Save 194

di Maria G. Di Rienzo (*)

e “La decisione giusta” di Belgin Tan

Il 20 giugno prossimo, l’articolo 4 della legge 194 sulla maternità responsabile sarà sottoposto all’esame della Corte Costituzionale, che dovrà decidere se esso lede “i diritti inviolabili dell’uomo” e “il diritto alla vita dell’embrione, in quanto uomo in fieri.” La legge 194 è in vigore dal 22 maggio 1978. In trentaquattro anni è stata vagliata da referendum, soggetta a ogni tipo di attacco, disattesa e resa quasi inefficace dall’obiezione di coscienza dei medici (attualmente sette su dieci). Se ne è discusso sino alla nausea, ma si torna sempre alla casella n. 1: l’uomo in fieri e i suoi diritti inviolabili. Non sentirete mai parlare della “donna in fieri”, ovviamente: il discorso è scorretto a partire dal livello linguistico, perché il suo immaginario è direttamente collegato all’homunculus delle credenze medievali. Si tratta di un piccolo uomo completo di anima depositato dal maschio nella femmina durante il coito. Da quest’ultima l’homunculus non prende nulla – i genetisti faranno i salti mortali sino agli anni ’50 dello scorso secolo per negare l’eredità materna – ne’ è alla madre legato in alcun modo: è semplicemente nutrito nel suo utero per 9 mesi. E’ un omino piccolino già provvisto di tutto, penino compreso, solo davvero minuscolo; immaginatelo fatto di gomma sottile e via via gonfiato dalla sua bombola-mamma sino a raggiungere le dimensioni in cui viene scodellato all’esterno. Purtroppo la scienza ha smantellato questa visione fiabesca. Al suo posto c’è un grumetto di cellule che si moltiplicano e si assemblano sino a raggiungere lo stadio di embrione dapprima, di feto poi e di neonato se tutto va bene. L’ovulo fecondato non è “ospite” di un altro corpo: è parte integrante di quel corpo. Dire che il mio ovulo fecondato ha dei “diritti umani” è come dire che ne abbia il mio naso, e pertanto la Corte Costituzionale dovrebbe vagliare se praticandomi un piercing aduna narice io non stia abusando di esso. E’ la donna incinta che ha dei diritti umani, ma quanto alla loro inviolabilità mi sembra che non stiamo facendo un buon lavoro. I tassi di mortalità materna nel mondo, la negazione spietata alle donne dell’accesso alla contraccezione o a servizi sanitari di base e persino alle informazioni relative alla loro salute riproduttiva, le mutilazioni e le restrizioni imposte ai loro corpi, non sono cose che accadono nell’eroico tentativo di salvaguardare i diritti umani dell’homunculus, accadono per assicurare al dominio patriarcale il soddisfacimento della sua ossessione principale: l’onnipotenza paranoica che pensa di essere in grado di “controllare” le donne – e di averne il addirittura il dovere, talvolta sacro e imposto da dio in persona – e con esse la riproduzione umana.

Criminalizzare l’interruzione di gravidanza significa principalmente mettere a serio rischio la vita e la salute delle donne. Significa che molte di noi soffriranno o moriranno per gravidanze indesiderate. Spesso si tradurrà in miseria, infelicità, scarsità di opportunità e malattia per i figli messi al mondo per forza. Le industrie dei “cucchiai d’oro” (gli aborti illegali) fioriranno di nuovo e quelle di noi che sono più povere si troveranno di nuovo infilzate da un ferro da calza su un tavolo di cucina. La mobilitazione contro questo scenario è già partita sui social network: ad esempio, l’hashtag “save194” su Twitter. Io non ho, di mia scelta, alcun account che mi permetta di partecipare, per cui contribuisco con questo articolo e la traduzione che segue. Ah, e la penso proprio come è scritto sul cartello nell’immagine qui sotto.

Se volevo il governo nel mio utero mi scopavo un senatore

La decisione giusta (tratto da: “My story of an illegal abortion” di Belgin Tan, giornalista turca, 12.6.2012; traduzione di Maria G. Di Rienzo.

Ho abortito, anni fa, quando in Turchia l’interruzione di gravidanza era ancora illegale. E’ stata una decisione giusta. Avevo poco più di vent’anni. Non ero sposata e stavo ancora studiando. Non ero pronta per avere un figlio e nel momento in cui seppi di essere incinta non fu assolutamente per me una buona notizia. L’aborto in Turchia era allora permesso solo in caso di emergenza medica.

Il mio compagno e io cominciammo a bussare alle porte dei dottori. La polizia era solita condurre raid negli ambulatori se solo c’era il sentore che un’interruzione di gravidanza fosse praticata; come la parola “illegale” implica, medico, personale infermieristico e paziente erano tutti perseguiti legalmente se colti sul fatto. Ma questo non riduceva la percentuale di interventi.

La storia che vi racconto è mia, ma potete generalizzarla e moltiplicarla per decine di migliaia di volte. Gravidanze indesiderate erano interrotte in condizioni sfavorevoli. Le ragazze e le donne erano terrorizzate, i loro partner e parenti erano terrorizzati. Questo è lo scenario medievale a cui rischiamo di tornare. Avete visto quel film splendido, vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 2007, in cui due ragazze cercano l’aiuto di un medico per abortire e sono entrambe stuprate da quest’ultimo? Angoscioso ma realistico. Le cose andavano proprio in questo modo orribile. Il film, di Cristian Mungiu, si chiama “4 mesi, 3 settimane e 2 giorni”.

Tornando alla mia vicenda personale, un dottore acconsentì all’intervento. Ricordo che l’infermiera chiuse a chiave le porte, forse per guadagnare tempo in caso di un’irruzione poliziesca. Per me tutto si svolse senza problemi, ma amiche e conoscenti mi hanno raccontato storie assai più complicate e amare. Quando il mio compagno mi raggiunse dopo l’intervento mi guardò e disse: “I tuoi occhi sono finalmente diversi. Sei tornata ad essere Belgin.” Aveva ragione. Non avevo voluto una gravidanza. Non ero nemmeno riuscita a credere davvero di essere incinta. Ora che questo era finito, io ero di nuovo me stessa. Non tutte sono state così fortunate ne’ a livello fisico ne’ a livello emotivo.

Alcuni anni dopo, nel 1983, l’aborto fu legalizzato in Turchia. Io sapevo già di non aver fatto nulla di sbagliato, ma all’epoca avevo comunque infranto la legge. Durante i miei viaggi internazionali come giornalista, quando incontro i miei colleghi di altri Paesi, una delle prime domande che mi fanno per capire la situazione dei diritti umani in un Paese non molto noto al mondo è: “L’interruzione di gravidanza è legale nel tuo Paese?”. Se oggi dovessimo cambiare le nostre leggi al proposito, che sono state ottenute con tante lotte e tanta fatica, sarebbe un disastro per donne e ragazze. Ci sarebbero giovani disperate come me anni orsono, ma a cui le cose potrebbero non andare così lisce. Ragazze e donne che resterebbero ferite per sempre nei loro sentimenti se non fisicamente, che dovrebbero aggiungere il disagio dell’infrangere la legge e il terrore della galera a un’esperienza che è già pesante dal lato emotivo e dal lato medico.

Per concludere, ho messo al mondo figli desiderati e sani successivamente. L’aborto non ha lasciato in me alcun segno. Ripeto: non ho cicatrici, ne’ emotive, ne’ morali, ne’ fisiche; non ve ne sono nelle mie relazioni o nella mia vita sessuale. Sono grata al mio compagno che mi ha sempre dato sostegno. Sono grata alla me stessa giovane per la decisione che ha preso.

UNA BREVE NOTA

(*) Gli articoli di Maria G. Di Rienzo sono ripresi – come le sue traduzioni – dal bellissimo blog lunanuvola.wordpress.com/  – e già che ci sono ricotdo il suo libro, “Voci dalla rete: come le donne stanno cambiando il mondo” (una recensione è qui in blog alla data del 2 luglio 2011).

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