Roma, 19 luglio 1943: la violenza della guerra…

.. la pagano tutti, a cominciare dai più deboli

Settimo appuntamento con «I falconi della settimana» – Pensieri di libertà in libertà con Sergio Falcone

Fernanda Pivano, Allen Ginsberg, Ettore Sottsass jr & friends, Pianeta fresco, numero 1, dicembre 1967. «La rivista» raccontava Fernanda Pivano «era uno shock grafico ma anche il contenuto non scherzava. C’era la poesia Con chi essere gentile di Ginsberg […] c’era il Prajna Palamita Sutra in edizione trilingue (giapponese, inglese, italiana) alla quale lavorammo con Ginsberg quasi un mese […], una serie di slogans illustrati (per esempio un cimitero di guerra con la scritta: “Siano lodate le patrie, quelle sbagliate e anche quelle giuste”, una pagina bianca con una goccia di sangue sotto la scritta “Buon Natale” e sopra la didascalia: “Una goccia di sangue di quelli che saranno ammazzati nelle guerre giuste ed ingiuste del 1968”».

Roma, 19 luglio 1943. La violenza della guerra la pagano tutti, a cominciare dai più deboli

[…] Una di quelle mattine Ida, con due grosse sporte al braccio, tornava dalla spesa tenendo per mano Useppe. Faceva un tempo sereno e caldissimo. Secondo un’abitudine presa in quell’estate per i suoi giri dentro al quartiere, Ida era uscita, come una popolana, col suo vestito di casa di cretonne stampato a colori, senza cappello, le gambe nude per risparmiare le calze, e ai piedi delle scarpe di pezza con alta suola di sughero. Useppe non portava altro addosso che una camiciolina quadrettata e stinta, dei calzoncini rimediati di cotone turchino, e due sandaletti di misura eccessiva (perché acquistati col criterio della crescenza) che ai suoi passi sbattevano sul selciato con un ciabattio. In mano, teneva la sua famosa pallina Roma (la noce Lazio durante quella primavera fatalmente era andata perduta).

Uscivano dal viale alberato non lontano dallo Scalo Merci, dirigendosi in via dei Volsci, quando, non preavvisato da nessun allarme, si udì avanzare nel cielo un clamore d’orchestra metallico e ronzante. Useppe levò gli occhi in alto e disse: “Lioplani”. E in quel momento l’aria fischiò, mentre già in un tuono enorme tutti i muri precipitavano alle loro spalle e il terreno saltava d’intorno a loro, sminuzzando in una mitraglia di frammenti.

Useppe! Useppeee!” urlò Ida, sbattuta in un ciclone nero e polveroso che impediva la vista: “Mà, sto qui” le rispose, all’altezza del suo braccio, la vocina di lui, quasi rassicurante. Essa lo prese in collo, e in un attimo le ribalenarono nel cervello gli insegnamenti dell’UNPA (Unione Nazionale Protezione Antiaerea) e del Capofabbricato: che, in caso di bombe, conviene stendersi al suolo. Ma invece il suo corpo si mise a correre senza direzione. Aveva lasciato cadere una delle sue sporte, mentre l’altra, dimenticata, le pendeva ancora al braccio, sotto al culetto fiducioso di Useppe. Intanto, era incominciato il suono delle sirene. Essa, nella sua corsa, sentì che scivolava verso il basso, come avesse i pattini, su un terreno rimosso che pareva aratro, e che fumava. Verso il fondo, essa cadde a sedere, con Useppe stretto fra le braccia. Nella caduta, dalla sporta le si era riversato il suo carico di ortaggi, fra i quali, sparsi ai suoi piedi, splendevano i colori dei peperoni, verde, arancione e rosso vivo.

Con una mano, essa si aggrappò a una radice schiantata, ancora coperta di terriccio in frantumi, che sporgeva presso di lei. E assestandosi meglio, rannicchiata intorno a Useppe, prese a palparlo febbrilmente in tutto il corpo, per assicurarsi ch’era incolume. Poi gli sistemò sulla testolina la sporta vuota come un elmo di protezione.

Si trovavano in fondo a una specie di angusta trincea, protetta nell’alto, come da un tetto, da un grosso tronco d’albero disteso. Si poteva udire in prossimità, sopra di loro, la sua chioma caduta agitare il fogliame in un gran vento. Tutto all’intorno, durava un fragore fischiante e rovinoso, nel quale, fra scrosci, scoppiettii vivaci e strani tintinnii, si sperdevano deboli e già da una distanza assurda voci umane e nitriti di cavalli. Useppe, accucciato contro di lei, la guardava in faccia, di sotto la sporta, non impaurito, ma piuttosto curioso e soprapensiero. “Non è niente”, essa gli disse, “non aver paura. Non è niente”. Lui aveva perduto i sandaletti ma teneva ancora la sua pallina stretta nel pugno. Agli schianti più forti, lo si sentiva appena appena tremare:

Nente…” diceva poi, fra persuaso e interrogativo.

I suoi piedini nudi si bilanciavano quieti accosto a Ida, uno di qua e uno di là. Per tutto il tempo che aspettarono in quel riparo, i suoi occhi e quelli di Ida rimasero, intenti, a guardarsi. Lei non avrebbe saputo dire la durata di quel tempo. Il suo orologetto da polso si era rotto; e ci sono delle circostanze in cui, per la mente, calcolare una durata è impossibile.

Al cessato allarme, nell’affacciarsi fuori di là, si ritrovarono dentro una immensa nube pulverulenta che nascondeva il sole, e faceva tossire col suo sapore di catrame: attraverso questa nube, si vedevano fiamme e fumo nero dalla parte dello Scalo Merci. Sull’altra parte del viale, le vie di sbocco erano montagne di macerie, e Ida avanzando a stento con Useppe in braccio, cercò un’uscita verso il piazzale fra gli alberi massacrati e anneriti. Il primo oggetto riconoscibile che incontrarono fu, ai loro piedi, un cavallo morto, con la testa adorna di un pennacchio nero, fra corone di fiori sfrante. E in quel punto, un liquido dolce e tiepido bagnò il braccio di Ida. Soltanto allora, Useppe avvilito si mise a piangere: perché già da tempo aveva smesso di essere così piccolo da pisciarsi addosso.

Nello spazio intorno al cavallo, si scorgevano altre corone, altri fiori, ali di gesso, teste e membra di statue mutilate. Davanti alle botteghe funebri, rotte e svuotate, di là intorno, il terreno era tutto coperto di vetri. Dal prossimo cimitero, veniva un odore molle, zuccheroso e stantio; e se ne intravedevano, di là dalle muraglie sbrecciate, i cipressi neri e contorti. Intanto, altra gente era riapparsa, crescendo in una folla che si aggirava come su un altro pianeta. Certuni erano sporchi di sangue. Si sentivano delle urla e dei nomi, oppure: “anche là brucia!” “dov’è l’ambulanza?!” Però anche questi suoni echeggiavano rauchi e stravaganti, come in una corte di sordomuti. La vocina di Useppe ripeteva a Ida una domanda incomprensibile, in cui le pareva di riconoscere la parola casa: “Mà, quando torniamo a casa?” La sporta gli calava giù sugli occhietti, e lui fremeva, adesso, in una impazienza feroce. Pareva fissato in una preoccupazione che non voleva enunciare, neanche a se stesso: “mà?… casa?…” seguitava ostinata la sua vocina. Ma era difficile riconoscere le strade familiari. Finalmente, di là da un casamento semidistrutto, da cui pendevano i travi e le persiane divelte, fra il solito polverone di rovina, Ida ravvisò, intatto, il casamento con l’osteria, dove andavano a rifugiarsi le notti degli allarmi. Qui Useppe prese a dibattersi con tanta frenesia che riuscì a svincolarsi dalle sue braccia e a scendere in terra. E correndo coi suoi piedini nudi verso una nube più densa di polverone, incominciò a gridare:

Bii! Biii! Biiii!!”

Il loro caseggiato era distrutto. Ne rimaneva solo una quinta, spalancata sul vuoto. Cercando con gli occhi in alto, al posto del loro appartamento, si scorgeva, fra la nuvolaglia del fumo, un pezzo di pianerottolo, sotto a due cassoni dell’acqua rimasti in piedi. Dabbasso delle figure urlanti o ammutolite si aggiravano fra i lastroni di cemento, i mobili sconquassati, i cumuli di rottami e di immondezze. Nessun lamento ne saliva, là sotto dovevano essere tutti morti. Ma certune di quelle figure, sotto l’azione di un meccanismo idiota, andavano frugando o raspando con le unghie fra quei cumuli, alla ricerca di qualcuno o qualcosa da recuperare. E in mezzo a tutto questo, la vocina di Useppe continuava a chiamare:

Biii! Biiii! Biiiii!”

Blitz era perduto, insieme col letto matrimoniale e il lettino e il divanoletto e la cassapanca, e i libri squinternati di Ninnuzzu, e il suo ritratto a ingrandimento, e le pentole di cucina, e il tessilsacco coi cappotti riadattati e le maglie d’inverno, e le dieci buste di latte in polvere, e i sei chili di pasta, e quanto restava dell’ultimo stipendio del mese, riposto in un cassetto della credenza.

Andiamo via! Andiamo via!” disse Ida, tentando di sollevare Useppe fra le braccia. Ma lui resisteva e si dibatteva, sviluppando una violenza inverosimile, e ripeteva il suo grido: “Biii!” con una pretesa sempre più urgente e perentoria. Forse reputava che, incitato a questo modo, per forza Blitz dovesse rispuntare scodinzolando di dietro qualche cantone, da un momento all’altro.

E trascinato via di peso, non cessava di ripetere quell’unica buffa sillaba, con voce convulsa per i singulti. “Andiamo, andiamo via”, reiterava Ida. Ma veramente non sapeva più dove andare. L’unico asilo che le si presentò fu l’osteria, dove già si trovava raccolta parecchia gente, così che non c’era posto da sedersi. Però una donna anziana, vedendola entrare col bambino in braccio, e riconoscendoli, all’aspetto, per sinistrati, invitò i propri vicini a restringersi, e le fece posto accanto a sé su una panca.

Ida affannava, lacera, con le gambe graffiate, e imbrattata fin sulla faccia di un nerume unticcio, nel quale si distinguevano le ditate minuscole lasciatele da Useppe nell’appendersi al suo collo. Appena la vide accomodata alla meglio sulla panca, la donna le domandò sollecita: “Siete di queste parti?” E all’annuire silenzioso di Ida, le fece sapere: “Io no, vengo da Mandela”. Si trovava qui a Roma di passaggio, come ogni lunedì, per vendere i suoi prodotti: “Sono una rurale”, precisò. Qui all’osteria doveva aspettare un suo nipote, il quale, come ogni lunedì, l’aveva accompagnata per aiutarla e al momento dell’attacco aereo si trovava in giro per la città, chi sa dove. Correva voce che per questo bombardamento ci s’erano impiegati diecimila apparecchi, e che l’intera città di Roma era distrutta: anche il Vaticano, anche Palazzo Reale, anche Piazza Vittorio e Campo dei Fiori. Tutto a fuoco.

Chi sa dove si trova a quest’ora mio nipote? Chi sa se ancora funziona il treno per Mandela?”

Era una donna sui settant’anni, ma ancora in salute, alta e grossa, con la carnagione rosata e due buccole nere agli orecchi. Teneva sui ginocchi una canestra vuota con dentro un cércine sciolto; e pareva disposta ad aspettare il nipote là seduta con la sua canestra, magari per altri trecento anni, come il bramano della leggenda indù.

Vedendo la disperazione di Useppe che ancora andava chiamando il suo Bi con voce sempre più smorzata e fioca, tentò di divertirlo facendogli dondolare innanzi una crocetta di madreperla che portava al collo, appesa a un cordoncino:

Bi bi bi pupé! Che dici, eh, che dici?”

Ida le spiegò a bassa voce in un balbettio che Blitz era il nome del cane, rimasto fra le macerie della loro casa.

Ah, cristiani e bestie, crepare è tutta una sorte”, osservò l’altra, muovendo appena la testa con placida rassegnazione. Poi rivolta a Useppe, piena di gravità matriarcale e senza smorfie, lo confortò col discorso seguente:

Non piangere pupé, che il cane tuo s’è messo le ali, è diventato una palombella, e è volato in cielo”.

Nel dirgli questo, essa mimò, con le due palme alzate, il battito di due ali. Useppe, che credeva a tutto sospese il pianto, per seguire con interesse il piccolo movimento di quelle mani, che frattanto erano ridiscese sulla canestra, e là stavano, in riposo, con le loro cento rughe annerite dal terriccio. […]

Elsa Morante «La Storia. Uno scandalo che dura da diecimila anni», Einaudi 1974

Una annotazione doverosa. In quel libro c’è tutto quello che c’è da sapere. All’uscita de La Storia, tutta l’intelligenza della Sinistra insorge: “È meglio vendere patate al mercato che seminare disperazione”. Franco Fortini, chissà perché, latita e si nasconde.

«La Storia non solo non mi pare un libro felice, ma quello che più tradisce i limiti della Morante» scrive Rossana Rossanda, che non ho mai avuto il piacere di vedere in un corteo, al pari di altri leaders. Di quelli che non si sporcano le mani perché fanno gli intellettuali di professione, di quelli che, quando si spostano e fondano o cambiano organizzazione, camminano sempre con la poltrona incollata al sedere.

Alla luce della cosiddetta sconfitta e del tragico fallimento di tutte le rivoluzioni, chi aveva ragione? I comunisti più o meno ortodossi o Elsa Morante?

Non mi risulta che nessuno dei detrattori della scrittrice abbia avuto l’umiltà e il buon gusto di fare autocritica. Anzi.

A questo si aggiunge il fatto che la Giulio Einaudi editore ha censurato la copertina originale di quello che rimane uno dei più grandi romanzi mai scritti. Via la foto, drammatica e significativa, di Robert Capa e via anche il sottotitolo: «Uno scandalo che dura da diecimila anni».

Elsa Morante disperava sulle sorti del genere umano ed era arrabbiata col suo editore. Ora capisco.

Ma è alle 11:02 minuti che nella città si ode il suono acuto delle sirene, il segnale minaccioso dell’attacco aereo. Molti romani, che pure hanno notizia dei tremendi bombardamenti sulle altre città italiane, non se ne preoccupano: l’Urbe, la “città santa” non può essere attaccata dal cielo, Roma è patrimonio dell’umanità, a Roma c’è il papa, anche gli Alleati lo sanno. Che Roma sia inviolabile lo crede l’uomo della strada, ma lo credono anche i gerarchi e i generali…

Cadevano le bombe come neve
il 19 luglio a San Lorenzo
sconquassato il Verano
dopo il bombardamento
tornano a galla i morti
e sono più di cento.

Cadevano le bombe a san Lorenzo
e un uomo stava a guardare la sua mano
viste dal Vaticano
sembravano scintille
l’uomo raccoglie la sua mano
e i morti sono mille

E un giorno credi questa guerra finirà
ritornerà la pace ed il burro abbonderà
e andremo a pranzo la domenica fuori porta a Cinecittà
oggi pietà l’è morta
ma un bel giorno rinascerà
e poi qualcuno farà qualcosa
magari si sposerà

E il papa la mattina da San Pietro
uscì tutto da solo fra la gente
e in mezzo a San Lorenzo
spalancò le ali
sembrava proprio un angelo con gli occhiali

E un giorno credi questa guerra finirà
ritornerà la pace e il burro abbonderà
e andremo a pranzo la domenica fuori porta a Cinecittà
oggi pietà l’è morta
ma un bel giorno rinascerà
e poi qualcuno farà qualcosa
magari si sposerà.

Francesco De Gregori, San Lorenzo

«Un’altra canzone che ho composto sul bombardamento di San Lorenzo ha un’origine molto più banale. Un amico mi ha detto: “Sai che ho sognato? Che tu avevi scritto una canzone su San Lorenzo”. Ho detto: “Mi sembra un’idea stupenda!”. Mi sono messo al pianoforte e ho scritto una canzone. Le canzoni nascono veramente per caso, non c’è una regola, non c’è un’alchimia, non c’è niente di magico, c’è solo qualcosa di misterioso».

https://youtu.be/kHbv1X4Td5Q

Strillano nell’aria i cacciabombardieri
E sotto er coprifoco nun dorme la città.
Ma una mattina
Io me sò svejato ma tu non c’eri più.

Sotto i carcinacci, tutta San Lorenzo
Io me sò svejato ma tu non c’eri più.

Leggo sur muro li nomi de chi c’ha lasciato
Madri strazziate e fiji senza le madri.
Me l’ho legato ar dito ‘sto giorno ‘nfame
Questa è la guerra der duce, che bell’avvenire.

Se voi la libertà chiedi alla luna
Se voi dimenticà cerca fortuna.
Ma nun lo perdonà chi te rovina

Faje ‘na gabbia e tienilo a catena.

Il muro del canto, San Lorenzo 

https://youtu.be/EXH5_yJvmKI

https://youtu.be/hLCzSxeYx3Q

«Questa guerra è ingiusta perché è una guerra» (adesivo del Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa).

NELLE IMMAGINI «I DISASTRI DELLA GUERRA» DI FRANCISCO GOYA

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

La redazione – abbastanza ballerina – della bottega

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

3 commenti

  • Daniele Barbieri

    scrive Sergio, a proposito di Rossana Rossanda: «non ho mai avuto il piacere di vederla in un corteo, al pari di altri leaders. Di quelli che non si sporcano le mani perché fanno gli intellettuali di professione, di quelli che, quando si spostano e fondano o cambiano organizzazione, camminano sempre con la poltrona incollata al sedere». Io invece la Rossanda l’ho vista nei cortei e, nel corso degli anni, non mi è parsa incollata a qualche poltrona; ma soprattutto quando scattò l’infame «operazione 7 aprile» lei si schierò subito mentre tanti altri esitavano (in buon italiano: si cacavano sotto). E dunque io la tirerei fuori da questo discorso che peraltro è (purtroppo) giustissimo.

  • giuseppe callegari

    Prendo atto della precisazione di Daniele, ma credo che Sergio Falcone sia stato, per assurdo, anche troppo tenero nei confronti della piaga degli intellettuali di professione. Condivido totalmente l’analisi.

  • quello che mi ha fatto più schifo di rossana rossanda è stato ‘l’anno degli studenti’

    un vigliacco tentativo di essere ‘alla moda’, partecipando alla frenesia di voler vedere nella confusione degli ‘studenti’ (figli di ricchi, di borghesi, di parassiti sociali, … – figli di poveri, operai, raramente contadini, …) un nuovo tipo di omogeneo e, naturalmente,’rivoluzionario’ (chiedo perdono ai rivoluzionari morti nelle battaglie!) ‘attore sociale’

    la malafede cominciava e continuava sul ’68 ‘rivoluzionario’

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