Scor-data: 6 febbraio 1932

Nasce un eterno adolescente, dunque un grande regista

di Fabio Troncarelli (*)

Ottantun’anni fa nasceva François Truffaut. Ricordarlo fa un certa impressione. Se c’è un regista che chi ama il cinema sente giovane è proprio Truffaut, con quell’aria da eterno ragazzo, che si muove a scatti, nervoso, a disagio in mezzo agli adulti. Truffaut è sempre rimasto adolescente: un ragazzo difficile, scontroso, ma capace di slanci appassionati, di un amore ardente che non pretende nulla in cambio, che ci supplica di non lasciarlo solo, di ascoltarlo, di permettergli di esprimersi. Conosciamo bene dalla sua biografia i gravi problemi con cui dovette confrontarsi, alle prese con il fantasma di un padre che non conobbe mai e con una famiglia d’origine che era il contrario di quello che avrebbe desiderato. Il risultato di tanta sofferenza fu qualcosa che un giovane d’oggi stenterebbe a capire: Truffaut, come tanti suoi coetanei, fuggì dalla luce per vivere nell’ombra, frequentando sale cinematografiche di terz’ordine che proiettavano anche due film diversi al giorno e invitavano lo spettatore alla simbiosi con uno spazio che somiglia a quello del sogno. E’ lì in mezzo alle illusioni dorate di Hollywood imparò a familiarizzarsi anche con le piccole illusioni, a basso costo, dei film popolari della Francia del dopoguerra, ad amare perfino le canzoni da due soldi di quei film, a capirne lo spirito, il profumo, la miseria umana così simile alla sua. Forte di queste fragili armi, prese di petto la vita e la vita gli rispose per le rime: finì in riformatorio, nella Legione straniera, in carcere e chissà che altro avrebbe combinato se il destino non avesse messo sulla sua strada André Bazin, un padre spirituale che seppe volergli bene e aiutarlo. Grazie a lui Truffaut il disadattato, sepolto nell’oscurità, ritornò alla luce, fece di necessità virtù e divenne un critico cinematografico. Scrisse articoli di fuoco nei «Cahiers du Cinema» di Bazin, una rivista che riuniva i più brillanti appassionati di cinema del momento, destinati a divenire registi di successo, i registi della Nouvelle Vague: Godard, Chabrol, Rivette, Demy, Rohmer. Come loro, anche Truffaut fece presto il grande salto e dopo qualche esperienza di sceneggiatore e aiuto regista, esordì con un film destinato a divenire un cult, «I quattrocento colpi», inaugurando una carriera prestigiosa. Non è questa la sede adatta per commentare analiticamente la sua ricca, complessa e controversa filmografia. Ci basta, per ricordarlo degnamente, riflettere su un tema indissolubilmente legato alla sua figura: la struggente vulnerabilità dei suoi personaggi di fronte all’amor fou.

Sarebbe facile trovare molti esempi di queste folgorazioni nei film di Truffaut e altrettanto facile trovare l’equivalente nella sua tempestosa vita sentimentale di seduttore impenitente; oppure, col senno di poi, assumere la maschera dell’uomo maturo e giudicare la spiccata capacità di perdere la testa del regista e dei suoi personaggi come un tratto adolescenziale. Ma perderemmo così il frutto più bello di questa tensione dell’anima, la scoperta più sorprendente, più commovente di questo ragazzo scorbutico e timido, con il sorriso disarmante: il coup de foudre per il romanzo sconosciuto di uno sconosciuto, trovato per caso tra i libri usati di una bancarella, «Jules e Jim» di Pierre Roché. Chi può dimenticare Jeanne Moreau che canta «Tourbillon»? Quel sorriso un po’ tirato, di chi vive la sua capacità di sedurre come un dovere, con il blando senso della fatalità e l’indulgenza di una madre che non può non occuparsi di figli smarriti e imploranti? Tutto questo oggi è storia del cinema e dell’immaginario collettivo, ma non sarebbe esistito se l’eterno adolescente non si fosse fatto sedurre ancora una volta, innamorandosi di un libro solo per il suono del suo titolo come Tristano che si innamorò di Isotta solo sentendone il nome. Truffaut era così. Per dirlo in una parola sola: generoso. S’incantava davanti al mistero dell’esistenza ogni volta che ne scorgeva il riflesso, in un volto femminile o nelle parole di un libro. E si metteva al servizio di questo incantesimo con l’umiltà di un cavaliere al servizio di una dama. Quando parlava di «Jules e Jim», sussurrava con emozione che il libro era molto migliore del film e che l’unico merito del suo lavoro era aver fatto conoscere uno scrittore straordinario, ingiustamente trascurato. Allo stesso modo, poco prima di morire, con il volto segnato dalla malattia, affermava di sentirsi felice di aver contribuito a far conoscere in modo meno superficiale Hitchcock, che tutti consideravano un autore di successo, ma che nessuno prendeva veramente sul serio. Era vero. E nello stesso tempo così strano. Strano che migliaia di spettatori e di critici non fossero riusciti a entrare in sintonia con la parte più segreta, ombrosa, scontrosa, difficile di un uomo sempre alla ribalta. Truffaut ci riuscì. Perché come ogni vero adolescente non nascose i suoi sentimenti anche se aveva davanti un uomo che nascondeva rigorosamente i suoi. E alla fine della sua lunga intervista, dopo pagine e pagine brillanti ed acute, ricche di dettagli tecnici e umani, ciò che ci resta scolpito nella mente è un’osservazione che nasce proprio da questa schiettezza e va dritta al cuore: «Credo sia necessario classificare Hitchcock – ma tutto sommato perché classificarlo? – nella categoria degli artisti inquieti come Kafka, Dostoevskij, Poe. Questi artisti dell’angoscia non possono evidentemente aiutarci a vivere, perché vivere per loro è già difficile, ma la loro missione è dividere con noi le loro ossessioni» (è in «Il cinema secondo Hitchcock»: a pagina 22 nell’edizione Net del 2002). Anche per Truffaut potremmo dire lo stesso. Vivere era difficile per lui, come per ogni adolescente: ma il senso della sua vita, dei suoi slanci generosi, era farci condividere le sue ossessioni, emozioni, passioni.

Tutto questo può sembrarci futile e fragile. Ma è il miracolo stesso dell’amore che si rinnova di continuo nonostante i rischi, i pericoli, le tragedie. Per questo, non c’è nulla di più adatto per ricordare Truffaut che riascoltare la bella canzone di Charles Trenet, da cui il regista ha preso il titolo del suo film «Baci rubati». La canzone comincia con la domanda : «Che cosa resta dei nostri amori?», gli amori che il genio della lingua francese permette di rievocare con l’intraducibile fanés. Trenet se l’era chiesto nel drammatico 1942, quando tutti avevano ben altri grilli per il capo e l’amore sembrava lontano anni luce. Eppure il piccolo Trenet aveva ragione: i drammi finiscono, ma gli uomini restano e si chiedono che fine ha fatto la parte migliore di loro; e imparano ad accontentarsi del ricordo struggente di un profumo di fiori appassiti, fanés, come gli amori perduti. Questo aveva imparato il giovane Truffaut nei cinema di periferia, con le lacrime al viso che nessuno indovinava nell’oscurità: aveva imparato a capire, passando per la porta di servizio della letteratura e dell’arte, quello che Baudelaire ha chiamato «il linguaggio dei fiori e delle cose mute», le parole non udite, non dette che solo il poeta riconosce in un profumo, nei baci rubati al tourbillon della vita.

(*) Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano. Dall’11 gennaio, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata», di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione la gente sedicente “per bene” ignora, preferisce dimenticare o rammenta “a rovescio”.

Molti i temi possibili. A esempio, nel mio babelico archivio, sul 6 febbraio avevo questi appunti: ogni anno giornata contro le mutilazioni genitali; 1694: dopo 67 anni preso il rifugio degli schiavi ribelli Quilombo dos Palmares; 1853: insurrezione a Milano; 1924: nasce Paolo Volponi; 1927: inizia il caso dello «smemorato di Collegno»; 1928: i fascisti uccidono in carcere Gastone Sozzi; 1973: libertà provvisoria per l’innocente Giuseppe Angioni; 1992: muore David Turoldo; 2011: tre bimbi rom bruciano a Roma. E chissà, a cercare un poco, quante altre «scor-date» salterebbero fuori su ogni giorno.

Molte le firme e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi, magari solo una citazione, un disegno o una foto. Se l’idea vi piace fate circolare le “scor-date” o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se volete collaborare mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it) con me e col piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”. (db)

 

Redazione
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  • Grazie Daniele. Qui e ora, leggerlo dà un sorriso e una lacrima alla giornata, e insieme incoraggia nell’attesa, per affrontarne altre. Grazie.

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