romanzo c’è anche un riferimento alla Resistenza italiana. I guappi, come li chiama Fava, che vanno a prendersi Pablo, uno degli ultimi giocatori rimasti insieme a Raul e sfondano la porta della sua casa, assomigliano molto alla brigata nera che cerca di prendere il giovane partigiano Dante Di Nanni. Il ragazzo capisce immediatamente che è lui che cercano e fugge fino ad arrivare alla terrazza della casa: quando si rende conto che non può più scappare, non intende dare agli sbirri del regime la soddisfazione di essere arrestato e, al pari di Dante Di Nanni nella Torino occupata dai tedeschi e dai fascisti,  si butta dal balcone con il pugno chiuso alzato. I militari sanno tutto: hanno assistito agli allenamenti e alle partite, uno di loro, in gioventù, era stato anche un arbitro che si era venduto le partite. Pian piano i ragazzi capiscono che saranno fatti fuori, ma non vogliono darla vinta ai militari. L’intento di Gustavo Veiga, ma anche di Claudio Fava, è quello di raccontare delle storie di sport e, al tempo stesso, sottolineare l’impegno politico e la militanza di una generazione di giovani sportivi che furono arrestati e uccisi perché appartenenti ai montoneros, alla gioventù peronista o, più semplicemente, a qualche organizzazione di sinistra. Passando dal romanzo alla realtà, Barandiaran racconta che nello spogliatoio della squadra era sorta una cellula del Partito marxista-leninista argentino. Inoltre, ricorda il capitano, lui e tutti i suoi compagni prestavano attenzione a tutto ciò che succedeva nella società argentina, per cui era naturale guardare a ciò che accadeva oltre il campo di gioco. Jorge Moura, uno dei rugbysti eliminati dalla dittatura, faceva parte dell’Ejército Revolucionario del Pueblo (Erp), Rodolfo Axat aveva organizzato una cellula montonera in fabbrica prima di essere rapito da una patota, e ancora Mariano Montequín, anche lui militante del Partito marxista-leninista, sequestrato con la sua fidanzata, Mario Mercader, montonero, fu ritrovato con i segni della fucilazione nel cimitero di Avellaneda, Abigail Attademo, combattente dell’Erp e conosciuto con il nome di battaglia “Comandante Miguel”, desaparecido.

Claudio Fava ha avuto il merito di far conoscere la storia del club di La Plata, Gustavo Veiga, giornalista d’inchiesta, ha svolto un ottimo lavoro ricostruendo l’epopea di una squadra che giocava e faceva politica, per questo era così invisa ai generali e così amata, ancora oggi, da tutti coloro che si riconoscono negli ideali di quei ragazzi.

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I ragazzi del Rugby La Plata – Pietro Frattini

La sede della squadra – uno dei club più antichi del rugby argentino – è a Gonnet, alle porte di La Plata, novanta chilometri da Buenos Aires.

Una sede carica di storia con una targa che ricorda i giocatori del La Plata ammazzati o svaniti nel nulla durante gli anni della dittatura: diciassette giocatori, una intera squadra, eliminati uno dopo l’ altro dal regime dei militari a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta.

Tutto era cominciato con dieci minuti di silenzio, una domenica di aprile del 1975. Hernan Roca, mediano di mischia della terza squadra, era stato rapito e ammazzato pochi giorni prima. Non faceva politica, in testa aveva solo lo studio ed il rugby. Lo avevano prelevato da casa gli incappucciati scambiandolo per suo fratello Marcelo che stava con i Montoneros, il gruppo radicale della sinistra peronista. Quando si erano accorti di avere preso il ragazzo sbagliato, se n’ erano liberati ammazzandolo.

La domenica dopo il La Plata giocava in campionato contro il Champagnat. Andarono in campo con gli occhi rossi e chiesero di fare un minuto di silenzio per il loro mediano. Venne dato il calcio d’ inizio, poi l’ arbitrò fischiò di nuovo. Ma quando finì il minuto nessuno si rimise a giocare. Ne passarono due, ne passarono tre. Dieci minuti così, fermi sull’ erba. Interminabili. Sapevano che era un rischio ma pensavano che era impossibile che avrebbero ucciso un’intera squadra di rugby solo per questo. Ma non fu così.

Nel giro di due anni la furia cieca di Videla e degli altri generali che con lui compongono il famigerato “triumvirato”, decimano l’ intero club bonaerense, tutti del primero equipo, della prima squadra, tutti amici tra loro, tutti (o quasi) studenti di architettura spariscono uno dopo l’altro. E insieme a questo gruppetto, svaniscono le compagne, le mogli (una, incinta, verrà liberata un mese dopo), le amiche.

Dice Barandarian, il sopravvissuto: «Mi chiedo da sempre come sia accaduto che siamo stati l’ unica squadra a soffrire tutto questo in una percentuale così alta. Quando iniziammo a giocare a rugby, alla fine degli anni Sessanta, eravamo da poco usciti dal Collegio Nazionale, che dipende dall’ università di La Plata. Credo che quella formazione da scuola pubblica ci abbia segnati: eravamo tutti ragazzi attenti a quello che accadeva intorno a noi, e fare politica fu una scelta naturale. I vertici della società si rendevano conto di quel che accadeva in spogliatoio: ma non ci hanno mai chiesto niente, né ci hanno mai discriminato».

E Pablo, il figlio di Balut: «Anche oggi, poco lontano dal campo del La Plata c’ è una favela. Ecco, credo che mio padre e i suoi compagni sapessero guardare cosa c’ era fuori dal campo da rugby».

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Rugby Club La Plata, i desaparecidos della palla ovale – Fabio Casalini

Nel bar del Rugby Club La Plata ancora oggi sono appese le fotografie di alcuni dei venti giocatori che facevano parte della squadra negli anni settanta: uomini che sparirono, probabilmente uccisi, per mano del terrorismo di stato. Vicino a quell’immagine una targa, del 2006, che ricorda il trentennale del colpo di stato in Argentina ed il settantaduesimo compleanno della nobile squadra di rugby de La Plata.

Per comprendere cosa accadde ai giocatori della squadra di rugby dobbiamo fare un passo indietro: si ritene che tra il 1976 ed il 1983, in Argentina, sotto il regime della Giunta militare, siano scomparsi almeno 30.000 dissidenti o sospettati tali. Le modalità di sequestro e sparizione delle vittime fu ideata per raggiungere due obiettivi: il primo era quello di evitare quanto si verificò in seguito al Golpe cileno del 1973 (che aveva portato al potere la giunta militare guidata da Pinochet) dove le immagini dei dissidenti all’interno dello stadio di Santiago del Cile avevano fatto il giro del mondo, sollevando l’indignazione di cittadini e capi di stato. Il secondo era quello di terrorizzare la popolazione poiché la mancata diffusione delle notizie riguardanti i dissidenti limitava fortemente ogni altro possibile dissenso al regime.

Le modalità di sparizione dei dissidenti risultano sconcertanti: gli arresti avvenivano mediante rapimento grazie all’operato di squadre non ufficiali di militari. Questi terroristi di stato giungevano a bordo di una Ford Falcon verde scuro senza targa, piombando nelle abitazioni di notte con l’intento di sequestrare intere famiglie. L’assoluto mistero sulla sorte dei rapiti fece si che le stesse famiglie delle vittime tacessero per paura. La conseguenza principale di questa procedura fu che, in Argentina ma soprattutto nel resto del mondo, tale fenomeno rimase ignorato.

Le vittime una volta arrestate venivano rinchiuse in luoghi segreti di detenzione. I sequestrati venivano torturati per mesi. La sorte di molti fu terribile. Secondo testimonianze degli stessi militari coinvolti, molti desaparecidos, questo il nome con il quale sono conosciute le vittime del terrorismo di stato argentino degli anni settanta, furono imbarcati a bordo di aerei militari, sedati e lanciati nel Rio de la Plata, o nell’oceano. La quasi totalità di queste persone fu gettata dagli aerei con il ventre squarciato da una coltellata affinché fossero divorati dagli squali. Questa tipologia di omicidio di stato divenne nota come vuelos de la muerte. Una seconda parte dei rapiti sparì nei centri di detenzione clandestini. Uno di questi, rimasto celebre, ebbe sede nella scuola di addestramento della Marina Militare ESMA di Buenos Aires.

Il massimo responsabile di questi raccapriccianti avvenimenti fu Jorge Rafael Videla, generale e dittatore dell’Argentina tra il 1976 ed il 1981. Videla arrivò al potere con un colpo di stato ai danni di Isabelita Peron. Il suo governo fu contrassegnato dalle costanti violazioni dei diritti umani e dai contrasti frontalieri con il Cile, che per poco non sfociarono in una sanguinosa guerra tra i due paesi sudamericani. Fu condannato a due ergastoli e 50 anni di carcere per crimini contro l’umanità. Scontò la pena in un carcere di Buenos Aires durante gli ultimi anni della sua vita, che si concluse il 17 maggio del 2013. Il suo regime dittatoriale, militarista ed anticomunista, è stato paragonato al fascismo dai suoi oppositori.

Torniamo al bar del Rugby Club La Plata. La targa inaugurata nel 2006, come anticipato, non ricorda una vittoria, ricorda i giocatori della squadra di rugby ammazzati, o spariti, durante gli anni della dittatura militare. Furono diciassette i giocatori ad essere eliminati, uno dopo l’altro, dalle squadre della morte di Videla. Sparirono tutti: i piloni, le tre quarti ala, i tallonatori e le terze linee. Sparì il capitano Mariano Montequin. Sparì la coppia di mediani. Solo uno riapparve: Otilio Pascua, il numero 10. Il mediano di apertura, praticamente il regista della squadra, non riapparve vivo: il suo corpo fu ripescato in un affluente del Rio Lujan dopo, circa, un mese di permanenza in acqua. Pascua fu rinvenuto con un peso attaccato ai piedi e le braccia legate dietro la schiena.

Perché il regime decise di eliminare i giocatori di una squadra di rugby?

Tutto iniziò nell’aprile del 1975.

Hernan Roca, mediano della terza squadra, sparì nel nulla. Hernan non era un dissidente politico, era un semplice ragazzo dedito al rugby. Le squadre della morte lo prelevarono da casa scambiandolo per il fratello Marcelo, appartenente ai Montoneros, un gruppo radicale della sinistra peronista. Quando i rapitori si accorsero d’aver prelevato il ragazzo sbagliato lo ammazzarono e si liberarono del corpo.

Una domanda sarà corsa nella mente dei più attenti: ma se la dittatura iniziò nel 1976, perché Hernan Roca fu rapito ed ucciso nel 1975?

Già prima del Golpe militare erano attive le squadre della morte della Tripla A, ovvero Alianza anticomunista argentina.

Dopo il rinvenimento del cadavere del povero Hernan cambiò radicalmente l’atteggiamento dei ragazzi del Rugby Club La Plata. Alcuni scelsero di emigrare all’estero, la maggior parte decise di rimanere e di continuare a giocare a rugby. Decisero anche di iniziare a fare politica. I ragazzi coniugarono la passione sportiva con la militanza politica ed all’interno dello spogliatoio si formò una cellula del PCML, il partito marxista-leninista argentino. I ragazzi del Rugby Club La Plata continuarono a giocare. E vincere. Purtroppo iniziarono anche le sparizioni. Gli assassini di stato. Ogni giocatore prelevato dalle squadre della morte veniva sostituito da un ragazzo delle squadre giovanili. Un solo giocatore della squadra iniziale rimase in vita, Raul Bandarian. Fu grazie a lui che la storia dei 17 desaparecidos della squadra di rugby de La Plata venne conosciuta da tutto il mondo.

Ritengo sia interessante concludere con le parole di Raul Bandarian: «Mi chiedo da sempre come sia accaduto che siamo stati l’ unica squadra a soffrire tutto questo in una percentuale così alta. Quando iniziammo a giocare a rugby, alla fine degli anni Sessanta, eravamo da poco usciti dal Collegio Nazionale, che dipende dall’università di La Plata. Credo che quella formazione da scuola pubblica ci abbia segnati: eravamo tutti ragazzi attenti a quello che accadeva intorno a noi, e fare politica fu una scelta naturale. I vertici della società si rendevano conto di quel che accadeva in spogliatoio: ma non ci hanno mai chiesto niente, né ci hanno mai discriminato».

Bibliografia
Miguel Bonasso, Ricordo della morte, il Saggiatore, 2012

Enrico Calamai, Niente asilo politico. Diplomazia, diritti umani e desaparecidos, Feltrinelli, 2006

la Repubblica, Quei ragazzi del rugby. La squadra desaparecida, 2 aprile 2006

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La Plata Rugby Club

(Pubblicato da IL POLTRONAUTA)

Quelle rare volte nelle quali la RAI trasmetteva un incontro di rugby erano queste le parole con le quali mio padre mi faceva capire che non ne voleva più sapere, e a poco valeva il fatto che la cronaca della partita fosse affidata (come al solito) ad un nostro vicino, Mirko Petternella, il Nando Martellini del rugby (o forse sarebbe più giusto dire che Nando Martellini era il Mirko Petternella del calcio).

Pronunciata la sua sentenza, di norma alla seconda mischia, mio padre si alzava dalla poltrona e andava sul tavolo in cucina a finire la sua Settimana Enigmistica, e mi lasciava da solo a cercare di capire quel rebus fatto di omoni con maglie larghe, orecchie consumate da sfregamenti continui, tutti impegnati a recuperare una palla ovale che rimbalzava a caso.

Facile intuire che  il rugby non poteva diventare lo sport preferito della mia gioventù, a dire il vero lo ignorai per anni, un po’ per snobismo veneziano, visto che si tratta dello sport più amato da rovigotti (più correttamente detti rodigini), trevigiani e padovani, insomma dai sudditi della periferia dell’impero, e un po’ perché se non l’hai giocato, difficilmente lo puoi amare davvero. Aggiungiamoci poi che all’epoca i giocatori erano tutto fuorché glamour, spesso in sovrappeso, con maglie larghe a nascondere i muscoli (comunque poco segnati), nessun tatuaggio, nessun atteggiamento da rockstar.

Negli ultimi tempi, da quando il rugby è diventato di moda, ho continuato a non seguirlo più di tanto, sempre per snobismo (com’è squallido salire sul carro dei vincitori…) ma anche perché, per chi è cresciuto nei campi da calcio della provincia come me, dove l’arbitro è un’autorità da imbrogliare e dove quasi sempre ci si mena più in tribuna (in mancanza degli ultras ci sono sempre i genitori) che sul campo, questa storia del terzo tempo non mi è mai andata giù.

Mi rifiuto di credere che a fine partita, magari pure persa, si finisca a bere tutti assieme, a fare grigliate con i genitori della squadra che ti ospita, il tutto poi con quel sorriso cucito sul volto di chi sa di essere dalla parte del giusto, inconsciamente grato di non essere un umile plebeo che calcia un pallone rotondo.

Ma di nuovo, lo spirito del rugby è una cosa che difficilmente si può capire standone fuori, come faccio io.

Un mio amico ha giocato per anni in una squadra amatoriale che, come spesso capita nelle squadre amatoriali, era politicamente monocolore (o tutti rossi, la maggioranza, o tutti neri, la minoranza).

La sua squadra era (è) completamente rossa, tranne che per un tizio, un gigante di muscoli con la scritta “Patria, onore e libertà” tatuata sulla schiena, giusto per non lasciare dubbi sul suo orientamento politico, ma durante le partite questo non contava, non ha mai intaccato la fiducia del mio amico che sapeva che quando giochi in una squadra sei parte di un unico organismo, tu guardi le spalle dei tuoi compagni e loro le tue.

Perché il rugby è fatto così.

Il 24 marzo 1976 il tenente generale Jorge Rafael Videla, nominato da pochi mesi capo dell’esercito argentino dalla presidente Isabelita Peron (ex ballerina di nightclub, terza moglie del “compianto” Peron) decide che ne ha le scatole piene di quel governo e organizza un colpo di stato, a sgombrare il campo da ogni parvenza di democrazia, iniziano così i cinque anni di una delle dittature più feroci dell’epoca moderna.

Dire che tutti i guai iniziarono nel 1976 non sarebbe corretto, visto che i sicari del governo Videla, la tripla A (Alleanza Anticomunista Argentina) erano attivi e sostanzialmente impuniti da almeno tre anni, infatti anche l’inizio di questa storia (che ho ascoltato nella trasmissione radiofonica “Numeri primi”, recuperate il podcast, quasi meglio de Il Poltronauta) è precedente al golpe di Videla & friends.

Tutto inizia il 27 marzo 1975, quando uno squadrone della tripla A sequestra uno studente di medicina, simpatizzante di sinistra, tale Hernan Francisco Rocha. Il giorno dopo, venerdì santo, il suo corpo viene trovato senza vita, trafitto da 21 proiettili, bendato e con le mani legate dietro la schiena. Con ogni probabilità i sicari della AAA hanno commesso un errore, il Rocha che cercavano non era Herman, ma suo fratello Marcelo, lui sì impegnato politicamente, attivista del movimento dei Monteneros.

Il più grande peccato di Hernan era quella di giocare nel La Plata Rugby Club, che al tempo ha la fama di essere una Escuela de guerilleros (scuola di guerriglieri) perché quasi tutti i giocatori sono iscritti ad associazioni di sinistra, ma principalmente quei giocatori sono solo dei ragazzi che amano soprattutto il rugby ed infatti, in modo un po’ goliardico fra di loro dicono (scherzando) di far parte dell’Esercito rivoluzionario del cigno (cioè “de noantri”).

Per tutti gli avversari e per i tifosi invece loro sono Canarios, i canarini, grazie al giallo dei colori sociali che ricordano da lontano quelli del Boca Juniors.

La domenica successiva all’omicidio i Canarios devono giocare una partita del campionato, i compagni di Hernan Rocha sanno esattamente chi l’ha ucciso, non possono far finta di niente, esigono ed ottengono che venga rispettato un minuto di silenzio prima del fischio di inizio.

I giocatori de La Plata Rugby Club si stringono così in un unico abbraccio e per un lungo, infinito minuto se ne stanno in silenzio a metà campo, l’arbitro fischia, ma i giocatori non si muovono, passa un altro minuto, poi un altro ancora, solamente alla fine di 10 interminabili minuti i Canarios decidono che si può giocare.

Dieci minuti di silenzio che dicono molto più di mille parole, è un’accusa senza precedenti ad una dittatura ancora ufficiosa, fatta da parte di giovani di varie estrazioni sociali, legati però dallo spirito del rugby.

Tra i tanti difetti che hanno normalmente i militari di una dittatura quasi sempre c’è la mancanza di fair play, e certamente Videla & friends non fanno eccezione, infatti decidono che un gesto del genere, una provocazione così grave non può restare impunita.

Mentre ascolto la storia alla radio (storia che è anche uno spettacolo teatrale scritto da Claudio Fava) mi sembra impossibile che quei ragazzi abbiano avuto un tale coraggio, ma è anche questo che ti insegna il rugby, un modo di vivere più che un semplice sport, fatto di educazione, sforzo, rispetto, silenzio, lavoro, altruismo e soprattutto molta umiltà.

Come ha detto Raul Barandiaran (ora architetto), all’epoca giocatore dei Canarios (ma non presente nella partita dei dieci minuti di silenzio, e per questo “graziato”) in occasione della prima dello spettacolo teatrale:

“Sapevamo ciò che stava accadendo, però i nostri 20 o 23 anni di quell’epoca ci facevano sentire invulnerabili. Percepivamo i pericoli che la militanza implicava, però non si arrivava a comprendere che ‘eliminare la sovversione’ significava eliminare una forma di pensare”

I generali decidono che tutti i giocatori dovranno pagare quei dieci minuti di silenzio assordante, e con calma pagheranno tutti, chi ucciso a casa, qualcuno mentre va al lavoro,  oppure rapiti dopo l’allenamento, comunque sempre in silenzio, questa volta alleato dei generali.

Il primo è Pablo del Rivero, ha 24 anni quando l’8 luglio 1975 sparisce nel nulla, l’ultimo è Julio Alberto Alvarez, volatilizzato il 28 giugno 1978, 3 giorni dopo la vittoria dell’Argentina ai mondiali di calcio, in mezzo altri 14 Canarios, quasi tutti vanno ad ingrossare le fila dei desaparecidos, che come ebbe a dire una volta il generale Videla (con una certa dose di black humor): ” (un desaparecido) Non è né morto né vivo, possiamo solamente sperare che un giorno torni.”

Faccio spoiler, nessuno dei Canarios desaparecido è mai tornato.

Ecco, forse se mio padre avesse saputo di questa storia mentre la RAI trasmetteva le partite dallo stadio di Rovigo, lui, vecchio partigiano per il quale l’Argentina era quello che l’Oceano Indiano era per Salgari, magari si sarebbe innamorato del rugby. E non mi avrebbe lasciato da solo a decifrare quelle mischie nel fango.

In fin dei conti il rugby è uno sport socialista, dove il proletariato si unisce e da singoli (quasi) indifesi diventa un pugno chiuso spinto da cosce muscolose, uno sport dove per avanzare passi la palla indietro, dove l’aiuto viene sempre dai compagni che non ti lasciano mai da solo, uno sport dove si vince e, soprattutto, si perde sempre assieme.

Nel 2007 Videla, che non ha mai avuto nessun pentimento pur ammettendo la sua responsabilità diretta nella morte di 8.000 persone, scontava la pena (in realtà ne scontò una frazione) nel carcere “Marcos Paz” di Campo de Mayo, a Buenos Aires. Ad un giornalista che gli chiese se i fantasmi del passato lo tormentassero, rispose di avere qualche “peso sull’anima”, ma che ciò non gli impediva di dormire benissimo.

Beato lui, io faccio fatica ad addormentarmi la sera se durante la giornata ho preso un bus senza biglietto

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Il rugby, i desaparecidos ed il bisogno di lottare – Mauro Presini

Andrea De Rossi, terza linea della squadra italiana di rugby che partecipò da capitano alla Coppa del Mondo del 2003, una volta disse: “Nel rugby la fortuna non conta. Contano il fisico, il cuore, l’intelligenza e la voglia di lottare.”
Forse i dittatori militari, in Argentina a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, hanno deciso di ammazzare diciassette giocatori della squadra di rugby de La Plata proprio perché quei ragazzi sapevano resistere lottando con il fisico, il cuore e l’intelligenza.
L’unico sopravvissuto, Raul Barandiaran Tombolini, capitano di quella squadra, racconta: “Mi chiedo da sempre come sia accaduto che siamo stati l’unica squadra a soffrire tutto questo in una percentuale così alta. Quando iniziammo a giocare a rugby, alla fine degli anni Sessanta, eravamo da poco usciti dal Collegio Nazionale, che dipende dall’Università di La Plata. Credo che quella formazione da scuola pubblica ci abbia segnati: eravamo tutti ragazzi attenti a quello che accadeva intorno a noi e fare politica fu una scelta naturale
O forse li hanno assassinati perché quei ragazzi sapevano osservare la realtà, dentro e fuori dal campo di rugby e, avendo frequentato la scuola e l’Università pubblica, non avevano imparato le lezioni di remissività incluse nel pacchetto degli istituti privati religiosi.
Oppure li hanno eliminati perché il regime pensava che, essendo Ernesto Che Guevara il rugbista argentino più famoso, quella squadra non potesse essere altro che un covo di rivoluzionari che si ispirava a lui.
Era il 24 marzo 1976 quando il controllo dell’Argentina fu assunto da una triade di comandanti: il tenente generale Jorge Rafael Videla, l’ammiraglio Emilio Eduardo Massera e il generale di brigata Orlando Agosti.
Controllo significò, tra le altre cose, lo scioglimento dei partiti politici e del Parlamento, l’annullamento di tutte le attività politiche e sindacali, il controllo della Corte di Giustizia, la censura, l’abolizione della libertà di stampa e di espressione.
La dittatura militare avviò il cosiddetto “Proceso de reorganización nacional” che prevedeva l’instaurazione di un sistema economico neoliberista e l’allontanamento della “minaccia comunista” anche attraverso il rapimento e l’uccisione di tutti gli oppositori politici.
Fu il maggior genocidio nella storia del Paese: 30 mila desaparecidos e 500 bambini rubati, secondo le madri di Plaza de Mayo, circa 8 mila morti ammazzati secondo lo stesso Videla.
Dopo il fallimento della dittatura e la rovinosa guerra delle Falkland, il 15 dicembre 1983 il nuovo presidente Raul Alfonsin istituì la Comisiòn Nacional sobre la Desapariciòn de Personas che aveva come obiettivo quello di chiarire i fatti successi durante il regime militare.
Le conclusioni a cui giunse la Commissione, presieduta dallo scrittore Ernesto Sabato, possono essere riassunte con queste parole riportate nel capitolo conclusioni del Nunca Mas: “È possibile affermare che – contrariamente a quanto sostenuto dagli esecutori di questo piano sinistro- non si perseguì solamente i membri di organizzazioni terroriste, ma si contano a migliaia le vittime che non ebbero mai alcun rapporto con tale attività e che tuttavia furono oggetto di orrendi supplizi per la loro ferma opposizione alla dittatura, per le loro lotte sindacali o studentesche, per essere intellettuali che criticavano il terrorismo di stato, o, semplicemente, per essere familiari o amici di qualcuno considerato sovversivo.
Era un venerdì santo quando il gruppo paramilitare della Triple A (Alleanza Anticomunista Argentina) rapì Hernan Francisco Roca detto “Mono“, il mediano di mischia, mentre era a casa del padre.
Lo avevano confuso con Marcelo, suo fratello che era militante tra i Montoneros.
Dopo qualche giorno il corpo di Hernan fu trovato con le mani legate dietro alla schiena, gli occhi bendati e ventuno colpi di arma da fuoco nel corpo che gli avevano sbriciolato le ossa.
La domenica successiva al ritrovamento del cadavere di “Mono” era prevista una partita; i giocatori dello Champagnat, per solidarietà, proposero un rinvio ma i compagni del “Mono” vollero giocare ugualmente.
Il capitano del La Plata Rugby Club chiese ed ottenne un minuto di silenzio in memoria del mediano ucciso.
Scrive Claudio Fava nel suo libro “Mar del Plata“, in cui narra la storia della squadra “desaparecida“:
… perché un minuto passa lento come la vita, come la morte è lento, avanza piano, segna il passo, canta strofe tutte uguali, un minuto è un rumore di secondi che non s’incontrano mai. Invece finiscono, l’arbitro fischia e allora succede quello che nessuno immagina, però succede che in campo nessuno si muove, in tribuna nessuno si siede, restano tutti immobili, rigidi, le braccia lungo i fianchi, la palla dimenticata a terra, tutti ad aspettare che il tempo cammini ancora un po’ perché un minuto è poco, poco per il Mono, poco per quella morte di merda, filo di ferro attorno ai polsi, la canna di una pistola che spinge sulla nuca […]
No, un minuto non basta, ne serve un altro, e un altro ancora, e intanto tutti fermi, incatenati, impegnati a dilatare quel tempo, a renderlo lungo come la vita che toccava al Mono e che invece gli hanno strappato, aveva 17 anni, figli di puttana, 17 anni, pensate che ci basti un minuto?
Ne passano cinque. Poi sei.
Tanto nessuno ha fretta di fare, nessuno ha fretta di dimenticare.
Otto minuti. Nove. Dieci. Dieci minuti durò quel silenzio”.
Ma dieci minuti di silenzio furono un affronto troppo grande per la dittatura e i militari non perdonarono quel gesto di sfida.
Lo cita alla lettera Ernesto Sabato, scrivendo che il fatto era stato definito dal regime: “di grave provocazione da tenere nella considerazione dovuta“.
Da quel momento l’accanimento sui “canarios” (i ragazzi di La Plata  aveva la maglia gialla) fu minuzioso, anche per la fama con cui la squadra veniva chiamata: “Escuela de guerrilleros”.
Gli stessi giocatori di La Plata si presero beffa anche di quella definizione e la trasformarono in “Eserjito revolucionario del cisne”, cioè “Esercito rivoluzionario della burla”.
Dopo Hernan Roca detto “Mono” toccò al mediano d’apertura Otilio Pascua che venne trovato mesi dopo in un fiume, con i segni delle torture e mani e piedi legati.
La lista dei giocatori del La Plata Rugby Club ammazzati o scomparsi diventò via via tragicamente lunga: Santiago Sánchez Viamonte, Mariano Montequín, Pablo Balut, Jorge Moura, Rodolfo Axat, Alfredo Reboredo, Luis Munitis, Marcelo Bettini, Abel Vigo Comas, Eduardo Navajas, Mario Mercader, Pablo del Rivero, Enrique Sierra, Julio Álvarez, Hugo Lavalle. A dispetto di tutto ciò, la squadra guidata dal burbero allenatore Hugo Passarella, continuava a vincere nonostante mettesse in campo i giocatori provenienti dalle squadre giovanili.
Continuava a vincere di fronte allo sguardo

nero dei generali schierati in tribuna perché nel rugby, come nella vita, contano il fisico, il cuore, l’intelligenza e la voglia di resistere lottando.
Claudio Fava, in uno dei suoi viaggi in Argentina, ha letto gli articoli di Gustavo Veiga, giornalista del periodico Pagina 12, ed il capitolo del libro “Deporte, desaparecidos e dictatura” dedicato a quei giocatori di rugby che hanno pagato un prezzo altissimo,  rispetto a sportivi di altre discipline.
Così ha scelto di dare un’anima a quegli articoli e di scrivere “Mar Del Plata” in cui racconta, in maniera semplice ma appassionante, la storia di quella squadra di rugby “desaparecida”, riuscendo inoltre, anche attraverso scene epiche, a renderla poeticamente potente.
Questa la sinossi del libro di cui consiglio calorosamente la lettura.
Immaginate un giocatore di rugby.
Teso, attento, pronto allo scatto e a resistere alle cariche, ai placcaggi, a tutto. Solo che quest’uomo non è un giocatore di rugby come gli altri: lo si capisce quando comincia a raccontare quella partita, e le altre cento che l’hanno preceduta.
Si chiama Raul, è argentino e la squadra per cui sta giocando non esiste più. Morti, tutti, durante gli anni della dittatura. Lui è l’unico sopravvissuto. Una squadra di fantasmi. Che un tempo era la squadra più forte d’Argentina.
Un tempo funesto, il 1978. Qualcuno si illude che lo sport sia un terreno neutrale e che altrove, lontani dal campo di rugby, stiano anche i generali e la repressione di un regime che in pochi anni farà ventimila morti.
Che c’entriamo noi con la dittatura? Noi che diamo l’anima sul campo?
Poi uno di quei ragazzi, uno che di mestiere fa l’operaio e in fabbrica parla e pensa ad alta voce, scompare. La domenica successiva i suoi compagni chiedono un minuto di silenzio prima della partita.
Invece di minuti ne passano dieci.
 Dal giorno dopo cambia tutto. Mentre l’Argentina si prepara a trasformare i campionati del mondo di calcio del 1978 nella vetrina del regime, tra la giunta militare e quei ragazzi si accende una sfida che non prevede armistizi. Uno dopo l’altro i giocatori spariscono: ma per ogni giocatore ucciso, un ragazzino del vivaio viene promosso titolare. E così, mentre il mondo celebra l’Argentina campione del mondo di calcio fingendo di non sapere cosa stia accadendo, i ragazzi del Rugby La Plata continuano a giocare, a vincere, a parlare ad alta voce. E a morire. Dei titolari ne resta in vita solo uno: Raul. L’ultima di campionato si porta in campo una squadra di ragazzi. Giocano, e vincono. Per la giunta militare, che assiste con le divise tirate a lucido dal palco d’onore, sarà l’inizio della fine. Una storia vera, raccontata con la passione, l’amore e il rispetto che meritano i grandi eventi della Storia.
Alla fine di “Mar Del Plata”, Claudio Fava, avanza una tesi interessante: le dinamiche applicate dalla dittatura argentina sono le stesse messe in atto dalla mafia siciliana.

Giornalista, scrittore, sceneggiatore del film “I cento passi”, deputato di Sinistra Ecologia e Libertà, vicepresidente della Commissione Parlamentare Antimafia, Claudio Fava è figlio di Giuseppe Fava, fondatore de “I Siciliani”, giornalista, scrittore, drammaturgo assassinato dalla mafia a Catania nel 1984.

Fonti:
Los rugbiers desaparecidos de “La Plata Rugby Club”
Gustavo Veiga, Un try en homenaje a la memoria, Pagina 12, 9 maggio 2004.
Gustavo Veiga, En el nombre del padre, Pagina 12, 15 maggio 2011.
Arquivo Público do Estado do Rio Grande do Sul, I Jornada de Estudos sobre Ditaduras e Direitos Humanos, PortoAlegre/RS, 2011, 456 p.
Julian Axat, En busca de Abigail, el desaparecido 18 de La Plata RugbyDiagonales.com, 22 febbraio 2013.
I desaparecidos della palla ovale, http://tangorosso.blogspot.it/
Claudio Fava “Mar Del Plata” Ed. Add, 2013

da qui

Los rugbiers desaparecidos de “La Plata Rugby Club”
La Plata Rugby Club cuenta con 17 jugadores que fueron desaparecidos durante la dictadura. En esos años muchos le decían “escuela de guerrilleros”.
Familiares y amigos reconstruyen sus historias para Miradas al Sur.

1.- Durante los años de la última dictadura, a La Plata Rugby Club muchos lo llamaban “escuela de guerrilleros”. Se decía que algunos de sus jugadores eran militantes comprometidos políticamente en un momento donde comprometerse políticamente no era lo “correcto”. Entonces: los persiguieron, los filmaron, los fotografiaron hasta en los entrenamientos. Hay quienes aseguran que había jugadores que marcaban a otros jugadores. Y así, con el paso de aquellos siniestros años, La Plata Rugby Club se transformó en la institución deportiva a nivel mundial con más jugadores desaparecidos o asesinados por una dictadura política: tiene 17 jugadores desaparecidos.

2.- El rugby es un deporte de equipo en el que se avanza siempre hacia adelante pero mirando hacia atrás. Por eso, para hablar del pasado, mejor indagar en el presente. En sus hijos, en sus hermanos, en sus ex compañeros. Hay una especie de comunión entre ellos: se mueven juntos como hermanados por el silencio del recuerdo, como si por unos instantes tuvieran que conectarse con su pasado, un pasado que es presente. Entonces uno de ellos se larga con una anécdota, y así, se van largando todos y van caminando y avanzando hacia una parte del pasado, hacia una parte de sus vidas.

3.- Para reconstruir estas historias hay que empezar hablando con el arquitecto y ex jugador Raúl Barandiarán. Estuvo dentro de la cancha con muchos de los jugadores desaparecidos. Eran sus amigos, los pibes con los que se iba de vacaciones, los integrantes de esas anécdotas. Raúl recuerda detalles, conversaciones, palabras, fechas. Cuenta que jugó con Mariano Montequín y Santiago Sánchez Viamonte y Jorge Moura. Su memoria es parte de una construcción. No permite que los recuerdos su hundan en el pasado. Al contrario, con ellos edifica, levanta montañas de recuerdos, construye a partir de la destrucción que puebla su pasado. Miradas al Sur le pidió que cuente cómo se vivía en esa época el día a día dentro del club. Raúl se acuerda de que “cuando volvió Perón en el ’73 todos los del equipo hicimos una asamblea en la casa de Hernán Roca, para ver quiénes iban a recibirlo. Los más zurdos decidimos no ir, pero sí los que ya tenían inclinaciones peronistas. Al otro día, en el entrenamiento, nos contaron cagándose de risa cómo les pasaban las balas en el medio del acto en Ezeiza. Así se vivía la cosa”. Y agrega: “Si hubiésemos sabido que iba a pasar lo que pasó, hubiésemos tomado más precauciones. Eran tan inteligentes, absolutamente distintos: me sorprende que con la inteligencia que tenían estos pibes, hayan podido derrotarlos.” Sobre la relación con sus compañeros en el club, Raúl, con nostalgia, recuerda: “Cada uno dentro del grupo cumplía un rol. Dentro del club, en broma, nos hacíamos llamar el ‘Ejército Revolucionario del Cisne'”. Hay un recuerdo que a Raúl lo conmueve. Cuenta que “para un seven fuimos a entrenar a San Bernardo porque mis viejos tenían casa allá. Yo había ido con Otilio (Pascua), y cuatro o cinco días después vinieron Santiago (Sánchez Viamonte), Mariano (Montequín) y los dos Mendy. Estábamos en la playa y ellos llegaron caminando con un bolsito cada uno. Hasta el ’90, que falleció mi viejo, yo veraneé ahí, y siempre que iba a la playa miraba hacia el sur esperando que vuelvan, que aparezcan ellos a lo lejos, otra vez con el bolsito”.

4.- Federico Moura es músico. Tiene el nombre y la nariz y los ojos de su tío, el fallecido líder de Virus. Es hijo del ex jugador y militante del ERP Jorge Moura. Una vez que empieza a hablar de su viejo, se larga, es como si por mucho tiempo hubiera estado sosteniendo el silencio dentro de su pecho. Ahora no. Vuelve a sacar la historia a la que se enfrentó de grande, la historia con la que también hizo música. “A mi viejo lo secuestraron en marzo del ’77 en la casa de mis abuelos, en City Bell. Un grupo de tareas disfrazado de operarios de Segba. Al tiempo de que estuviera detenido clandestinamente, mi abuelo movió contactos que tenía en ese entonces, y alguien le dijo que lo iban a poder ver una vez más. Mis abuelos se encontraron en el Parque Pereyra con mi viejo, lo vieron por última vez, les dijo que estaba bien y nunca más volvieron a verlo.”

¿Cómo hizo para enfrentarse con eso? “La historia de mi viejo la construí de más grande. Cuando pasó yo tenía cinco años. Dicen que uno borra, no sé por qué. Pero sí, hay como un bloqueo de los recuerdos. A los 13 años ya tenía conciencia de lo que había pasado con mi viejo. Lo asumí, lo incorporé y ahí me quedé. Y a los 25 empecé a escribir música, como si estuviera buscando en esa forma de arte algo de conexión con mi pasado”. Después de unos segundos en silencio, agrega: “Pero lo que me sigue comiendo la cabeza es cómo se murió, imaginarme la situación por la que pasó, cómo fueron sus días, qué le hicieron. El otro día se murió el viejo de un amigo, fui al velorio y vi el cadáver. Desde marzo del ’77 hasta el día de hoy no sé qué pasó con mi viejo. Pero lo acepto, es así.”

5.- Hernán Rocca escribía. Araceli Rocca escribe. Araceli muestra un diario que había escrito su hermano. Un diario que es pura nostalgia y corazón y fotos de la época y resultados y observaciones y teorías acerca del juego, de todo tiene ese diario. En la última página hay un recorte, un recordatorio de un periódico de la época. Una mano anónima de la familia lo pegó ahí. El recorte dice: “Hernán Francisco Rocca, falleció el 28 de marzo de 1975”. Y ese recorte cierra el diario. Araceli habla de la historia de su hermano, de cómo se encontró con ella a través de la escritura. “Soy profesora de lengua y literatura. Ahora estoy escribiendo sobre mi hermano, haciendo algunas entrevistas con amigos y compañeros de él. Necesito dejar un testimonio de todo eso, contar lo que pasó. En mi familia no se hablaba nunca del tema. Un día, buscando entre las cosas de él, encontré su diario de viaje. Contaba que se había ido al sur y que llevaban libros de política y la guitarra. Su equipaje era eso. Tenía 20 años e hizo 10 mil kilómetros para tocar la guitarra y discutir de política”.

“Nosotros algo sabíamos en su momento. Hernán aparentemente había estado militando en la Juventud Peronista, pero no le dábamos mucha importancia. Del que teníamos más miedo era de mi otro hermano, Marcelo, porque sabíamos que militaba en un grupo de izquierda”, dice Araceli. “Antes de su desaparición -sigue-, Hernán llamó a uno de sus mejores amigos y lo invitó a tomar un café y le dijo que no militaba más. Lo mismo nos dijo a todos nosotros. La idea era proteger a su familia y su entorno, si militaba o no, la verdad que no lo sabíamos. El único que me dice que militaba es Raúl Barandiarán”. Raúl la mira, asiente y lo vuelve a confirmar.

Araceli continúa: “Nos llamó la atención que cuando el club hizo la gira a Europa, él, que era capitán, no quisiera ir. Dijo que se quería casar y que quería dar unas materias. Era raro que el capitán se quisiera perder el viaje de su vida con sus amigos”. La cuestión fue que ese jueves 27 de marzo rindió una materia, y a la tarde fue a entrenarse al club. Su novia y una amiga lo habían acompañado al entrenamiento y a las chicas les llamó la atención que había un Torino filmando a los jugadores. Cuando le avisaron, él dijo: “¿Qué, van a filmar un entrenamiento? Si los chicos están de gira en Europa. No tiene sentido”. Continúa Araceli: “De ahí se fueron todos a un asado y en el camino la chica insistió que los estaba siguiendo un auto. Hernán volvió a insistir en que no tenía sentido”. Cuando Hernán llegó a su casa, su padre sintió el ruido del auto y dijo: “Ahí vino Hernán”. Pero el auto volvió a salir a toda velocidad. “Esa misma madrugada apareció en Magdalena muerto con 21 balazos y los ojos vendados”, dice Araceli. El recuerdo vuelve de la mano con el dolor. “Hay que meterse en la cabeza de ellos, dejar a tus hijos para ir a luchar por un ideal. Para mí fueron héroes”.

6.- Verónica Sánchez Viamonte también es arquitecta. Da clases de Historia en la Facultad de Arquitectura de la Universidad Nacional de La Plata. Mira con unos ojos puros, una sonrisa amplia, como si por un efecto visual uno encontrara ese gesto siempre en una incontenible expansión. Asegura que tiene cosas de su padre, de Santiago, que según los que saben, fue uno de los mejores jugadores de toda la historia de La Plata Rugby Club. “Tengo recuerdos que no sé si los inventé o eran reales. Mis recuerdos son una parte inventados, parte de lo que me cuentan, y parte con lo que yo me quedo de lo que me cuentan. Por ejemplo, que mi viejo me llevaba en moto al jardín, y nunca tuvo moto. A mí eso no me lo sacás, si me sacás eso me muero”.

Verónica recuerda la historia familiar: “Yo tenía tres años; mi hermana dos. Vivíamos en Mar del Plata. Habíamos ido para allá por una cuestión de militancia de mis viejos: formaban parte del PCML, el Partido Comunista Marxista Leninista. Una semana antes de que desaparecieran, hubo un ‘operativo escoba’ donde barrieron a muchos del partido. Entonces mi mamá llamó a mis abuelos y les dijo que estaba enferma y que nos fueran a buscar. Mi abuela fue a la terminal de Mar del Plata, y mi viejo estaba ahí con nosotras dos. Nos fuimos con mi abuela, que siempre dice que en ese momento tuvo la sensación de que no lo iba a ver más a mi viejo”.

Verónica fue buscando la verdad desde chica. “Tenía una compañera y amiga en el colegio, Lucía, que era también hija de desaparecidos. A ella le habían dicho que los padres estaban en África; y a mí me decían que estaban en Mar del Plata. Y entonces nuestra conclusión era que si en África hay arena y en Mar del Plata también hay arena, nuestros padres habían sido tragados por arenas movedizas. Esa fue nuestra idea hasta que Lucía, un día en el colegio, me dijo que había visto el noticiero y que parecía que no eran las arenas movedizas, sino que matan gente. Así que empezamos a sospechar que por ahí no era África ni las arenas movedizas, sino que pasaba otra cosa”.

“Hasta que un día -añade Verónica-, cuando había asumido Alfonsín, estábamos en el auto con mi tía. Ella iba adelante, se dio vuelta y nos dijo: ‘Les voy a decir la verdad, a los papás de ustedes se los llevaron, yo no se los dije antes porque yo los estoy buscando todavía, no puedo creer que los hayan matado’. Cómo me iban a decir que estaban muertos si ellos mismos no lo querían creer. Yo siempre me crié con la verdad, pero toda la vida estuve esperando a que mis viejos vuelvan. De la escuela me quería ir a mi casa para ver si mi vieja estaba ahí haciéndome la leche.”

7.- Para contar la historia de Julián Axat primero uno debe decir que es poeta. También, defensor del fuero penal juvenil de La Plata. Defiende la palabra, la verdad, la suerte de los que no tienen suerte. Hay algo en su forma de ser, una tranquilidad que parece a punto de estallar, una mirada alejada pero cálida. Cuando Miradas al Sur le pide que hable de sus padres, la voz se le vuelve una sombra y mira hacia un punto donde no hay nada más que recuerdo: “Yo tenía siete meses. Mi mamá trabajaba como bibliotecaria en la Facultad de Derecho y mi papá era empleado del frigorífico Swift de Berisso. Militaban en Montoneros. Mi viejo ya había dejado de jugar en el club a los 18 años. Sabían que los habían cantado, tenían un dato de que los venían siguiendo. Mi abuelo les ofreció salir, y mi viejo no aceptó, decidió seguir yendo a su trabajo igual. En el frigorífico había una fuerte intervención militar; él militaba ahí adentro: además de ser obrero, militaba. Había hecho una radicalización política, porque salió del club se metió en la facultad y terminó de obrero”.

Axat se refiere a al proceso de proletarización que sostuvieron muchos partidos en esos años. “En ese momento Montoneros había sacado los Documentos de la proletarización, que buscaban organizar que determinados militantes se encuadraran dentro de la vida del obrero. A mi viejo le tocó entrar en los frigoríficos Swift, y ahí quedó. Lo pusieron como responsable de Montoneros dentro del frigorífico.

Tenía siete personas a su cargo, siete obreros. Antes de chupar a mi viejo, chuparon a dos obreros. El 12 de abril del ’77 estaban durmiendo en el centro de La Plata en la casa de mi abuela. A mí me habían dejado con mis abuelos y mis tíos. Se sabe que se los llevaron esa noche y a partir de ahí no se supo más nada. Sí supimos después por algún testigo que estuvieron en el centro clandestino La Cacha, pero después no se supo nunca más nada”.

Julián dice que jugó al rugby muchos años. Su padre, su abuelo, sus tíos. Todos jugaron al rugby. “Mi abuelo era un obsesivo de este club. Venía desde cuando se llamaba Gimnasia y Esgrima de La Plata. Crió a sus tres hijos acá adentro. Mi tío Raúl llegó a jugar en primera. Y la anécdota es que cuando mis viejos desaparecieron, mi abuela siguió pagando la cuota durante años y años al cobrador que venía del club. Le pagó a mi viejo durante 35 años la cuota todos los meses”.

8.-Y será esa cuota del club que una madre le sigue pagando a su hijo, porque lo espera, porque lo va a esperar siempre. O ese viaje en moto con papá, aferrándose al recuerdo de su pecho vibrante, inolvidable. O esa canción que se le canta al pasado, porque se lo enfrenta con cada grito que sale del alma, porque en cada nota hay un pedazo de dolor. O ese cuaderno mítico, con esas líneas garabateadas, con esas fotos que hablan, que siguen hablando, que hablaran siempre desde un presente que será perpetuo, joven, brillante. O esos tres pibes amigos que alguien, todavía, espera volver a ver, llegando desde el horizonte, desde el crepúsculo, la noche y el día, presente y pasado, justo esa línea, justo ahí, esperando para siempre a que vuelvan a ellos, que estarán vivos mientras existan estas palabras, estas personas que los recuerdan, que los mantienen vivos, encendidos en el recuerdo, como la luz del sol en el horizonte, que aunque parezca que se apaga, que ya deja de brillar, está ahí brillando, y estará siempre.

Los que ya no están

Lista completa de jugadores de La Plata Rugby Club desaparecidos o asesinados por la dictadura: Santiago Sánchez Viamonte (desaparecido), Mariano Montequín (desaparecido), Otilio Pascua (asesinado), Hernán Rocca (asesinado), Pablo Balut (desaparecido), Jorge Moura (desaparecido), Rodolfo Axat (desaparecido), Alfredo Reboredo (desaparecido), Luis Munitis (desaparecido), Marcelo   Bettini (asesinado), Abel Vigo Comas (desaparecido), Eduardo Navajas (desaparecido), Mario Mercader (desaparecido), Pablo del Rivero (asesinado), Enrique Sierra (asesinado), Julio Álvarez (desaparecido), Hugo Lavalle (sin datos).

da qui

 

parla Raúl Barandiarán, l’unico sopravvissuto della squadra:

 

ecco uno dei documentari tratti dal libro di Gustavo Veiga, Deporte, Desaparecidos y Dictadura (QUI si può leggere quel libro)

 

QUI su Raiplay

QUI si possono vedere gli altri documentari tratti dal libro di Gustavo Veiga

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Un commento

  • Tra i molti articoli interessanti dell’edizione odierna di Le monde diplomatique in edicola oggi con il manifesto, segnalo una bella recensione all’edizione aggiornata di “Deportes, Desaparecidos y Dictadura”, libro scritto dal giornalista di Pagina 12 Gustavo Veiga.

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