Rose mi’-mi’ eden

un racconto di Samuele Mazzotti (*)

Ahi”. Giona stacca velocemente la mano, dopo aver preso la scossa. Il suo maestro, molto più vecchio di lui, lo guarda scuotendo la testa.

Cosa ti avevo detto?” gli ricorda per l’ennesima volta nella stessa giornata: “Bisogna afferrarle come se le dovessi accarezzare, non stringerle come se avessi un martello in mano”.

Il maestro Shutai è molto anziano: lavora da tutta la vita nel parco della Rimembranza, conosce ogni sentiero come le sue tasche, conosce le piante e le cura, fra le sue preferite ci sono le ‘Rose Cesna’.

Mi scusi Maestro, ma io…”.

Ma cosa? Sempre a lamentarsi, cosa mi vuoi dire, che questo non è il lavoro per te?” chiede il maestro, inchinandosi davanti alla rosa di colore giallo.

E’ così! Questo non è il mio lavoro” incalza Giona, gettando la paletta a terra.

Il vecchio Shutai raccoglie lo strumento e lo pulisce dalla terra e iniziando a scavare delicatamente vicino alla rosa chiede al giovane apprendista: “Cosa vorresti fare della tua vita allora?”.

Il ragazzo inizia a pensare mentre si morde il labbro superiore. Intanto il maestro giardiniere ripone la vanghetta nel suo borsello ed estrae piccole forbici dorate iniziando a potare delicatamente le rose vecchie.

Vorrei fare un lavoro d’ufficio oppure lavorare in un supermercato, come quasi tutti i miei amici. Ecco cosa vorrei fare” dice incrociando le braccia e assentendo anche col mento.

Il vecchio Shutai finisce la potatura, intanto Giona si guarda in giro spazientito.

Il maestro gli risponde: “Va bene, se è questo che desideri, domani telefonerò a tuo padre e gli riferirò i tuoi desideri”.

Evviva”. Giona salta di gioia: “Sì, benissimo”.

Però oggi finirai di aiutarmi, d’accordo?”.

Sbuffando un po’, Giona acconsente.

I due salgono in terrazza. In questo piano Giona non c’era mai stato, è gremito di Rose Cesna dai colori elettrificati che lanciano riflessi ovunque: è come essere immersi in un arcobaleno.

Questo è il mio gioiello. Io e mia moglie abbiamo lavorato qui tutta la vita” dice Shutai.

Sua moglie? Credevo che fosse celibe”.

Purtroppo ora sì, mia moglie è dipartita l’anno scorso. E’ stata lei a insegnarmi l’amore per la natura e soprattutto per le rose”.

Come si chiamava sua moglie?”.

Patrizia. Era della tua nazionalità”.

Mi dispiace tanto Maestro Shutai”.

Lo sai, io prima lavoravo per una multinazionale. Viaggiavo tutto l’anno, mi incontravo con colleghi e operai. Quando tornavo alla sede generale, avevo un ufficio più grande dell’appartamento in cui vivo. Quello era tutto il mio mondo. Mia moglie mi seguiva nei pellegrinaggi, senza mai smettere di coltivare le sue passioni. A volte io pensavo che fosse un po’ folle. Amava molto tutto ciò che cresce e credo che avrebbe voluto avere figli da crescere ma io gliel’ho impedito, pensando che la carriera venisse prima di tutto”.

Giona si siede su un cippo di pietra all’ingresso del terrazzamento e osserva il suo maestro con ammirazione mentre si occupa delle rose, con una delicatezza incredibile, quasi dovesse toccare una ragnatela bagnata dalla rugiada senza romperla.

Un giorno mi licenziarono. Venni accusato di aver rubato soldi. Cercai di dimostrare il contrario ma fu tutto inutile. Da allora nessuno mi ha voluto assumere. I primi mesi furono i più duri, spendemmo tutto in avvocati, fummo costretti vendere le nostre case e i nostri beni. Mia moglie alla fine vendette anche i gioielli, glieli aveva regalati sua madre il giorno delle nozze. Infine persi la causa. Se ti metti contro certa gente senza alleati influenti è come combattere contro un Idra: stacchi una testa, ne crescono due. Nei mesi successivi, scoprii che nessuno mi voleva più, il mio curriculum era macchiato. Passai tanto tempo a bere, sempre in casa, sporco. Patrizia cercò di spronarmi in ogni modo. Un giorno tornando a casa, mi trovò riverso sul pavimento, ero andato in coma etilico. Fu uno shock per lei, ma io volevo solo morire”.

Le farfalle volano in cerchio sulla testa del Maestro Shutai, Giona segue quei voli delicati pieno di meraviglia e con un sorriso negli occhi.

Quando mi svegliai in ospedale, ovviamente non sapevo dove ero. Ci vollero 6 mesi di terapia prima di uscire dall’istituto. Nel frattempo mia moglie aveva trovato un lavoro come lavapiatti. Appena finiva, tornava a casa e cercava di ridarmi quella luce negli occhi che un tempo possedevo. Un giorno decise che invece di un bel giardino era meglio avere un orto. A me sembrava un’assurdità e uno spreco di tempo. Ogni giorno mi invitava e io sedevo sul muretto dietro casa nostra a osservarla. Intanto fumavo dieci o dodici sigarette elettroniche. Lei mi raccontava quello che faceva. Un giorno mi ha messo in mano la gomma dell’acqua e mi ha spiegato come innaffiare, un altro giorno mi ha insegnato a potare le rose”.

Le nuvole corrono sulle loro teste, il profumo delle rose riempie l’aria circostante, le famiglie passano con i loro cani lungo il sentiero. Giona nota appena le persone, è distratto dalla natura che lo circonda.

Mi ritrovai ogni giorno nell’orto… senza sapere né quando né dove. Quando facemmo il primo raccolto, mia moglie mi disse che avevamo avuto il più grande dono del mondo. Lo sai che cos’era?”.

Giona guarda il suo maestro e imbarazzato risponde con un no tartagliante.

L’essere rimasto a casa non era una tragedia ma una benedizione. All’inizio credevo che trovarmi in una situazione di crisi fosse un fallimento personale. Mia moglie ribaltò la frittata, mi fece scoprire invece che era un dono. Prima non avevo tempo per nulla, il lavoro mi aveva logorato la mente, ogni cosa aveva importanza solo se aveva un costo. Invece nel momento in cui diventai povero, ho scoperto ciò che conta davvero nella vita. Finalmente vivevo ogni giorno alla giornata e con mia moglie mi dedicai alla natura, questa grande sconosciuta che ogni giorno di più sta scomparendo sul nostro pianeta. Fummo assunti in Comune come giardinieri e in questo parco abbiamo iniziato il nostro lavoro, è qui che abbiamo gettato i nostri semi”.

Giona non sa davvero che dire, è molto imbarazzato dal racconto personale del suo maestro, rimane in silenzio mentre Shutai continua a parlare.

Lo chiamammo il Parco della Rimembranza. Perché la gente rimembri quello che sta perdendo, quello che un giorno non ci sarà più. Domani inizierai un lavoro in ufficio, magari fra qualche anno sarai promosso e nel giro di un decennio forse sarai il responsabile del tuo reparto. Ogni giorno chiuso in quell’ufficio: vedrai solo un po’ di blu del cielo, sempre che non sia coperto dalle nubi acide. Forse un giorno ti ricorderai che hai avuto l’occasione di lavorare all’aria aperta, immerso nella natura, a curare piante bisognose delle tue cure. Piante che ti amavano e che tu amavi senza saperlo. Chissà forse da vecchio potresti tornare qui con nostalgia”.

Giona si alza e raggiunge il suo maestro sfoderando le forbici. Le impugna e le avvicina delicatamente alla giunzione della rosa, poco sopra alle due foglioline.

Sta per tagliare, quando il maestro lo mette in guardia.

Fallo come se dovessi accarezzare la guancia della tua fidanzata, dolcemente” gli suggerisce.

Concentrandosi Giona lentamente chiude le dita: le forbici tagliano la rosa, che cade nel palmo aperto.

Ce l’ho fatta! Maestro, ce l’ho fatta” esclama pieno di gioia.

Quella rosa è tua, tienila come ricordo” gli dice Shutai: “così mi penserai mentre sarai dietro la tua scrivania”.

Grazie Maestro” si inchina Giona.

Prima di chiudere il parco, Shutai sale alla cupola: è una serra traslucida, che si trova in cima al parco della Rimembranza. Nel centro del soffitto c’è l’oculus per far entrare gli uccelli, gli insetti e la pioggia. In mezzo al giardino sorge una piccola collinetta, sulla quale è posta una pietra. Per arrivarci bisogna fare tre scalini: Shutai li percorre velocemente e in cima fa un inchino. Le rose che circondano la pietra, come rianimate da un profumo a loro famigliare, si chinano e si piegano tutte all’unisono verso di lui.

Giona indicandole con l’indice e con voce tremante chiede: “Ma quelle che rose sono?”.

Shutai le bacia tutte e le accarezza delicatamente. Con un sorriso a labbra strette si gira verso Giona e gli fa cenno con la testa di raggiungerlo.

Il ragazzo con passo esitante sale i gradini. Le rose ondeggiano, sembrano quasi annusarlo, come per capire che persona sia. Arrivato in cima, vede alcune lettere sulla pietra, che si rivela la lapide della moglie del Maestro. Con riverenza si inchina a sua volta.

Quassù è sepolta mia moglie. Prima di morire mi ha chiesto di essere seppellita nella terra, senza la cassa, perché voleva diventare nutrimento per le sue amate piante” dice Shutai indicando le rose: “Loro sono le sue piccoline. Si chiamano Rose Mi-Mì Eden, sono anche dette ‘Rose El’…”.

Il maestro viene interrotto.

Fermi tutti!”. Un uomo in abiti neri, con un paio di occhiali scuri spunta all’improvviso. Nella mano destra impugna una pistola.

Ragazzo scendi dagli scalini” ordina il malvivente: “ora!” gli urla.

Incoraggiato da un buffetto di Shutai, Giona scende dagli scalini.

Usando la mano che impugna la pistola fulminatore e agitandola, l’uomo gli indica di allontanarsi. Da dietro la schiena si sfila un contenitore cilindrico che sventola davanti al vecchio.

Vecchio, taglia subito tre, quattro di quelle rose e buttale dentro questo cilindro”.

Perché tagliarle? Sono rose rare, potrebbero morire” consiglia con voce ferma Shutai.

Con sprezzo il malvivente gli risponde sputacchiando saliva e avvicinandosi al primo scalino: “Non me ne frega niente delle tue preoccupazioni, solo una di quelle rose vale una fortuna”.

Guardandolo seriamente Shutai gli dice: “Hai ragione, valgono una fortuna, ma non quella che intendete voi. Per mia moglie, che riposa qui sotto, erano come figli e figlie. I figli non sono forse tutto per i genitori?”.

L’intruso rimane per un attimo muto, forse anche lui è genitore e sta pensando a ciò che Shutai ha detto. Ma quando parla la sua voce è ferma, sembra riavere acquistato sicurezza: “Che figli e figli? Sono solo rose! Non dire stronzate e usa quelle forbici per tagliarle!, dice indicandole.

Shutai guarda le forbici, sembrano fatte per una mano piccola. Con uno scatto le pianta nel terreno e risponde: “Se vuoi le mie rose, tagliatele da solo”. Scende gli scalini andando accanto a Giona, abbracciandolo come per proteggerlo. Con un sussurro dice al ragazzo: “In questo momento l’unica vita che conta, è la tua” e gli fa l’occhiolino.

L’intruso percorre velocemente i tre scalini, appoggia il cilindro a terra e afferra le forbici, estraendole dal terreno, mentre tiene d’occhio il vecchio e il ragazzo che si trovano ai margini della collinetta.

Le rose al suo arrivo si sono piegate, come per allontanarsi da una persona sgradita.

Strette le forbici tra le dita, l’uomo vestito di nero ne apre le lame e circondando lo stelo delle rose le chiude di scatto.

La luce rischiara tutta la serra. L’urlo disumano squarcia le orecchie. Il dolore dell’uomo si trasmette in tutta la serra. Il puzzo di capelli e unghie che bruciano riempie la cupola sulla collina.

Quando il vecchio e il ragazzo riaprono gli occhi vedono che a terra, lontano dalla collinetta, giace un cadavere carbonizzato.

Ti stavo finendo di dire che sono anche dette ‘Rose Elettriche’, molto pericolose se le tagli con questo tipo di forbici” dice il Maestro.

Shutai si avvicina al cadavere, con la punta di un piede sposta le ceneri ancora fumanti. Il puzzo di carne è opprimente. Le rose dall’alto della collinetta si chinano nella sua direzione, come a guardare lo spettacolo che hanno prodotto. Con un lampo negli occhi Shutai si china e raccoglie quello che rimane delle sue forbici col manico d’oro. Le lame si sono fuse: estrae uno straccio, le avvolge con cura e poi le infila nel suo borsello laterale.

Giona nel frattempo ha vomitato il pasto in un vaso vuoto. Quando si gira il suo mentore sta prendendo scopa e paletta e raccoglie man mano le ceneri: quando la paletta è piena, sparge le ceneri fumanti sulla terra delle rose.

Dobbiamo denunciare l’accaduto ai vigilanti” gli dice Giona.

Non ce n’è bisogno, è un ottimo concime”.

Giona rimane a bocca aperta, pensa di essere in un brutto sogno.

Ma è morta una persona. E’ un reato!”.

Un reato che ha compiuto lui” gli risponde il Maestro indicando le ceneri: “è un reato rubare una di queste rose o rovinare una qualsiasi pianta di questo parco. E’ solo morto uno stupido che voleva far del male a un essere indifeso”. Poi guarda le rose e aggiunge: “Più o meno”.

Maestro, non starà dicendo sul serio?”.

Sono serissimo, forse un tempo la natura non poteva difendersi, ma ora non è più così”. Quando ha finito di spargere tutta la cenere sulle sue amate Rose Elettriche, con un sorriso Shutai aggiunge: “Andiamo a farci una tazza di the prima della cena?”.

Il ragazzo rimane immobile. Shutai lo prende sottobraccio e insieme discendono la collina.

Ti ho mai raccontato della rocca che un tempo sorgeva qui in cima?”.

(*) A ottobre in blog è apparso La sfera, un racconto di Samuele Mazzotti: lo avevo scelto in una piccola antologia (in cerca di editore) che lui mi aveva inviato. “Scelto” per modo di dire perché i racconti mi piacevano tutti. Avevo deciso di non scrivere neanche una riga di presentazione per vedere le reazioni… senza influenzarle. Alcune persone hanno letto e apprezzato, confermandomi quel che pensavo: Mazzotti è bravo a raccontare storie, muovendosi quasi sempre tra fantastico e fantascienza. Certo ha bisogno di esperienza e qualche volta la fretta gli gioca brutti scherzi (perlopiù rimediabili con un normale editing) ma ha idee e una forza semplice nel proporle. Eppure scrivere è un “mestiere” quasi nuovo per lui che nella vita – per quel poco che so – ha fatto tutt’altro. Mi auguro che continui … e che trovi un editore. Nel frattempo il blog è felice di ospitarlo. (db)

 

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