Sconosciute sul metrò

Il presente racconto non è stato scritto per far arrabbiare Giovanardi; o per invitare al rispetto i tanti che la pensano come a lui, uguale;

o per stabilire una qualche differenza tra me e il parlamentare. Non sono molto diverso dai poveretti le cui opinioni qui contesto, ho anche io i miei pregiudizi, limiti e idiosincrasie: rammentando quelle di Giovanardi non nego né nascondo le mie. L’intento è in realtà un mero auspicio: che i cagionevoli della tolleranza accettino di contenersi; che entrino a far parte di coloro che, non a parole, si considerano e sono fratelli (o cugini, se più vi piace). Cioè dei tanti che hanno come orizzonte del loro cammino l’Umanità, quell’insieme di conquiste atto a separare e distinguere l’animale dal civilizzato.
D’altronde cosa è l’uomo civile se non un incivile che non si permette d’esserlo? Tra bestia e uomo poi, a parte la ragione, che lo rende capace di illuminare anche l’istinto, soltanto la presenza dell’amore può misurare e stabilire la distanza tra l’uno e l’altro: l’amore che unisce, che è rispetto e accettazione dell’altro; che è tante cose, tutte però coalizzate per allontanarci dal buio mondo della necessità e farci procedere abili e spediti nell’universo infinito del possibile.


È tardi. Negli orecchi ho l’ululato di un treno dentro la galleria. Apro gli occhi e esco dal sonno rapido e breve in cui sono caduto. Non sono su un treno, sognando il ritorno all’antico borgo natio; sono sottoterra, dentro un vagone del metrò, prigioniero di un vagone traballante, probabilmente alla sua ultima corsa delle ventiquattrore. Mi rendo conto di esserci e mi rimprovero. Non è saggio addormentarsi a quell’ora di notte, dentro tutta quella desolazione.
Con me nel vagone solo due altre persone. Una seduta alla mia sinistra, di là dalla porta scorrevole; l’altra pochi posti ancora oltre, dirimpettaia. Sono ambedue donne, giovani, belle, entrambi di non più di vent’anni. Che fanno due ragazze in giro a quell’ora tarda di notte? Una forse ha lasciato qualche festa, l’altra si accinge a andarvi… Sciolgo gli ormeggi della fantasia e vado oltre. Due segretarie, ipotizzo, trattenute indebitamente dal principale, forse molestate, che ritornano alla salvezza delle loro casa, mamma e papà che le aspettano con ansia. O forse quello è il loro orario, quello d’un lavoro o qualche segreto amante. Chi può dire, al giorno d’oggi quale possa essere la destinazione di una donna? Se un bambino ammalato o il cuore sano d’un uomo forse mal cresciuto? O loro stesse, nella loro solitudine, palpitando perché gli anni passano e di quel che hanno da offrire il più se lo divora il tempo?
Non mi limito a formulare ipotesi. Paragono anche. Ambedue giovani, ambedue belle, non potrebbero essere più disuguali. Quella alla sinistra, lo dice la postura del corpo, l’espressione altezzosa, presunta principessa, sofisticatissima e piena di colori, gioca ancora a recitarsi donna, adulta fatale e bionda (non lo farà più fra qualche anno); l’altra, più genuina, capelli cortissimi, si realizza in quell’apparire suo semplice, alla mano sin dalla grigia tuta da ginnasta che la veste. L’espressione è seria, convinta, una punta di durezza. Mi colpisce il viso, desolatamente puro, non un filo di trucco, ricco della sua sola bellezza.
Non porta nemmeno un paio di orecchini!
Ha lo sguardo fisso in terra ma mi accorgo che occhieggia in direzione della bionda mia vicina. La quale sentendosi osservata, volge a sua volta lo sguardo, ma senza incontrare quello della prima la quale, con sincronia perfetta, ha bruscamente allontanato gli occhi.
Non dura a lungo il capovolgimento. Pochi secondi di ostentazione e, un attimo prima che la ragazza sportiva riporti l’attenzione sulla sua persona, la bionda torna come prima a fissare il vuoto, in quel particolare vuoto pieno di interiore nel quale a volte le signore entrano. Un pieno che dissimulano dietro i tanti ninnoli, le spille, gli orecchini, le collane, anelli, braccialetti… che la ragazza nasconde meglio adoperando forti sussieghi. Con le posture altezzose. La finta indifferenza, immobilità di statua portata in processione.
Il rovesciamento delle parti torna a ripetersi, più volte. E mi chiedo come facciano a non incrociare mai lo guardo e quale sia il senso occulto che guida quelle manovre. Il perché della finzione di disinteresse, una finzione in cui ormai né l’una né l’altra, nonostante le accortezze, può più mostrare di credere. Oh! le rimprovero: donne scoperte e menzognere! Guardate me, piuttosto. Almeno una volta, non mi trattate come un soprammobile. Forse sono un soggetto interessante da studiare. Io vi studio apposta, per essere studiato!
A essere sincero però non posso evitare di dare loro ragione. A paragone della loro grazia io ex scimmione peloso, io faccio la figura del ramarro; o del topo appena uscito da sotto un mobile. Meglio lasciarmi perdere, meglio, finirebbero per guastarsi la nottata.
Ma questa gioventù d’oggi, tanto sveglia e molto emancipata, mi chiedo, La coscienza della proprie azioni e giustezza delle proprie azioni, dove l’ha collocata? La vita è vita, crudele, trascorre veloce e mai un solo istante che sia possibile far ritornare.

Il gioco degli sguardi pendolari finisce non appena il treno inizia a rallentare. Si mettono buone, contenute come si addice a tanta forbita discrezione. La bionda si alza e tenendosi all’apposito sostegno ruota verso la porta. L’altra invece, a occhi bassi, finge ancora indifferenza. Il treno rallenta ancora, quasi ferma.
Sono deluso, lo confesso. Non ho moventi per valutare, formulare previsioni. L’anima mi duole, come sempre al cospetto di un amore perduto, un incontro non guadagnato. Chi ci salverà dalla tristezza e dal timore se dai noi stessi dalle miserie non ci solleviamo?
Si stanno per aprire le porte quando anche l’altra si muove, le si accosta. Per la prima volta vedo fiorire un sorriso. Pallido appena, compiaciuto. Un sospiro di sollievo. La ragazza sportiva mormora qualcosa. Riceve un cenno di consenso.
Sono fuori, procedendo appaiate. Parlano fitto, come vecchie amiche. In realtà, in un modo tutto loro, lo sono. Forse lo sono sempre state, prima ancora di incontrarsi. Una mano cerca l’altra, si intrecciano nell’antichità di un gesto sempre attuale. Vedo i volti schiarirsi di sorrisi. Già in intimità. E ammetto con me stesso, glielo riconosco, sono di un’altra razza, una civiltà diversa. Come dovremmo essere tutti quanti, aperti all’occasione e alle speranze.
Un minuto fa non ancora e ora sì, invece si conoscono.
Mauro Antonio Miglieruolo

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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