Roboarte

di Fabrizio (“Astrofilosofo”) Melodia

«Man mano che la computer grafica diverrà sempre più sofisticata e flessibile, vedrai che arriveremo al giorno in cui all’osservatore di un’opera d’arte sarà impossibile stabilire la differenza fra un lavoro eseguito a pennello e uno completamente realizzato al computer… Forse a quel tempo i robot avranno

avranno già cominciato a dipingere esseri umani… Sai, mi piacerebbe vivere abbastanza a lungo per assistere alla prima “interpretazione” artistica di un essere umano realizzata da un robot»: così affermava lo scrittore Alan Dean Foster (autore di «Alien» e del ciclo di Flinx) in una vecchia intervista.Piacerebbe anche a me assistere a questa evoluzione delle creature che dal giocatore di scacchi attivato da un nano all’interno si sono poi davvero sviluppate fino a raggiungere livelli di perfezione, sino a sfiorare l’avvento dell’intelligenza artificiale.
I robot hanno o avranno un’anima? La loro essenza può commutarsi in bellezza? O – meglio ancora – quale concetto di bellezza e di orrido possono avere le creature di metallo e circuiti integrati?
Molti artisti si sono avvicendati con ottimi risultati a delineare l’evoluzione estetica della macchina, la quale da computer gigantesco e immobile pieno di valvole e relè ha potuto essere dotato di un telaio adatto a dar libertà di movimento e azione.
Artisti come l’italiano Marco Patrito e l’olandese Karel Thole (questo geniaccio si era trasferito a Milano con la famiglia nel 1958, dunque giovane) hanno rappresentato al meglio – il primo con la computer grafica mentre il secondo con il pennello, colori a tempera e svariate tecniche miste – questa prima evoluzione, come provano le loro copertine sulla rivista Urania.
«L’eclettissimo tecnico di Thole ha dello stupefacente nei sessantanni di lavoro pieno che ha consacrato all’illustrazione editoriale, eccolo svariare dalla matita al carboncino, dai neri di china ai grigi di gomma arabica, da qualche incisione su lastra alle acrobazie dello scraper board (la difficile tecnica di graffiar via segni bianchi da cartonicini preventivamente ricoperti di una patina nera: un metodo in cui pochi possono permettersi di eccellere), per finire con la più tarda policromia delle tempere italiane» commenta argutamente Ferruccio Geromini, nel catalogo della mostra delle illustrazioni allestita dalla Galleria Nuages di Milano e dedicata al maestro olandese che lui paragona, per lo stile gotico e metafisico tendente all’onirico, al suo compatriota Hieronimous Bosch.

Diventato copertinista ufficiale dei “Romanzi di Urania” dal 1959 – sostituendo Kurt Ceasar – Karel Thole ne diventerà la colonna portante fino alla sua ultima copertina del 1998, realizzata per il romanzo «Picatrix la scala dell’inferno» di Valerio Evangelisti, rappresentando con pennellate secche e decise, con uno stile che varia da quello sobrio di un Albrecht Durer fino all’espressionismo di un Edvard Munch, una tipologia di robot, alieni e situazioni che hanno catturato per molte generazioni l’immaginario collettivo.
Marco Patrito ha dimostrato come si possa rappresentare robot iper-realistici anche nei servomeccanismi pur mantenendo una certa eleganza degna del miglior Pininfarina o, meglio ancora, del designer Bruno Munari, capaci di integrare funzionalità, bellezza e organicità.
«In alcune mie illustrazioni ho immaginato un periodo della storia umana in cui i robot vengono distribuiti capillarmente tra gli esseri umani, mimetizzati da una sottile pellicola di maquillage olografico. Per qualche secolo i robot saranno distaccati dal genere umano e antropomorfizzati, per permetterci di valutare al meglio le loro potenzialità. Cyborg, androidi, robot ed esseri umani finiranno con il fondersi in un’unica razza, anche se per frenare l’integrazione per molto tempo si cercherà di lasciare scoperte alcune parti metalliche a guisa di tatuaggi» scrive il noto illustratore fantascientifico torinese Maurizio Manzieri, riguardo alla propria arte che è ispirata anche dal lavoro di Patrito, donando persino maggiore corposità meccanica alla naturale evoluzione della bellezza e “umanità” robotica.
I suoi robot sono a un notevole grado di iper-realismo, reso ancora più pregnante dalla plasticità dei corpi ottenuta con un sapiente uso della “texturizzazione” (tecnica computerizzata con la quale si conferisce maggiore o minore corposità a una superficie realizzata elettronicamente, come ad esempio l’effetto realistico della pelle per una figura umana realizzata con il software Maya) e con l’uso estremo del colore come mezzo espressionistico e patinato, arrivando a un grado d’impatto notevole di espressività forte.
«Ciò che soprattutto mi impressiona dell’arte di Maurizio Manzieri è la giustapposizione fra elementi hi-tech di sapore futuristico e l’umanità dei suoi soggetti. Le agili curve delle sue modelle, per esempio, poste contro la superficie fredda e dura dei robot, oppure il braccio meccanico della donna nella
Dama di Glasgow. L’influenza di artisti classici italiani quali Caravaggio (di cui Manzieri mi fece cenno) appare piuttosto chiaramente in questo quadro con la sua posa gentile e col viso in avanti e l’atteggiamento della donna simile quasi a quello di una madonna. Sebbene il soggetto sia un “bio-meccanicanismo”, la sua umanità ottimista rappresenta l’antitesi filosofica ed emotiva delle pitture biomeccaniche di H. R. Giger, il creatore grafico di Alien. Manzieri imprime una delicatezza stupenda al mezzo della realizzazione digitale che quasi sempre (soprattutto quando descrive soggetti di origine umani) tende invece a essere dura e squadrata. Con il mezzo digitale che diventa sempre più sofisticato e flessibile, dobbiamo attenderci il giorno in cui sarà impossibile per l’osservatore riconoscere la differenza fra opere artistiche realizzate con pennello e colori e realizzazioni eseguite interamente all’interno del computer. Forse per allora i robot inizieranno a ritrarci. Spero di vivere abbastanza a lungo per vedere la prima “interpretazione” artistica di un essere umano da parte di un robot»: così scrive di lui il già citato Alan Dean Foster.
H. R. Giger è un caso a sé: molto più vicino a Bosch e quindi a Karel Thole, per i suoi riferimenti estetici al surrealismo di Salvador Dalì e alla “Wiener Schule des Phantastischen Realismus” con particolare riferimento ai disegni onirici e infernali di Ernst Fuchs, oltre che al poeta William Blake e ai pittori Preraffaeliti. Atipico nel panorama dell’illustrazione fantascientifica.
Affascinato fin da bambino da certe tematiche ritenute disturbanti dalla maggior parte delle persone, ben supportato dai genitori che però non comprendono appieno le tendenze del figlio, Giger eccelle nella tecnica dell’acrilico dato ad aerografo, con l’utilizzo di un bicromismo essenziale e inquietante, con la quale regalerà le sue opere più note al grande pubblico, realizzando le illustrazioni delle creature che egli definisce “biomeccanoidi”, sorta di macchine organiche, organismi futuribili in cui metallo e carne si fondono.
Risultano talmente veri e tridimensionali da rappresentare vere e proprie “fotografie dell’Inferno”, un realismo esasperato a rappresentare soggetti irreali e onirici, spesso con venature sensuali e perturbanti. Non per nulla, il suo lavoro fu notato da Alejandro Jodorowsky proprio per realizzare gli ambienti e i personaggi degli Harkonnen, per realizzare il suo film tratto dal romanzo «
Dune» di Frank Herbert, progetto che non andò in porto ma che valse la conoscenza di Giger al regista Ridley Scott, il quale lo invitò a lavorare per «Alien», aiutato dall’italiano Carlo Rambaldi e dall’amico Jean Giraud, in arte Moebius, di cui ho parlato in blog ampiamente in un articolo precedente.
Un altro artista meno noto ma la cui opera è paradossalmente famosissima, è Frank Kelly Freas: è lui a firmare infatti una delle illustrazioni più note delle copertine Urania, usata quasi ovunque, vista in diverse antologie robotiche di Isaac Asimov: parlo di quella che ritrae un robot gigantesco che tiene nella mano un essere umano apparentemente ferito gravemente.
L’emozione che ne scaturisce è unica: non sappiamo se il robot ha causato il ferimento, si presume mortale, dell’umano, ma lo sguardo dolente dell’automa senziente la dice lunga sull’empatia che scorre fra uomo e macchina, a dispetto dei luoghi comuni.
Un dolore molto simile – secondo me – a quello provato da Michelangelo Buonarroti durante la realizzazione della “
Pietà Rondanini”. Ormai ultra ottuagenario, vi lavorò fino a pochi giorni prima della morte, ottenendo un Cristo e una Madonna dolenti che sembrano venire fuori a forza dalla pietra.
Emblematiche le illustrazioni dei robot dell’artista americano Donato Giancola, illustratore oltre che di classici di fantascienza, anche di Tolkien e di molte carte del gioco di carte collezionabili «Magic: The Gathering». In due di esse si possono ammirare 2 robot che tengono nelle mani l’universo intero, osservato con un misto di curiosità infantile e assenza totale di emozione.
«Il piacere estetico consiste in gran parte nel fatto che, immergendoci nello stato di contemplazione pura, noi ci liberiamo per un istante da ogni desiderio e preoccupazione; ci spogliamo in certo qual modo di noi stessi, non siamo più l’individuo che pone l’intelligenza a servizio del volere, il soggetto correlativo alla sua cosa particolare, per la quale tutti gli oggetti divengono moti di volizione, bensì, purificati da ogni volontà, siamo il soggetto eterno della conoscenza, correlato all’Idea»: così scriveva il filosofo Arthur Schopenhauer nel suo ponderoso e fondamentale «
Il mondo come volontà e rappresentazione».
Potrebbe essere proprio questo il salto evolutivo che porta all’umanizzazione completa dell’intelligenza artificiale? Arrivare a quella volontà che tanto angustia le vicende dell’essere umano? Il concetto del bello e del piacere si esplica proprio nel poter osservare, scevri di passioni e interessi personali, l’opera d’arte in sé, come rappresentazione della volontà di vivere, eternata nel suo fluire continuo e caotico.
Il robot potrebbe rappresentare l’essere umano come mai egli si è visto prima, nemmeno… lontanamente. Una rappresentazione artistica scevra dalla volontà e quindi autenticamente “bella”, di quella bellezza assoluta che tanto piace all’animo disinteressato, ovvero non condizionato da altro.
«Se l’intuizione estetica non è se non l’intuizione intellettuale divenuta obiettiva (cioè fatta oggetto, opera d’arte), s’intende di per sé che l’arte sia l’unico vero ed eterno organo e documento insieme della filosofia, il quale sempre e con novità incessante attesta quel che la filosofia non può rappresentare esternamente, cioè l’inconscio nell’operare e nel produrre, e la sua originaria identità con il cosciente. Appunto perciò l’arte è per il filosofo quanto vi è di più alto» scrive Friedrich Schelling nel «
Sistema della filosofia trascendentale».
Quale intuizione intellettuale può avere un robot, che inconscio, quale voce della natura, che cosa in sé può operare a livello di assonanza per oggettivarsi nel processo artistico?
Il robot è qualcosa di simile a noi ma allo stesso tempo profondamente diverso, ben rappresentato dagli illustratori che ho preso in esame.
Quanto fanno sorridere i robot sexy? Proprio per quella categoria per cui si accosta umano e meccanica, sessualità e cultura hi-tech. Perché continuare a ritenere che essi debbano necessariamente assomigliarci per potersi definire una “forma di vita” e non accettarli per quello che essi stessi sono, ovvero una forma di vita completamente diversa da quella dei loro “padri”?
Un robot può dunque perseguire il concetto di mimesi, di imitazione?
In tal caso, la
mimesis ideale per un robot sarebbe dunque la fantascienza.
Eccoci dunque in un circolo ricorsivo, dove il bello, la filosofia dell’arte e il senso artistico rappresentano se stessi senza davvero uscire dai propri schemi.
L’arte robotica è troppo diversa e troppo poco “umana”, magari gli androidi alla fine troveranno un aspetto che a loro piace di più di quello umanoide, oppure scegliere di assomigliarci in tutto e per tutto.
Mi piacerebbe assistere a un incontro fra un robot e Vincent Van Gogh sul ponte ologrammi dell’ Enterprise, lasciando che discutano animatamente su arte, colori e passione. Penso che a Vincent passerebbe la voglia di suicidarsi e il robot potrebbe sbizzarrirsi con una tavolozza di colori senza pari.
«Dipingere degli uomini e delle donne con un non so che di eterno […] mediante la vibrazione dei nostri colori […] il ritratto con dentro il pensiero, l’anima del modello […] esprimere l’amore di due innamorati con il matrimonio di due colori complementari, la loro mescolanza e i loro contrasti, le vibrazioni misteriose dei loro contrasti […] esprimere la speranza con qualche stella. L’ardore di un essere con un’irradiazione di sole calante […] non è forse una cosa che esiste realmente?» scriveva proprio Van Gogh in una delle sue lettere.
Non sarebbe lo stesso per un robot? Cioè rappresentare il mondo esterno se non con un accostamento di codici cromatici che computano un proprio linguaggio matematico. Non è forse arte, il linguaggio matematico? Ovvero, non è forse possibile esprimere le emozioni attraverso il codice di una equazione complessa?
Qui per ora si ferma il mio breve viaggio, con più domande che risposte, avendo toccato molti mondi e aperto mille porte, nel tentativo non di tracciare una mappa geografica ma di stabilire una rotta verso qualcosa di ancora troppo indefinito.
Per approfondire
Maurizio Ferraris, “Estetica razionale”, Cortina, 1997.
Alexander Di Bartolo e Filippo Forcignanò, “Estetica e filosofia dell’arte. Un’identità difficile”, AlboVersorio, 2006.
Friedrich Schelling, “Philosophie der Kunst” [1859], Wissenschaftliche Buchgesell-schaf, 1974.
Federico Vercellone, Alessandro Bertinetto, Gianluca Garelli, “Storia dell’estetica moderna e contemporanea”, il Mulino, 2003.
Federico Vercellone, Alessandro Bertinetto, Gianluca Garelli, “Lineamenti di storia dell’estetica. La filosofia dell’arte da Kant al XXI secolo”, il Mulino, 2008.
Georg Bertram, “Arte. Un’introduzione filosofica”, Einaudi, 2008.
Giulio Angioni, “Sentire”, in “Fare, dire, sentire: l’identico e il diverso nelle culture”, il Maestrale, 2011
Alfred Gell, “Art and Agency: An Anthropological Theory”, Oxford, Clarendon, 1998.
Theodor W. Adorno, “Filosofia dell’arte”, traduzione italiana, Fratelli Bocca Editori, 1953.

 

Redazione
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Un commento

  • Sul tema arte e robot, segnalo una notizia di qualche giorno fa dal sito web della BBC, mica paglia. Uno studioso propone un test alternativo al famoso test di Turing per stabilire se un’intelligenza artificiale è paragonabile a quella umana. Lo chiama il test di Lovelace, che non è Linda Lovelace di “Gola profonda”, ma Ada Lovelace aka Ada Byron, considerata l’autrice del primo vero programma da fare eseguire a una macchina in modo automatico della storia. Il test consiste nel chiedere al robot di essere creativo, per esempio componendo una poesia o realizzando un dipinto. Maggiori info qui, con link anche all’articolo scientifico (in inglese, sorry dibbì):

    http://www.bbc.com/news/technology-30144069

    Mi chieso se Teotronico e gli altri robot cui si accompagna dibbì recentemente potrebbero fare il test di Lovelace (nel senso di Ada). Curiosamente non vedo un accenno alla musica, ma non ho studiato bene la materia.

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