Scor-data: 23 agosto 1927

Ragion di Stato contro Sacco e Vanzetti

di d. b. (*)  

Sette anni di calvario: il 14 luglio 1921 Nick e Bart (Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti) vengono condannati alla sedia elettrica ma sino alla mezzanotte del 22 agosto 1927 sperano che la loro innocenza venga riconosciuta o che la grandissima mobilitazione (negli Usa e in tutto il mondo) costringa il governo degli Stati Uniti a riaprire il caso. La «ragion di Stato» non volle così.

Nick e Bart sono perfetti come colpevoli: italiani («dagos», cioè accoltellatori, come vengono soprannominati all’epoca i nostri emigrati) e poveri: cittadini di serie B. Per di più militanti anarchici, dunque pericolosi per l’ordine pubblico; e obiettori di coscienza ovvero «anti-patriottici». Che importa se le prove non si trovano? Non è in gioco la verità su una sanguinosa rapina compiuta il 15 aprile 1920 a South Braintree nel Massachusetts – chi desidera una ricostruzione aggiornata ed essenziale della vicenda può leggerla in «Ribelli» (Feltrinelli) di Pino Cacucci – ma uno scontro interamente politico.

Artefici di quel processo a senso unico, di quel “delitto di Stato” sono il giudice Thayer e il pubblico accusatore Katzmann: non incappano in errori, piuttosto offrono un coerente esempio di giustizia classista che distrugge le verità poco gradite, corrompe testi e giurati, non prende in considerazione neppure una circostanziata confessione o la decisiva testimonianza del funzionario d’ambasciata che il fatidico giorno incontra Sacco lontano dal luogo della rapina.

Il grande pittore Ben Shahn dipinse 23 tavole dedicate alla «passione di Sacco e Vanzetti» e scrisse, con amara ironia: «Avrei voluto vivere in un periodo storico in cui stesse accadendo qualcosa d’importante, come al tempo della Crocifissione. E improvvisamente mi resi conto che c’ero dentro. Stavo vivendo un’altra crocifissione». Sulla croce – una sedia elettrica – salgono stavolta due operai: il primo è un immigrato pugliese che dopo molti mestieri si ritrova ciabattino; il secondo, nato a Cuneo, fa il pescivendolo.

Non furono solo Ben Shahn o il folk-singer Woody Guthrie che quella “passione” vollero raccontare. «Di questa vicenda presto s’impadronì l’arte, la letteratura, lo spettacolo, per non abbandonarla più. Già questa tenacia di ricordo, nel nostro smemorato Novecento, è un fatto straordinario» scrive Italo Alighiero Chiusano nel 1980 presentando al pubblico italiano la traduzione di uno straordinario testo teatrale «Ragion di Stato, una testimonianza per Sacco e Vanzetti» scritta da Erich Muhsam nel 1928. La casa editrice Salerno lo ha ripubblicato (164 pagine, 11 euri) con una premessa di Aldo Forbice che aggiorna sulla mobilitazione contro la pena di morte.

Scritto 80 anni fa, a caldo – nei giorni dell’assassinio di Nick e Bart  – il testo di Muham ha tutti i pregi del “teatro-documento”. I passaggi (pochi comunque) che oggi possono apparire enfatici, retorici perdono peso di fronte al racconto minuzioso, dettagliato tanto degli eventi processuali contro i due anarchici quanto del quadro storico (la lotta per le 8 ore o il processo di Chicago). Un testo che mantiene la sua forza anche fuori dalla scena, cioè nella lettura.

Era libertario e ostile alla guerra, come Nick e Bart:  Erich Muhsam nacque a Berlino nel 1878, fu incarcerato nel 1919 per 5 anni. Tornò all’impegno politico e alla scrittura fino all’avvento del nazismo: arrestato nel 1933, percosso e torturato, fu fatto morire l’11 luglio del 1934. Oggi relativamente pochi in Germania si ricordano di lui ma la forza del suo «Ragion di Stato» rimane intatta.

«Vidi una versione teatrale di Sacco e Vanzetti a Genova, in una fabbrica dell’Italsider» ricorda Giuliano Montaldo, il quale nel ’71 realizzò uno splendido film con Gianmaria Volontè e Riccardo Cucciola – e una indimenticabile ballata per la voce di Joan Baez – che molto contribuì a riaprire il caso e alla clamorosa decisione, il 19 luglio 1977, del governatore del Massachussetts di riabilitare ufficialmente i due anarchici condannati. 

Le parole che Muhsam mette in bocca a Sacco e Vanzetti si basano su dichiarazioni e lettere, ma anche le frasi attribuite al giudice Thayer e all’accusatore Katzmann «spesso brutali fino all’inverosimile» – spiega l’autore – «sono convalidate da molteplici documenti». Come in questo dialogo, quasi all’inizio, che illumina gli eventi successivi. «C’è una verità che vale assai più di un obiettivo racconto di fatti accaduti. E’ la verità richiesta dalla ragion di Stato» suggerisce il giudice Thayer a Katzmann, il quale mostra più avanti il suo pieno accordo: «Finora abbiamo potuto incolparli (gli anarchici) solo per il lancio di bombe o atti di violenza che, se anche li avessero commessi, a gente come loro non sarebbero costati la perdita delle simpatie né qui né in Europa, trattandosi di delitti politici. Se adesso però proveremo la colpevolezza di due rispettabili agitatori per comuni atti di banditismo, comprometteremo moralmente tutto il movimento e nel modo più grave». Quando l’andamento del processo e persino il contegno degli imputati favorisce i due «parassiti stranieri» ecco ancora Thayer che sbotta: «Il diavolo se li prenda. Alla fin fine non si tratta di quei due cialtroni e dell’omicidio ma delle idee sediziose su cui farneticano». Ragion di Stato che, oggi come ieri, passa sopra i fatti e le persone.

Il martirio di Sacco e Vanzetti oggi è stato dimenticato? Ho fatto un piccolo test, 6 anni fa, con una sessantina di studenti e studentesse: quasi la metà sapeva, grosso modo, chi erano; abbastanza consolante rispetto a tante «scor-date».

In teatro e in libreria di Nick e Bart si parla e si legge. Nel 2005, a esempio, le edizioni Spartaco hanno ristampato il libro di John Dos Passos «Davanti alla sedia elettrica. Come Sacco e Vanzetti furono americanizzati» mentre Claudiana ha pubblicato prima «Sotto un cielo stellato: vita e morte di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti» e poi «Lettere e scritti di Sacco e Vanzetti» entrambi a cura di Lorenzo Tibaldo.

Non furono solo la penna di Dos Passos e il pennello di Ben Shan a levarsi in difesa di Nick e Bart. All’epoca ne scrissero, con intensa partecipazione, Romain Rolland, Gorge Bernard Shaw e Albert Einstein. E da subito il processo e l’assassinio di Sacco e Vanzetti divennero canzoni popolari. La memoria non svanì. Nel 1947 il grande folk singer Woody Guthrie si recò a Boston per consultare gli atti del processo e scrisse – ora con un registro di cronaca, ora epico, ora ironico – le «Sacco & Vanzetti Ballads». Anche 20, 30 o 50 anni dopo dunque tanti non erano rassegnati a quel crimine di Stato. La vicenda arrivò sugli schermi statunitensi nel 1960 con «The Sacco e Vanzetti Story» diretto da Sidney Lumet; la Rai lo acquistò… per non trasmetterlo (uno scandalo che si ripeté con parecchi film o telefilm scomodi). La memoria di Nick e Bart approdò in scena molte volte: nel 2007 a esempio la persecuzione dei due anarchici è stata al centro di due insolite e interessanti idee teatrali.

La prima è «Sacco e Vanzetti, canzoni d’amore e di libertà» che ha esordito il 26 giugno a Imola. Una sorta di film-concerto: su immagini di repertorio e sulle sequenze (senza sonoro) del film di Montaldo, suonano e cantano Fabrizio Zanotti e Lino Rocco, utilizzando anche testi di Fabrizio De Andrè, Francesco Guccini e Claudio Lolli.

La seconda messa in scena, assai più ambiziosa, ha visto la luce negli stessi giorni  in Germania al Maschinenhau Prenzlauer Berg di Berlino dove la danzatrice e coreografa Mila Tomsich – è italiana ma da tempo residente in Germania – ha presentato un «Sacco e Vanzetti» schoccante, attualizzando la vicenda per lanciare un grido contro la pena di morte. E infatti questo teatro-danza ha avuto fra gli altri patrocini anche il sostegno di Amnesty International.

Come spiega Mila Tomsich, «Nick e Bart rivivono a Berlino nell’eterna ritualità del teatro,  testimoniando contro l’irreparabile follia della pena di morte. A ottant’anni dall’assassinio di Sacco e Vanzetti, ho voluto realizzare non solo uno spettacolo che renda loro giustizia, che ne trasmetta pensieri, speranze e sogni ma anche lanciare un sasso contro la pena di morte. Più che la commemorazione ho cercato di costruire un processo catartico d’immedesimazione per un pubblico inter-generazionale di fronte a un dramma tragicamente attuale in un mondo dove ogni giorno muoiono ancora troppi “stranieri”, innocenti… e dimenticati». Nel lavoro della Tomsich si ricorda come Vanzetti in carcere singhiozzasse nel leggere il  «Canto di un pastore errante nell’Asia» di Giacomo Leopardi e da qui si parte, fra sogno e ricordo, per viaggiare in mondi irreali eppure più veri e intensi del “vero”, per perdersi nel tempo così dando un valore sempre attuale alla passione di Nick e Bart e alla violenza del potere, fuori da ogni contesto e cronologia.

«Quando i vostri nomi, le vostre istituzioni non saranno che il ricordo di un passato maledetto» così la dichiarazione finale di Vanzetti ai giudici «il nome di Nicola Sacco sarà ancora vivo nel cuore della gente. In fondo dobbiamo ringraziarvi. Senza di voi saremmo morti come due uomini qualsiasi: un buon calzolaio, un povero pescivendolo». Invece i loro nomi gridano ancora oggi che è necessario rivoltarsi per ottenere giustizia e che se vogliamo uscire dalla barbarie dobbiamo fermare lo Stato-boia che uccide per arrogarsi un potere divino.   

Per ampliare il discorso ecco l’intervista che pubblicai (il 19 agosto 2007) sul quotidiano «Liberazione»; poi ripresa anche dal mensile libertario «A»).  

Lo scorso 23 agosto è caduto l’ottantesimo anniversario dell’assassinio negli Stati Uniti dei due anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Per «Liberazione» ho intervistato un responsabile dell’Archivio Storico della Fai, la Federazione anarchica italiana, l’imolese Massimo Ortalli: nella nuova sede gli scaffali della Fai ospitano oltre 6.000 libri, circa 600 testate in italiano e altrettante in lingue straniere, 1.500 manifesti e un’enorme documentazione cosiddetta grigia – cioè lettere, volantini, bozze – in gran parte da catalogare perché si tratta di donazioni straordinarie, arrivate da poco. Ho ragionato con Ortalli sul movimento libertario all’epoca di Nick e Bart ma anche su differenze, alleanze e rotture.

Un luogo comune vuole i libertari contro ogni forma di organizzazione. Anche quando sono tanti, come nella migrazione italiana negli USA, non lavorano di concerto. Sono sciocchezze?

Sì. Noi anarchici ci siamo sempre opposti ai partiti e ad ogni burocrazia ma la volontà di organizzarsi è fortissima. La realtà degli anni ’20-’30 negli Stati Uniti lo conferma. Basta sfogliare “L’adunata dei refrattari” che esce in italiano dal 1922 al ’71: settimanale per oltre 40 anni, poi quindicinale. Ne fu l’anima il ferrarese Raffaele Schiavina, noto come Max Sartin: “clandestino” diremmo oggi – in realtà non registrato – per tutta la vita, eppure attivissimo nel comitato per Nick e Bart. Il movimento anarchico promosse tante reti di solidarietà: non gestite in modo verticistico e spesso neppure centralizzate però estese a livello mondiale.

Non è l’unica testata del genere…

Escono moltissimi giornali: “La questione sociale”, “Germinal” e “Cronaca sovversiva” sulla costa orientale (Boston, Chicago, New York…) e altri nelle zone minerarie o in California. Tutto ciò è ignoto o calunniato. Non vi fu un’organizzazione (tipo FAI) che negli USA raccogliesse i vari gruppi. Almeno sino alla seconda guerra mondiale gli anarchici erano presenti in quasi ogni lotta operaia, attraverso gli IWW – Industrial Workers of the World – i temutissimi wobblies del sindacato orizzontale. Forse un po’ isolati nella società; la scelta di fare giornali in italiano da una parte favorì una forte identità comunitaria ma dall’altra isolò dai nativi o da altri migranti. Una rete non solo politica. Esistevano tantissimi momenti ricreativi. Un po’ come le feste de “l’Unità” per capirsi, ma più spontanee e molto impegnate: teatro, letture e musica. C’era anche la riffa: di solito erano libri o abbonamenti, però talvolta il primo premio era… una rivoltella, del resto negli USA era del tutto legale possedere armi.

Numeri?

Prendiamo un centro tessile importante come Paterson (la città da cui partì Gaetano Bresci per uccidere Umberto I dopo le stragi del generale Bava Beccaris a Milano): su 10 mila operai italiani vi erano circa 500 militanti anarchici, un numero impressionante, ma i simpatizzanti arrivano a 2.500: concordano le fonti di polizia e gli abbonamenti alla rivista. Anche a New York migliaia di persone partecipano alle iniziative libertarie. Una valutazione realistica oscilla fra 50 mila e 100 mila anarchici all’epoca negli USA.

Nostra patria è il mondo intero” si cantava ma i migranti non facevano gruppo a sé?

I rapporti con autoctoni e altri migranti erano complessi: legami più saldi con i libertari ebrei, forti negli USA (a tutt’oggi il più longevo giornale anarchico è stato “Freie Arbeiter Stimme” in yiddish, stampato a New York) e spagnoli. Nessun compartimento stagno però la collaborazione non è automatica, mancano gruppi davvero multietnici. In occasioni gravi ovviamente si manifesta insieme.

Nel bel romanzo “Noi saremo tutto” di Valerio Evangelisti si capisce che il momento unificante è l’IWW.

I volantini sindacali sono pluri-lingue ma i giornali si rivolgono alle comunità. “Il proletario” che ha per slogan “conquistando la fabbrica, conquisteremo il mondo” è l’organo settimanale degli IWW in lingua italiana.

Fuori dagli USA quali punti di forza? E come organizzati?

In Europa gli anarchici italiani (emigrati per lavoro o poi in esilio) di solito mantengono le proprie strutture. Questo non significa disaccordo. È opportuno ricordare le condizioni dure dell’epoca: si lavorava anche 12 ore al giorno, il tempo per socializzare era ben poco. All’epoca il movimento anarchico è forte soprattutto in Francia, Spagna e Inghilterra dove in prima fila ci sono gli ebrei, i più reietti nella scala sociale. Diverso il caso della Russia dove i bolscevichi decapitano un forte movimento: un solo dato, quando nel ‘21 muore Kropotkin per andare ai funerali viene dato un permesso speciale a migliaia di anarchici… incarcerati. In Argentina il più forte sindacato è anarchico, stampa un quotidiano; lì però la mescolanza fra etnie è più semplice. In Messico invece, come si legge nei due romanzi di Evangelisti – “Il collare di fuoco” e “Il collare spezzato” – c’è poca migrazione; grazie ai fratelli Magón si sviluppa però un originale anarchismo.

Per evitare che si cristallizzi un gruppo dirigente, gli anarchici (di ieri e di oggi) rifiutano l’idea dei “militanti di professione”.

Basta pensare che nel 1920  l’USI (300 mila iscritti, secondo sindacato italiano) aveva un solo funzionario pagato. Stesso discorso per la stampa anarchica. Secondo me non si arriva a 10 “militanti professionali” in 100 anni, anche per la scelta di ruotare le cariche (come oggi nella FAI). Qui c’è una grande diversità con socialisti e comunisti ma sino alla guerra civile in Spagna le differenze non impediscono di pensarsi sulla stessa barricata. La critica al bolscevismo parte dal ’19 (appena si sa delle repressioni contro Makhno e la seconda insurrezione di Kronstadt) e viene formalizzata da Errico Malatesta e Luigi Fabbri già nel 1920 ma quando gli USA, proprio nel ’20, espellono Emma Goldman lei è felice di finire in URSS, ignorando quanto la rivoluzione sia già degenerata. All’epoca gli anarchici sono consapevoli di avere una base comune (Marx e Bakunin nella Prima Internazionale; leggono in “Stato e rivoluzione” di Lenin che la macchina statale va distrutta) con socialisti e comunisti. Nella sinistra italiana è naturale ritrovarsi tutti insieme al confino, in esilio o poi nella Resistenza.

 

Al di là della persecuzione contro Nick e Bart davvero fra gli emigrati anarchici vi fu una deriva terroristica?

Bisogna ricordare il diverso contesto storico. La repressione dei federali e degli agenti privati (i Pinkerton) si poteva affrontare solo con forme di autodifesa. Questo facilita in alcune frange la tentazione. Nell’ambiente italo-americano ha influenza Luigi Galleani: gran giornalista (un po’ roboante forse) e trascinatore, arrivato negli USA a inizio ’900 intacca l’influenza di Malatesta e forse a volte incoraggia la violenza d’attacco. Quando vi sono attentati contro i centri del potere fra i libertari nessuno si sente obbligato a dissociarsi ma critiche (“può essere nocivo per il movimento”) vi sono.

Nick e Bart cascano in una trappola ma avevano davvero una pistola in tasca.

Come quasi tutti all’epoca. Sprovveduti non erano, “compagni d’azione” piuttosto. In quei giorni le spedizioni punitive del procuratore Palmer distruggevano le sedi dei “rossi” e chi era trovato lì veniva rispedito in Italia. Probabilmente Nick e Bart nascondevano stampa “incendiaria” (sulla defenestrazione dell’anarchico Andrea Salsedo nella sede della polizia federale o sulla brutta storia di una bomba a Wall Street con una trentina di morti) e questo spiega le iniziali bugie. Alla fine degli anni ’60 qualche storico ristudia tutte le carte e sostiene che solo Nick prese parte alla rapina: ricostruzione che non mi convince, secondo me erano entrambi innocenti. All’epoca, infatti, la totale illegalità di quel processo non scuote solo gli intellettuali di sinistra ma tutti i più seri giuristi a livello internazionale.

(*) Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano. Dall’11 gennaio 2013, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata» – qualche volta raddoppia, pochi minuti dopo – di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna dimenticano o rammentano “a rovescio”.

Molti i temi possibili. A esempio, nel mio babelico archivio, sul 22 agostofra l’altro avevo ipotizzato: 1791: rivolta ad Haiti; 1864: prima convenzione di Ginevra, nasce la croce Rossa; 1962: attentato OAS a De Gaulle: 1972: mancata evasione da Rawson in Patagonia; 1978: muore Kenyatta; 1989: muore in circostanze oscure Huey Newton; 1998: il cardinal Giordano indagato per usura; 2007: muore Bruno Trentin. E chissà a ben cercare quante altre «scordate» salterebbero fuori.

Molte le firme (non abbastanza forse per questo impegno quotidiano) e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi: magari solo una citazione, una foto o un disegno. Se l’idea vi piace fate circolare le «scordate» o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare – ribadisco: ne abbiamo bisogno – mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”. (db)

 

Redazione
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