Scor-data: 24 febbraio 1917

Inizia in Russia la rivoluzione

di Francesco Cecchini (*)   

Novantasei anni dopo – cioè oggi – guardo dalla finestra l’orso siberiano imperversare sotto forma di nevischio e vento che immagino gelido. Mentre il grigio diventa buio, ricordi e riflessioni si fanno avanti. L’orso dalla Siberia ha attraversato l’intera Russia e l’Est per portare da noi un freddo che non è nostro. Vado fra le nuvole a leggere e a pensare. Ricordo un inverno trascorso anni fa a Leningrad, la città era ancora di Vladimir Ilych, la Neva ghiacciata e mattine di un gelo insopportabile che taglia la faccia scoperta e fa piangere. Chi non è mai stato d’inverno nella città di Lenin (che ora si chiama un’altra volta con il brutto nome di Pietroburgo) o in Russia può leggere nei classici – Aleksandr Puskin, Ivan Turgenev, Fedor Dostoevskij Lev Tolstoi, Anton Cechov – come è la stagione invernale da quelle parti. Le descrizioni sono realistiche e potenti, danno brividi di freddo anche se quei romanzi o racconti si leggono d’estate in riva al mare. Nel racconto «Il cappotto» di Gogol il freddo nordico è l’avversario mortale del protagonista come lo è, nella realtà, di tutti i proletari, operi contadini, piccoli impiegati di Pietroburgo e di tutta la Russia, delle città e delle campagne. In una società come quella zarista – inumana e iniqua – fame, freddo e tubercolosi sono implacabili e fanno ogni giorno stragi di donne, uomini e bambini. Ma il vero nemico è l’Impero zarista dove valori arcaici di una religione e di credenze medioevali giustificano una società dove gli zar, i nobili proprietari terrieri sono dèi e il popolo si riduce a schiavi, anime morte, animali. Se vogliamo fare sociologia più accurata, la struttura della società russa, prima del 1917 ha un vertice ad angolo acuto, lo zar.

Lo zar è il padrone assoluto. Il suo potere viene direttamente dal Dio, in questo caso ortodosso.

La Nobiltà. Sono poche famiglie ricchissime e proprietarie della maggior parte dei 22 milioni di chilometri quadrati distribuiti fra Europa e Asia. Poi c’è una base immensa.

I contadini. La maggioranza della popolazione. In genere poverissimi. Molti di loro schiavi di discendenza, la schiavitù viene abolita solo nel 1861. Le coltivazioni erano arretrate e causa di carestie ricorrenti. La storia è ricca di rivolte contadine contro i nobili proprietari delle terre,ma mai viene messo in discussione lo zar e quindi il sistema.

Gli operai. Una nuova classe di origine contadina, ma che viene sfruttata, non nelle campagne, ma nei luoghi di produzione, nelle fabbriche che il processo di industrializzazione di un capitalismo nascente sta creando nelle città della Russia,

La borghesia. Commercianti ed industriali. In crescita, con l’industrializzazione del Paese, ma ancora di poco peso specifico In più un gruppo speciale: l’intelligentsia.

Non una classe sociale, ma un gruppo composto da scrittori, pittori, filosofi che si oppongono al sistema, prima come missionari di una nuova idea di società poi al servizio di quelle classi che considerano rivoluzionarie, operai e contadini, il proletariato insomma.

«Il Cappotto» – di cui scrivevo per il gelo assassino – è del 1842. 75 anni dopo e quasi un secolo fa, i nodi di una centenaria ingiustizia vengono al pettine e sciolti a favore di un processo rivoluzionario vittorioso. Siamo nel 1917.

Una «prova generale», come la definisce Lenin, del 1917 avviene nel 1905. Un vero e proprio terremoto che scuote la società russa. Apre crepe, demolisce pezzi importanti.

Uno sciopero generale operaio paralizza nelle città industria, trasporti e comunicazioni (che allora è il telegrafo). Nelle campagne i contadini occupano le terre, bruciano palazzi nobiliari e raccolti. Si formano soviet nelle fabbriche, nei quartieri e nel territorio. Prima strumenti sindacali di organizzazione dei luoghi di produzione e poi – come nella Comune di Parigi – diventano in embrione contropotere che annuncia la forma che prenderà lo Stato dopo il superamento dello zarismo, del feudalesimo nelle campagne e del capitalismo emergente nelle città. La rivoluzione del 1905 – iniziata a Pietroburgo il 22 gennaio con la domenica di sangue – viene sconfitta a Mosca nel dicembre di quell’anno, quando l’insurrezione armata degli operai viene soffocata nel sangue dall’esercito dello zar. Il quale però si vede costretto a fare concessioni quali la costituzione di una specie di Parlamento, la Duma, con funzioni e poteri molto limitati.

Le ragioni della sconfitta sono un paio.

Nonostante i sollevamenti nelle campagne non si raggiunge un’unità organica fra operai e contadini, tanto che lo zar è in grado di utilizzare un esercito composto per lo più da soldati provenienti dalle campagne. La borghesia – che agli inizi appoggia gli operai per costringere lo Zar a concedere maggior democrazia ed avere un ruolo dirigente nella gestione dello Stato – passa dalla parte della reazione quando le rivendicazioni operaie (giornata lavorativa di 8 ore, aumenti salariali, autogestioni delle fabbriche occupate) intaccano i propri interessi di classe.

Come diceva il compagno Mao da una cosa cattiva, la sconfitta, può nascere una cosa buona. Questa è il superamento delle divisioni in seno al popolo. L’unità del proletariato sarà il fattore decisivo della vittoria finale 12 anni dopo.

Cala il sipario sulla prova generale di rivoluzione e gli anni che seguono sono di scoraggiamento e apatia. É il riflusso che si interrompe solo nel 1912: tornano gli scioperi con i comunisti alla testa. L’agitazione – in pratica permanente – dura fino all’inizio della prima guerra mondiale. Si diffonde un clima dove la difesa della patria seppur zarista prevale su tutto e anche sulla lotta di classe. Uno spirito patriottico e bellicoso penetra tutti gli strati della società compreso il proletariato. Gli operai e contadini che fino ad allora sono i soggetti della ribellione al sistema si disorientano, perdono coscienza e si mobilitano in massa per arruolarsi nell’esercito che va alla guerra. È un periodo nel quale i comunisti restano isolati se non cedono (pochi però) all’illusione nazionalista. Lenin non si fa incantare da patri incantatori di serpenti e pensa che la guerra sarà alla fine «un potente acceleratore del processo rivoluzionario». Vladimir Ilych vede giusto.

La prima guerra mondiale ha origine nella crisi economica capitalista, scoppiata l’anno prima e ha come scopi la conquista di nuovi mercati, in primis quelli fuori dell’Europa e la ridefinizione dei rapporti di forza tra le potenze capitaliste. Il risultato è un’immensa carneficina umana, mai vista nella storia. Il capitalismo diventa imperialismo ed esaurisce ogni ruolo storico progressista. L’impero zarista russo si lancia nell’avventura, a fianco delle potenze alleate per due ragioni. Per svicolare da gravi problemi interni (e all’inizio come abbiamo visto le va bene; operai e contadini smettono di ribellarsi e vanno al fronte). E per cancellare i debiti della guerra con il Giappone. Mira a dirigere l’espansionismo, fermato a Est, verso i Balcani. Qui le cose vanno male dall’inizio. Per la Russia, Paese povero e arretrato, il conflitto diventa insopportabile. L’industria di guerra divora tutte le risorse. Le industrie e le miniere di carbone in Polonia vengono perdute quasi subito. Durante il primo anno di guerra la Russia perde la quinta parte della sua industria. Un 50% della sua produzione e il 75% dell’industria tessile servono a soddisfare le necessità dell’esercito e della guerra. Un disastro economico. Sul piano militare le cose non vanno meglio, anzi. Lo zar mobilizza circa 10 milioni di uomini, ma il rullo compressore militare russo (su cui il comando francese contava) si rivela un bluff. La Russia riesce a mandare al fronte solo 7 milioni dei 10 mobilizzati, di cui un milione e non più sulla linea del fuoco: una delusione per gli alleati. I soldati, per lo più contadini, sono mal equipaggiati, male armati, mal addestrati, mal comandati e mal nutriti. Il 30 agosto 1914 l’esercito russo subisce una cocente sconfitta da parte dei tedeschi. Nel 1915 il fronte fa acqua da tutte le parti, Polonia e Lituania cadono in mano tedesca I tedeschi poi guadagnano la Berenzina. In poco tempo l’esercito russo subisce perdite enormi: un milione di morti, novecentomila prigionieri, un numero imprecisato, ma alto di feriti. Il 1916 non va meglio. I tentativi di offensiva, come quella di Broussilov nei Carpazi, falliscono miseramente. I soldati sono demoralizzati, le diserzioni di massa. La catastrofe economica si acutizza ogni giorno di più: la produzione agricola sprofonda, i prezzi vanno alle stella, manca il combustibile, trasporti e telegrafo sono nel caos totale. Le tensioni sociali, giorno dopo giorno, diventano più drammatiche: esplosioni di collera nelle lunghe file per avere cibo, manifestazioni, scioperi. Sul piano politico la sacra unione fra zar, nobiltà e Chiesa va in frantumi, gli intrighi si moltiplicano, un complotto cerca di destituire lo zar a favore di suo figlio (sotto la reggenza del granduca Michele) e il monaco Rasputin viene assassinato.

Questa miscela di crisi economica sociale e politica diventa esplosiva alla fine del 1916. Inoltre è diffusa l’opinione che la guerra non può continuare. Si rafforzano in Lenin e Trotski la coscienza e la volontà che la guerra imperialista si può trasformare in guerra rivoluzionaria. Concetto già espresso l’anno prima alla conferenza di Zimmerwald in Svizzera.

Il 1917 è l’anno del grande cambio, della rivoluzione.

Gennaio e febbraio sono mesi agitati da scioperi, manifestazioni, assalti alle panetterie: scintille che incendieranno la grande prateria. A fine febbraio la capitale della Russia, San Pietroburgo, si incendia e brucerà prima lo zar e la nobiltà, poi la borghesia.

Il 23 febbraio – giornata internazionale della donna – inizia l’incendio. La mattina presto le operaie di alcune fabbriche tessili, non rispettano le indicazioni del sindacato di non uscire nelle strade per evitare scontri con la polizia e l’esercito. Escono e proclamano uno sciopero generale al quale si uniscono gli operai metallurgici: 90.000 proletari invadono piazze e strade della città, senza che avvengano scontri, incidenti o vittime. E’ un inizio dal basso, gli operai in prima persona che prendono l’iniziativa vincendo le resistenze di sindacati e organizzazioni rivoluzionarie.

Il giorno dopo, il 24 febbraio, il movimento è ancora più forte. Metà degli operai di San Pietroburgo sono in sciopero. Al mattino vanno nelle fabbriche, si rifiutano di lavorare, organizzano riunioni, escono e prendono il centro della città, la gente dei quartieri si unisce al movimento degli operai. Le parole d’ordine da «dateci il pane» diventano «abbasso lo zar», «abbasso l’autocrazia», «basta con la guerra».

Il 25 gli operai in sciopero sono 240.000. Si fermano i tram e molti negozi vengono chiusi. Migliaia di persone si impadroniscono delle strade e delle piazza, avvengono i primi scontri a fuoco con l’odiata polizia. Molti poliziotti vengono disarmati. Nel tardo pomeriggio interviene l’esercito che viene a contatto con le masse senza reprimere. I quartieri di Viborg e Peski sono in mano agli operai che hanno assaltato e distrutto i commissariati di polizia.

Il 26 è domenica ma gli operai non mollano: dai quartieri si dirigono verso il centro della città. Polizia ed esercito sparano. I soldati sono costretti a fare fuoco con le pistole degli ufficiali puntate alle nuche: 40 morti e numerosi feriti. La lotta entra nella fase finale. Decisivo è il ruolo dei soldati. Costretti a sparare, sono coscienti che gli operai non si lasciano intimidire e sono fratelli, capiscono che la gerarchia militare è il comune nemico. Lunedì 27 è il giorno cruciale. Nel quartiere di Viborg, cuore della rivolta operaia e roccaforte dei comunisti, si tiene un’assemblea di 40 fabbriche che decide di continuare la lotta. Arriva la notizia che i reparti dell’esercito – uno dopo l’altro – si stanno ribellando. Operai entrano nelle caserme e si uniscono ai soldati ribelli: si impadroniscono di armi, fucilano gli ufficiali che si oppongono alla rivolta. Operai e soldati definiscono un piano d’azione: impadronirsi dei commissariati, disarmare i gendarmi, liberare i prigionieri politici, incitare alla rivolta i soldati che ancora non si sono ribellati. Auto blindate con bandiere rosse al vento percorrono città. I pochi focolai di resistenza pro-governo sono spazzati via con le armi. I soldati usciti dalle caserme per reprimere sono circondati da operai, donne, giovani e vecchi: si arrendono oppure si uniscono alla ribellione. La sera una moltitudine immensa di operai e soldati si dirige verso il Palazzo sede della Duma per conoscerne le intenzioni dopo il trionfo della rivoluzione. Questa decide di formare un Comitato Provvisorio, formato dal Partito dei cadetti per gestire la fase di transizione. Coscienti che lo zar non poteva restare propongono al duca Michele di farsi carico della successione dinastica, ma questi rifiuta.

Il 28 mattina cade l’ultimo bastione zarista, la Fortezza di Pietro e Paolo. Gli insorti controllano tutta la città. I membri del governo come gli alti ufficiali sono fatti prigionieri o fuggono. Il treno con il quale lo zar e la sua famiglia fuggono viene fermato dagli operai che trattengono gli “illustri” passeggeri fino a che un futuro governo rivoluzionario decida cosa fare di loro.

La classe operaia sconfigge lo zar e lo prende prigioniero. Termina così il mese di febbraio1917, ma anche la fase storica dello zarismo e si apre quella della Rivoluzione.

Torno all’oggi. A notte il nevischio smette di cadere e il vento di soffiare. L’orso sta ritornando in Siberia o forse si prepara a una zampata più forte; si porta via con la neve anche i pensieri su quel lontano febbraio. Manca un pezzo di storia (cosa accadde a ottobre con il ritorno di Lenin e Trotski, le Tesi di aprile, il doppio potere, la fondazione dell’esercito rosso, la vittoria).

(*) Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano. Dall’11 gennaio, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata», di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione la gente sedicente “per bene” ignora, preferisce dimenticare o rammenta “a rovescio”.

Molti i temi possibili. A esempio, nel mio babelico archivio, sul 24 febbraio avevo azzardato queste ipotesi: 1247: strage di ebrei a Wurzburg; 1304: nasce Ibn Batuta, «il Marco Polo arabo»; 1463: nasce Pico della Mirandola; 1525: «disastro» di Pavia per Carlo V; 1700: storia di «stregheria» a Modena; 1821; indipendenza del Messico; 1836: nuovo brevetto di Samuel Colt; 1905: completata (a che costo?) la galleria del Sempione; 1920: discorso di Mary Astor, prima donna eletta in Uk; 1940: attacchi clericali a Bertrand Russell; 1945: muore Mayr-Nusser, «disobbediente» a Hitler e lo stesso giorno è ucciso Eugenio Curiel; 1949: legge Ina-casa; 1954: Pio XII premia Franco con il «Supremo ordine di Cristo»; 1986: ucciso Luca Rossi; 2005: muore Satomi Oba; 2006: muore Octavia Butler; 2009: Italia condannata da Strasburgo per rimpatri illegali; 2010: inizia l’occupazione dei cassintegrati all’Asinara; 2011: ultima missione (dopo 9401 giorni) per la Discovery. E chissà, a cercare un poco, quante altre «scor-date» salterebbero fuori ogni giorno.

Molte le firme e diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevissimi, magari solo una citazione, un disegno o una foto. Se l’idea vi piace fate circolare le “scor-date” o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”. (db)

 

Redazione
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