Scor-data: 27 aprile 1972

Muore Kwame Nkrumah «il Redentore»
di Pier Maria Mazzola (*)

C’era anche Martin Luther King, quella notte ad Accra. Da Washington era venuto anche Richard Nixon, all’epoca vicepresidente degli Stati Uniti. Da una contrada più vicina, Habib Burghiba, il “combattente supremo” che l’anno prima aveva portato la Tunisia a emanciparsi dalla Francia. Né poteva mancare il primo ministro britannico, accompagnato da Marina, duchessa di Kent, in rappresentanza della regina. E poi gli esponenti della diplomazia di mezzo mondo e, sicuramente i più interessati all’evento, tanti leader dell’Africa a sud del Sahara. Nessuno di questi ultimi ancora con l’eccezione di Etiopia e Liberia – Paesi dalla storia singolare – conosceva per esperienza la parola “indipendenza”.
Era il 6 marzo 1957. «Il Ghana, il vostro Paese amatissimo, è libero per sempre. La lunga battaglia è finita e il nostro Paese ha ritrovato la libertà perduta. Noi non siamo più, d’ora in poi, un popolo colonizzato. Tutto il mondo ci sta guardando», aveva proclamato Kwame Nkrumah mentre l’Union Jack veniva ammainata e per la prima volta fremiva al vento la stella nera del vessillo nazionale. Era la primizia dell’esaltante stagione delle indipendenze degli anni Sessanta. Nkrumah, 47 anni, era salito sul palco a passo di danza e con lo scettro in mano.
Martin Luther King confesserà di aver pianto di gioia, a quelle parole. Le lacrime avevano appannato la vista anche a Nkrumah quando, sei mesi prima, era stato convocato dal governatore generale per consegnargli personalmente un telegramma da Londra. «Quando arrivai al quinto capoverso – raccontò poi Nkrumah – non riuscii più ad andare avanti…». I suoi occhi avevano appena letto la risoluzione del governo di Harold Macmillan, che decretava l’indipendenza di quella che fino a quel momento era la Costa d’Oro.
Non a caso il colono l’aveva chiamata così. Il padre stesso di Kwame Nkrumah – ma il suo vero nome era Francis Nwia-Kofi Ngonloma – era un modesto orafo di Nkroful. E ancor oggi il prezioso minerale viene spesso alla ribalta delle cronache del Ghana. La sudafricana AngloGold è diventata uno dei primi gruppi auriferi al mondo da quando si è alleata, pochi anni fa, con la Ashanti Goldfields. E tragici incidenti nelle miniere d’oro ghaneane sono cronaca ricorrente.
Ma l’Osagyefo – “il redentore”, come a Nkrumah non dispiaceva affatto essere chiamato – volle, con decisione solitaria, dare alla sua patria «amatissima» un nome nuovo: non in omaggio, come qualcuno potrebbe supporre sulla base di un’assonanza fonetica, ai “Ga” che popolano il territorio su cui sorge la capitale, e che sono imparentati con i ben più celebri Ashanti, ma per rinverdire gli splendori di un antico impero. Il Ghana, il primo dei grandi Stati dell’Africa occidentale, era fiorito tra il 400 d.C. e il 1240. E poco importa che si localizzasse da tutt’altra parte, grosso modo a cavallo fra gli attuali Senegal, Mauritania e Mali.
Perché Nkrumah era fatto così. Uomo brillante, trascinatore, di ampie visioni, era consapevole della missione che la Storia gli aveva affidato: di dover aprire la strada al riscatto del suo Paese – lui, l’Osagyefo che già prima dell’indipendenza aveva scritto un’autobiografia – e di farlo costruendo l’unità di tutto il continente. «Africa Must Unite» – “l’Africa deve unirsi” – è il titolo-slogan del più citato dei suoi numerosi libri.
L’idea panafricanista, di cui Nkrumah è l’apostolo più acclamato, non nacque però con lui. E nemmeno vide la luce in Africa. Cominciò a prendere forma nei circoli intellettuali dei figli e nipoti degli antichi schiavi. Henry Sylvester Williams, un avvocato di Trinidad, organizzò a Londra, nel 1900, la prima Conferenza panafricana. «Il problema del XX secolo è il problema della linea del colore» recitava l’Appello alle nazioni del mondo conclusivo di quella assise. Altri fecero progredire l’idea, come William Edward Burghardt DuBois, promotore di ben cinque Congressi panafricani tra il 1919 e il 1945, e che volle trascorrere gli ultimi anni di vita in Ghana, dove si era trasferito dagli Stati Uniti per seguire da vicino la realizzazione del sogno. Il giamaicano Marcus Garvey ispirandosi al progetto sionista aveva accarezzato il sogno di «riportare a casa, in Africa, milioni di neri americani». Era passato anche all’atto pratico, facendosi armatore di una piccola flotta che battezzò Black Star. Non seppe convincere molti clienti. (L’emblema della stella nera andrà poi comunque a identificare il Ghana: essa sovrasta oggi il mausoleo di Nkrumah e l’arco dell’indipendenza ad Accra. Black Star è il nome della nazionale di calcio e Black Star Line è la compagnia nazionale di navigazione. E una stella nera a cinque punte campeggia, ovviamente, sulla bandiera nazionale i cui colori sono gli stessi, in ordine inverso, di quelli del vessillo dell’Etiopia, il Paese dell’Africa nera rimasto sempre libero a parte la parentesi italiana del 1936-41. Il verde rappresenta le foreste del Ghana; il rosso è il sangue versato nella lotta; il giallo, è quello dell’oro).
George Padmore e Cyril Lionel Robert James, anch’essi oriundi di Trinidad, furono specialmente vicini a Nkrumah negli anni della sua ascesa politica iniziata dopo un periodo di eclettica formazione, dapprima in un seminario cattolico del suo Paese e, dal 1935, in Pennsylvania e poi a Londra. Dei tre sarà appunto Nkrumah ad assumere la leadership del movimento panafricanista, a partire dal Congresso di Manchester del 1945. E sarà lui a rimanere nell’immaginario collettivo, fino ad oggi, l’eroe del panafricanismo. Non per nulla gli ascoltatori della Bbc lo votarono, nel 2000, “africano del millennio”.
Di ritorno in patria, nel 1947, Nkrumah fu subito cooptato dai dirigenti del partito nazionalista, l’Ugcc (United Gold Coast Convention), come segretario politico. L’anno successivo, al termine di una tragica manifestazione di protesta – durante la quale la polizia di Sua Maestà aprì il fuoco ad altezza d’uomo e il bilancio fu di una trentina di morti e oltre duecento feriti – Nkrumah venne messo agli arresti insieme ad altri cinque leader del suo partito. «Dopo quel 28 febbraio, fatidico giorno della marcia indipendentista, la Costa d’Oro ribollì di un appassionato nazionalismo, che venne ulteriormente alimentato dall’errore politico del governatore di mettere agli arresti i Big Six», commenta Joseph Henry Mensah, oggi Senior Minister del governo di Accra.
Ma Nkrumah scalpitava, l’Ugcc gli andava stretta. Ritrovata la libertà, fonda un suo partito, il Cpp (Convention People’s Party), per ottenere l’autogoverno «subito». Celebre la sua frase a effetto, ricalcata su un versetto evangelico: «Cercate prima il regno politico e il resto vi sarà dato in aggiunta». In breve tempo riesce a creare, sfidando la censura coloniale, un clima nuovo di libertà d’espressione. Nascono giornali, le idee circolano. Nel 1950, infiammatosi per la nonviolenza (il Mahatma era stato ucciso due anni prima) Nkrumah organizza un grande sciopero ispirato al metodo delle positive actions gandhiane. Reclama elezioni generali e un referendum sulla riforma costituzionale. Finisce di nuovo in carcere. Ma il consenso popolare cresce, l’autorità coloniale si vede costretta ad organizzare elezioni e a concedere una forma di autogoverno. Nkrumah passa direttamente, o quasi, dalle catene alla poltrona di primo ministro.
“Primo ministro” è il titolo che Nkrumah conserverà anche dopo l’indipendenza, poiché per i primi anni il Ghana è un dominion avente ancora per capo di Stato, a titolo onorifico, la Corona britannica. «Il Commonwealth – aveva assicurato l’Osagyefo nella sua ultima allocuzione prima del 6 marzo 1957 – può diventare, io credo, uno schema pilota in vista di sviluppare i metodi più efficaci di mettere fine al colonialismo, senza rivoluzione né violenza». Ma ben presto anche quel tenue e soltanto formale cordone ombelicale gli pesa. Nkrumah organizza un referendum: il 1° luglio 1960 il Ghana è repubblica.
Nel frattempo non smette di guardare al di là dei confini nazionali. Nel 1958 convoca ad Accra due storiche conferenze panafricane, le prime su suolo africano. In aprile si riuniscono, «nel sacro nome di Madre Africa», i capi di Stato degli otto Paesi allora indipendenti (Egitto, Etiopia, Liberia, Libia, Marocco, Sudan e Tunisia oltre allo stesso Ghana); a dicembre, tocca ai rappresentanti dei popoli africani in lotta per l’indipendenza (un nome fra tutti: il congolese Lumumba).
Si prepara così l’evento del 25 maggio 1963, quando nascerà, in Etiopia, l’Organizzazione dell’unità africana (Oua). Anche se non era proprio quella la formula sperata da Nkrumah, fautore di un panafricanismo di alto profilo, capace di fare del suo continente una potenza in grado di interloquire alla pari con i grandi di questo mondo. (Si era in piena guerra fredda, e infatti Nkrumah non si era lasciato scappare l’occasione di essere presente a Belgrado nel settembre 1961: nella Iugoslavia di Tito era stato lui uno dei protagonisti della prima conferenza dei Paesi non allineati, “terzo polo” tra Usa e Unione Sovietica). L’Oua varata ad Addis Abeba doveva essere, secondo Nkrumah, solo una fase di passaggio verso una vera federazione, verso gli «Stati Uniti d’Africa». (Sarebbe un po’ più soddisfatto oggi che l’Oua è diventata “Unione africana”, sul modello della Ue?).
«Ricordo benissimo – racconta un giornalista, Ryszard Kapuscinski, che quel giorno ad Addis Abeba c’era – il momento in cui Nkrumah si presentò all’assemblea. Il vertice stava vivendo un momento di stanchezza: i delegati disertavano le sale, andavano al bar, parlavano con i giornalisti, ma all’improvviso una scossa elettrica percorse ognuno di noi. Si era sparsa la voce: Nkrumah stava per prendere la parola. La sala si riempì in pochi minuti, Nkrumah salì sul podio e fu silenzio immediato. Aveva uno sguardo che sembrava sempre guardare lontano. Sicuramente era il più grande fra i nuovi capi dell’Africa».
“Troppo” grande, forse. Al punto di rimanere poi accecato dalla sua ambizione. Dotò il Ghana, è vero, di molte infrastrutture, approfittando dei corsi favorevoli del cacao e al contempo cercando di differenziare le risorse agricole, affinché il Paese non rimanesse troppo dipendente dal cacao stesso. Ma intanto Nkrumah diventava sempre più accentratore. Già al momento dell’indipendenza aveva subito cumulato, con la carica di primo ministro, anche i portafogli della Difesa e degli Esteri. E sul fronte internazionale era sin troppo attivo, rischiando di perdere progressivamente il contatto con la realtà profonda del suo Paese. Non è di poco conto un ricordo di Gamal Abdel Nasser, il rais egiziano campione del panarabismo che peraltro coltivava, come Nkrumah, orizzonti internazionali: «Con lui io cercavo ripetutamente di parlare del Ghana… Era impossibile. Nkrumah voleva parlare dell’Africa intera». «In certo qual modo – confermava uno dei suoi consiglieri della prima ora, Michael Francis Dei-Anang – il Ghana non gli interessava. Non era per lui che il punto di partenza per raggiungere tutta l’Africa».
Lo scontento nel Paese cresceva, e non poteva certo essere ammansito da misure come quella di proclamare il Cpp partito unico e se stesso presidente a vita o di edificare un costosissimo edificio per il terzo vertice dell’Oua. L’Osagyefo sfuggì anche a due attentati. E nel 1966, mentre viaggiava tra Hanoi e Pechino, venne spodestato. Si rifugiò nella Guinea di Sékou Touré, il Paese che, primo fra le colonie francesi, aveva rotto con Parigi.
Ammalato di cancro, Kwame Nkrumah spirò a Bucarest il 27 aprile 1972, senza che i suoi errori arrivassero a intaccarne il mito. «Il suo posto nella storia è assicurato», avevano subito dichiarato i golpisti del ‘66. La salma di Kwame Nkrumah venne traslata, a pochi mesi dalla morte, nel suo Paese. Ora riposa nel mausoleo eretto nel punto da cui fece vibrare, quella notte, Accra e l’Africa intera con le sue parole. «L’indipendenza del Ghana è priva di significato, se resta slegata dalla totale liberazione del continente africano».

(*) Ripreso da «Leoni d’Africa. Padri (e padroni) del Novecento nero», un ottimo libro curato da Pier Maria Mazzola (Epoché 2008).
Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano in blog. Dall’11 gennaio 2013, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata» – qualche volta raddoppia o triplica, pochi minuti dopo – postata di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna dimenticano o rammentano “a rovescio”. Qualche volta il tema è più leggero… che sorridere non fa male, anzi.
Molti i temi possibili. A esempio, nel mio babelico archivio, sul 27 aprile avevo, fra l’altro, ipotizzato: 1521: muore Magellano; 1759: nasce Mary Wollstonecraft; 1831: muore Carlo Felice che fu detto «Feroce»; 1937: muore Gramsci; 1941: Mussolini ordina di internare gli zingari; 1965: escono gli Oscar Mondadori; 1966: Paolo Rossi muore dopo un pestaggio fascista; 1992: Kossiga si dimette; 2011: uccisa Noxolo Nogwaza. E chissà a ben cercare quante altre «scordate» salterebbero fuori.
Molte le firme (non abbastanza forse per questo impegno quotidiano) e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi: magari solo una citazione, una foto o un disegno. Se l’idea vi piace fate circolare le «scordate» o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare – ribadisco: ne abbiamo bisogno – mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it ) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”.
Ogni sabato (o quasi) c’è un riassunto di «scor-date» su Radiazione (ascoltabile anche in streaming) ovvero, per chi non sta a Padova, su www.radiazione.info .
Stiamo lavorando al primo libro (e-book e cartaceo) di «scor-date»… vi aggiorneremo. (db)

Redazione
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