Scor-data: 7 aprile 1979

Il teorema Calogero

di Energu (*)

Arresti

(*) Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano in blog. Dall’11 gennaio 2013, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili ma sinora sempre evitati) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata» – qualche volta raddoppia o triplica, pochi minuti dopo – postata di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna dimenticano o rammentano “a rovescio”.

Molti i temi possibili. Molte le firme (non abbastanza forse per questo impegno quotidiano) e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi: magari solo una citazione, una foto o un disegno. Se l’idea vi piace fate circolare le «scordate» o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare – ribadisco: ne abbiamo bisogno – mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it ) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”.

Ogni sabato (o quasi) c’è un riassunto di «scor-date» su Radiazione (ascoltabile anche in streaming) ovvero, per chi non sta a Padova, su www.radiazione.info .

Stiamo lavorando al primo libro (e-book e cartaceo) di «scor-date»… vi aggiorneremo. (db)

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

10 commenti

  • Gianni Sartori

    “…NON VOGLIAMO DISCUTERE DI FRONTE AL NEMICO LA LORO MORTE…”
    A 35 ANNI DALLA MORTE DI ANTONIETTA, LORENZO, ANGELO, ALBERTO
    (Gianni Sartori)*

    Negli anni settanta del secolo scorso il protagonismo politico e sociale delle classi subalterne conobbe una forte radicalizzazione.
    Anche nel Veneto, considerato una sorta di “Vandea” bianca e bigotta, ma che era stato periodicamente percorso da stagioni di lotte significative: dal “furto campestre di massa” a La Boje, dalle “Leghe bianche” (che in genere operavano come quelle “rosse”) alla Resistenza (v. i durissimi rastrellamenti del 1944: Malga Zonta, Asiago, il Grappa, il Cansiglio…).
    Senza dimenticare la rivolta operaia di Valdagno del 19 aprile 1968. E non mancarono, dalla Bassa padovana all’Alto Vicentino, componenti libertarie. All’inaugurazione di una delle prime sedi sindacali a Schio partecipò Pietro Gori (l’autore di Addio Lugano bella). Una tradizione testimoniata da personaggi come il compagno anarchico “Borela”, un Ardito del Popolo che accolse i fascisti in marcia verso Schio a pistolettate. Per non parlare di uno dei fondatori del Pcd’I, Pietro Tresso (“Blasco”, comunista dissidente, ucciso in Francia da agenti della Ghepeù stalinista) e di Ferruccio Manea (il “Tar”), eroico comandante partigiano ricordato da Meneghello in “Piccoli maestri”. Tra la fine degli anni sessanta e i primi settanta a Vicenza era presente un gruppo anarchico, il MAV, molto attivo nella denuncia delle istituzioni totali. Altri gruppi a Schio, Valdagno e Marano vicentino (Circolo operaio anarchico).
    Di questa tradizione si alimentarono le lotte di autodifesa proletaria contro i devastanti progetti capitalisti degli anni settanta. Progetti che trasformarono gran parte della terra veneta in un’alienante territorio urbanizzato, il modello nordest della “fabbrica diffusa”. Contro la drastica ristrutturazione produttiva (licenziamenti, lavoro nero e precario, intensificazione dello sfruttamento, inquinamento ambientale…) sorsero alcune inedite forme di autorganizzazione come i Gruppi Sociali, i Coordinamenti Operai, l’Opposizione Operaia. I metodi non furono sempre “eleganti”, ma sappiamo che “non è un pranzo di gala”.
    La nuova Resistenza fu particolarmente attiva lungo la fascia pedemontana dell’Alto Vicentino in località come Schio, Piovene, Thiene, Lugo, Chiuppano, Calvene, Bassano…
    Il 7 Aprile 1979 è passato alla Storia come la data dell’arresto di alcuni esponenti dell’area dell’Autonomia Operaia organizzata (Negri, Vesce, Ferrari Bravo…). Nel vicentino la mobilitazione è immediata. Per l’11 aprile è prevista una manifestazione nazionale a Padova e la sera precedente a Schio si organizza un’affollata assemblea del movimento. Da segnalare che in seguito i partecipanti rischieranno di essere incriminati perché l’assemblea pubblica verrà classificata come “riunione del servizio d’ordine” in cui sarebbero stati pianificati futuri attentati. L’11 aprile la manifestazione nazionale si svolse al Palasport dell’Arcella (Padova) con la partecipazione di circa seimila persone. Ma contemporaneamente a Thiene esplodeva una bomba rudimentale uccidendo i tre giovani che la stavano confezionando. Si trattava di Antonietta Berna, Angelo Dal Santo e Alberto Graziani, tre noti e attivi militanti dell’Alto Vicentino.
    Resasi indipendente dalla famiglia, Antonietta viveva di lavoro nero svolto a domicilio. Angelo Dal Santo, operaio, nel 1978 era entrato nel consiglio di fabbrica della RIMAR. Grazie al suo impegno i lavoratori di questa fabbrica metalmeccanica di Lugo avevano ottenuto migliori condizioni normative e salariali. Aveva poi organizzato picchetti e ronde contro gli straordinari. Partecipò all’occupazione di case sfitte e della “Spinnaker”. Ai suoi funerali, oltre a centinaia di compagni, erano presenti tutte le operaie di tale fabbrica.
    Angelo Graziani, studente universitario, aveva preso parte a tutte le iniziative del movimento: lotte per la casa e contro gli straordinari, organizzazione di precari e disoccupati…
    In un comunicato del 1° maggio 1979 i tre militanti vennero ricordati dal “Comitato per la liberazione dei compagni in carcere”:
    “Come movimento comunista, al di là delle attuali differenze interne, rivendichiamo la figura politica di questi compagni. Maria Antonietta Berna, Angelo Dal Santo, Alberto Graziani sono stati parte integrante nella loro militanza di tutte le lotte dei proletari della zona. Sono morti esprimendo la rabbia, l’odio, l’antagonismo di classe contro questo Stato, contro questa società fondata e organizzata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Nessuna disputa di linea politica e le differenziazioni di impostazione e di analisi e di pratica dentro il movimento possono offuscare e negare l’appartenenza di questi compagni all’intero movimento rivoluzionario, a tutti i comunisti. Di fronte all’iniziativa del nemico di classe, alle iniziative repressive, al terrore fisico e psicologico, al terrorismo propagandistico, allo stravolgimento e strumentalizzazione dei fatti, l’intero movimento di classe deve rivendicare a sé questi compagni caduti, per non dimenticare, per ricordare. Non vogliamo discutere di fronte al nemico la loro morte, essa vive oggettivamente e soggettivamente dentro il movimento di classe in Italia, alla sua altezza e nelle sue difficoltà, nel suo sviluppo fatto con la vita e con la morte di migliaia di compagni lungo una strada che porti fuori dalla barbarie capitalistica e dalla miseria del socialismo reale, per il comunismo. A questa strada difficile questi tre compagni hanno dato comunque il loro contributo, la loro vita. Per questo, oggi più che mai, sono con tutti noi”.
    La sera stessa arrivano i primi arresti. Vengono incarcerati Chiara, moglie di Angelo; Lucia, compagna di Alberto; Lorenzo, compagno di Antonietta. Nel giro di poche ore anche Corrado e Tiziana che abitavano con Chiara e Angelo. Un altro ordine di cattura viene spiccato contro Donato, al momento irreperibile. Nel frattempo vengono eseguite decine di perquisizioni e si effettuano numerosi fermi. Un gran numero di posti di blocco trasforma i dintorni di Thiene in un quartiere cattolico di Belfast. Tutti coloro che in qualche modo avevano a che fare con il Gruppo Sociale di Thiene rischiano ora l’incriminazione per banda armata. A tutti gli arrestati vengono contestati: l’appartenenza ad una associazione sovversiva costituita in banda armata; il concorso nella fabbricazione dell’ordigno esplosivo e nella detenzione di armi; il concorso in tutti gli episodi avvenuti nel Veneto negli anni precedenti. Fino al concorso morale nella morte dei tre giovani di Thiene. In un documento presentato da un imputato alla Corte d’Assise (“Quegli anni, quei giorni, autonomia operaia e lotte sociali nel Vicentino: 1976-1979”) viene riportato che “la sera dell’11 aprile Chiara, Lucia e Lorenzo vengono condotti all’obitorio dell’ospedale di Thiene e lì costretti al riconoscimento dei corpi straziati e devastati”. E aggiunge “…il riconoscimento venne effettuato con criteri infami usandolo come deterrente per tutti i compagni”.
    Lorenzo Bortoli subisce l’isolamento totale per quasi un mese. Dopo l’isolamento viene messo in cella con un altro imputato che starebbe già collaborando con i giudici, all’insaputa di tutti. Ricorda un suo amico che “gli si è voluto spezzare violentemente ogni possibilità di socializzazione, di vivibilità, di solidarietà all’interno del carcere, costruendogli addosso e attorno una realtà che solo attraverso la decisione di darsi la morte poteva negare”. Il primo tentativo di suicidio è dell’11 maggio con una ingestione di Roipnol. La direzione del carcere cercherà, invano, di farlo passare come un episodio di uso di sostanze stupefacenti. Numerose mozioni del Comitato Familiari
    che esprimono preoccupazione per la vita di Lorenzo, saranno sottoscritte da consigli di fabbrica e di quartiere. Anche sindacati e partiti intervengono affinché si ponga fine alla detenzione del giovane garantendogli la possibilità di ricostruirsi un equilibrio psico-fisico. Ma tra il primo e il secondo tentativo di suicidio (22 maggio) i magistrati spiccano un nuovo mandato di cattura accusandolo di aver preso parte ad alcune rapine. In realtà in quei giorni Lorenzo si trovava al lavoro. Il 29 maggio l’avvocato Carnelutti, suo difensore, presenta un’istanza con cui chiede la libertà per Lorenzo Bortoli e per Chiara Dal Santo che tra l’altro aspetta un figlio. La richiesta è motivata da “gravi e preoccupanti motivi di salute”. E ancora, quasi una premonizione: “Un possibile irreparabile danno all’integrità psico-fisica dei due giovani peserebbe sul processo”.
    Ma il 31 maggio l’istanza viene respinta e le accuse ribadite, anche l’omicidio colposo nei confronti di Antonietta Berna. Il 18 giugno Lorenzo Bortoli viene trasferito con destinazione Trento. Sosta nel carcere di Verona e viene sistemato in una cella da solo. L’avvocato Carnelluti deposita a Vicenza un’istanza (che fa arrivare direttamente al G.I.) in cui segnala “il delicato stato di salute di Lorenzo Bortoli (fra l’altro reduce da due autentici tentativi di suicidio e da provocazioni di un coimputato assai sospetto) e mi preoccupo per l’atmosfera squallida di un carcere che non è certamente tra i migliori. Perché questa scelta? Da chi viene?”. Raccomanda inoltre di “valutare attentamente l’intenzione del mio difeso di restare solo in cella dal momento che le esperienze negative del passato legittimano il sospetto che ogni compagno di cella possa essere un provocatore”. Ma ormai il destino di Lorenzo sta per compiersi. Si toglie la vita impiccandosi nella notte tra il 19 e il 20 giugno. Il suo ultimo desiderio, quello di poter essere sepolto con Antonietta si realizzerà solo in parte: le due tombe sono distinte ma comunque vicinissime.
    Gianni Sartori

    *nda Per una serie di vicende personali chi scrive non ha partecipato di persona alle lotte della seconda metà degli anni settanta di cui si parla nell’articolo. Credevo anzi di aver concluso la mia militanza, iniziata davanti alla Ederle nell’ottobre 1967, con le manifestazioni del settembre 1975 al consolato spagnolo di Venezia per protestare contro la fucilazione di due etarras e di tre militanti del FRAP. A farmi ricredere, nel 1981, la morte per sciopero della fame di Bobby Sands e di altri nove repubblicani dell’IRA e dell’INLA (contemporaneamente a quella di un prigioniero politico basco dei GRAPO).
    Quindi soltanto negli anni ottanta ho conosciuto alcuni di quei compagni dell’Alto Vicentino che avevano subito la repressione del 7 aprile. La mia prima impressione fu che in questa area pedemontana la “breve estate dell’Autonomia” avesse avuto caratteristiche simili a quelle dell’Irlanda del Nord e di Euskal Herria, sviluppando un’idea di “società molto orizzontale” (così Eva Forest mi spiegava la lotta dei baschi).

    Bibliografia minima:

    1)“Quegli anni, quei giorni – autonomia operaia e lotte sociali nel Vicentino: 1976-1979”

    (E’ un testo ricco di informazioni di carattere storico, indispensabili per comprendere il contesto dei tragici avvenimenti del 1979. Realizzato da un imputato vicentino del processo “7 Aprile-Veneto”, fotocopiato in proprio, pro manuscripto, forse reperibile in qualche Centro di documentazione ndr)

    2)“E’ primavera. Intervista a Antonio Negri” di Claudio Calia, BeccoGiallo edizioni, 2008
    (a fumetti)

    3) “Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie” (2 volumi) a cura di S. Bianchi e L. Caminiti, DeriveApprodi, 2007

    4) ed eventualmente per conoscere anche l’altra campana: “Terrore Rosso – dall’autonomia al partito armato” Pietro Calogero, Carlo Fumian, Michele Sartori, editori Laterza, 2010.

  • Gianni Sartori

    APPELLO
    Invio questo “frammento di memoria” per sottolineare la mia estraneità all’illustre politologo GIOVANNI Sartori con cui recentemente sono stato confuso (a sinistra) e quindi criticato per alcune sue dichiarazioni in materia di immigrazione. Come traspare da questo mio articolo, per quanto datato, la mia concezione del mondo (con tutto il rispetto per lo spessore culturale del mio QUASI omonimo) è un poco diversa. E naturalmente ho ancora meno a che fare, ca va sans dire, con un altro Gianni Sartori (questo sì, purtroppo, omonimo) che imperversa su vari siti (del Giornale , sul sito di Grillo per es.) lanciando offese e minacce (“merde”, “tre metri di corda…” etc) nei confronti di sinti, rom, immigrati e “comunisti”. Ribadisco che non siamo neanche lontanamente parenti (in tutti i sensi). Tra l’altro mia nonna era sinta (e mio nonno cimbro) per cui…
    ciao e grazie per l’ospitalità
    Gianni Sartori

    CORREVA L’ANNO 1970… (Eride e i suoi fratelli)
    (Gianni Sartori)
    Era una nebbiosa serata di novembre. L’anno il 1970. Dopo la riunione, avevo accompagnato Tiziano Zanella verso casa. Progetti, speranze, dubbi che si affacciavano alla mente di due diciottenni già schierati politicamente e poco disposti a pazientare. A dire il vero, anche se sarebbe più in sintonia, la riunione non era per organizzare manifestazioni o picchetti, ma una spedizione alla grotta denominata “Buso della Rana”, all’epoca ancora la più lunga d’Italia (tra quelle conosciute, ovviamente). Presumo quindi fosse venerdì, serata canonica per gli incontri del Club Speleologico Proteo. Lo stradone dello stadio affogava nella densa nebbia che fuoriusciva dal fiume Bacchiglione. A mala pena si distingueva un alone lattiginoso attorno ai lampioni. I tigli siberiani sull’argine, ombre nere che si perdevano verso l’alto. Impossibile distinguere il ponte della ferrovia e, sull’altra riva, il piccolo monumento ai “Dieci martiri”. Tra i giovani resistenti fucilati dai fascisti sulla striscia di terra che separa il Bacchiglione dal Retrone, anche due rom.
    Improvviso un rumore di passi nelle tenebre, forse una voce. Un’immagine che ricorderò per sempre. Cinque figure allineate, di corsa, che si tenevano per mano occupando quasi l’intera carreggiata. Nessuno restava indietro. Sull’argine, per un attimo, due sagome evanescenti subito dissolte. Le persone in realtà erano sei. Una madre con i suoi figli. Il più piccolo, avvolto in uno scialle, appeso al collo.
    La donna, una “singana” nel linguaggio politicamente scorretto di quando non si sapeva di sinti e di rom, raccontò di essersi accampata nello spiazzo lungo la ferrovia, vicino al vecchio Foro boario, uno dei luoghi dove periodicamente si fermavano carovane in transito.
    Ci spiegò che due individui (le ombre intraviste sull’argine) avevano tentato di entrare con chiare intenzioni. Preoccupata soprattutto per la figlia quattordicenne, era immediatamente fuggita portandosi appresso tutta la famiglia. Raccontò di essere stata recentemente abbandonata dal marito che se ne era andato con la loro roulotte e di vivere in una tenda, dono di un medico benefattore. Fino a qualche giorno prima il campo aveva ospitato alcune carovane. Ma poi erano partite per Milano e loro erano rimasti soli, in attesa che qualcuno li aiutasse a trasferirsi dall’altra parte della città. A Sant’Agostino, dove agli inizi degli anni settanta stazionavano sempre piccoli gruppi di nomadi.
    La donna, nonostante la situazione, dimostrava un forte carattere e non voleva assolutamente ritornarsene nella tenda. I loschi individui avrebbero potuto ritornare. Che fare? Alla fine, dopo aver ampiamente dibattuto, pensammo di risolvere la situazione ospitando provvisoriamente la famiglia in una qualche sede di quelle che frequentavamo abitualmente . Una telefonata per strappare al sonno un dirigente politico, discussione animata (per gli ideologi operaisti ortodossi gli “zingari” erano lumpenproletariat di cui diffidare) e alla fine consegna delle chiavi. Le organizzazioni della sinistra extraparlamentare presenti a Vicenza erano allora una mezza dozzina. Per quella notte trovammo ospitalità a “Potere operaio”, nella vecchia sede di S.Caterina, la prima. Mettemmo a disposizione la sala delle riunioni (dove troneggiavano due manifesti di Marx e Lenin:“ma quello chi è, tuo nonno?”) dove dormirono avvolti nelle coperte che, prudentemente, si erano portate via prima di scappare, mentre noi restammo a far la guardia tra il corridoio e il ciclostile. Un paio di notti freddissime, nonostante l’eskimo. Nei giorni successivi ci occupammo del trasloco, effettuato con uno di quei carretti a pedali che circolavano ancora in città. Per più di un anno frequentai il campo dove si erano stabiliti contribuendo con collette e doni in viveri. Determinante, sia per umanità che per doti organizzative, il ruolo del futuro dott. Dino Sgarabotto che successivamente avrebbe confermato la sua tempra umanitaria in Kenya con il CUAM.
    La madre dei bambini raccontava di essere sfuggita, in tenera età, allo sterminio della sua famiglia. Un giorno dei funzionari erano venuti a cercarli in una località “vicino a Trieste” (poteva trattarsi anche dell’Istria) per portarli a “fare gli esami del sangue” e nessuno di loro fece più ritorno. In quel momento lei era in giro, a giocare, e una sua cugina (che evidentemente aveva mangiato la foglia) si offrì di restare ad aspettarla per poi recarsi in”ambulatorio”. Appena la bimba fu tornata, la cugina l’afferrò e cominciò a correre, a scappare lontano.
    Davo per scontato che la famiglia fosse stata distrutta per mano dei nazifascisti, ma poi qualcuno (forse un “revisionista”?) suggerì che avrebbero potuto trovarsi anche tra le vittime delle foibe. Molti di loro infatti erano classificati come “profughi giuliani”. Lo scoprii quando, in occasione delle elezioni, venivano nel campo per comprarsi qualche voto gli esponenti di un partito ben noto. Ma non certo per il suo antirazzismo. Missini senza scrupoli che al danno aggiungevano anche le beffe. La conferma che era stata opera dei nazifascisti (in una data imprecisata, ma comunque dopo l’8 settembre 1943) la ebbi quando mi recai, su loro richiesta, al Comune di Trieste (in autostop) per ritirare alcuni documenti. Dalle carte si intuiva che la prima tappa del viaggio verso la desolazione e la morte era stata a San Sabba, la “risiera”.
    Nessuno dei cinque figli frequentava la scuola anche se tre di loro ne avevano l’età. Sette, otto e quattordici anni. Cominciai quindi a dare lezioni, all’aperto, anche d’inverno. Talvolta con il terreno ricoperto di neve. Avevamo trovato una stanza, messa a disposizione da una signora di buon cuore, ma loro preferivano così. La cosa avveniva in maniera del tutto “spontaneista” (oltre che, sicuramente, velleitaria) dato che diffidavo delle varie associazioni impegnate all’epoca a “riadattare i nomadi” (come da statuto). Qualche problema anche con alcuni compagni che si occupavano esclusivamente di “classe operaia” dura e pura. Anche se poi, diversamente da chi scrive, a lavorare in fabbrica nessuno di loro c’è mai andato. In compenso qualcuno di loro avrebbe visto volentieri gli zingari alla catena, anche se solo di montaggio*. Da parte mia (dato che la Rivoluzione sembrava ormai dietro l’angolo) ritenevo fosse giusto “non lasciare indietro nessuno”. Talvolta succede, da giovani, di volare alto. Malattia infantile da cui si può comunque guarire.
    Studente-lavoratore, trascorrevo parecchie notti da “Domenichelli” a scaricare e “stivare” camion. Di solito mi recavo al campo nel pomeriggio, prima di iniziare il turno. Altre volte di mattina, quando staccavo. Ovviamente non tutti i giorni, sicuramente molto meno di quanto sarebbe stato necessario. Ma con l’aiuto di alcune amiche del “Fogazzaro” (ricordo in particolare due compagne, Rosanna Rossi e Chiara Stella) qualcosina riuscimmo a insegnare. Anche perché i bambini erano svegli, soprattutto Eride, la più grande. Ne avemmo conferma un paio d’anni dopo che se ne erano andati, a Milano. Sul “Corriere della sera” venne pubblicata una sua lettera bellissima (forse un po’ strappalacrime, ma a fin di bene) che suscitò un’ondata di solidarietà nei confronti della sfortunata famigliola.
    Per il sottoscritto c’era stato qualche piccolo precedente rivelatore. Una mezza denuncia, due anni prima (nel “68”) per aver tolto (“divelto”) alcune tabelle di “Sosta vietata ai nomadi”. In seguito, partiti i miei amici per Milano, non ricordo di averne frequentati altri per parecchi anni, almeno in Italia. Invece all’estero non mancarono occasioni di confronto e talvolta anche di “scontro”, come quando in Bosnia venni inseguito per essermi avvicinato a un accampamento con macchina fotografica. Ricordo, in Guipuzkoa, un militante del movimento antinucleare Eguzki che rivendicava di essere “un basco di origini gitane” e i Tinkers accampati tra il Bogside e il Craigsvon Bridge, a Derry, in Irlanda del Nord (in realtà i Tinkers avrebbero scelto il nomadismo in epoca relativamente recente, per imitazione).
    Nel 1987 proposi ad un settimanale locale di “area progressista” (Nuova Vicenza) alcuni articoli sui campi nomadi del vicentino, via Cricoli in particolare. Visitai, venni invitato a pranzo, partecipai a qualche battesimo, matrimonio e funerale e scattai molte fotografie su richiesta. In una di queste, tempo dopo, riconobbi Paolo Floriani, un ragazzino destinato a morire tragicamente a causa di un inseguimento impietoso da parte della polizia. La sua corsa finì a Debba nel fiume Bacchiglione, in novembre, dopo aver salvato la vita dell’amico Davide che stava per annegare. **
    Come potei documentare, mentre i due sinti fuggivano in motorino per i campi (il giorno dopo restavano ancora i segni delle ruote sull’erba di un vigneto e ne conservo le foto), la polizia aveva sparato, probabilmente in aria. Dal punto dove si era buttato in acqua a quello in cui era annegato c’era una distanza di circa cento metri. Braccato da una riva all’altra, aveva attraversato il fiume quattro volte prima di affogare. Partecipai ai funerali di Paolo e il mio articolo, in cui lo definivo “vittima di razzismo istituzionalizzato, di Stato”, non venne mai pubblicato dal solito settimanale “progressista” (per non aver rogne con le autorità, mi spiegarono). Diventò un volantino di denuncia, firmato dalla sez. di Vicenza della “Lega per i diritti e le liberazione dei popoli” e per quel testo rischiai una querela.*** Ma questa è un’altra storia.
    Gianni Sartori

    * solidarietà, invece, dai compagni del M.A.V. (Movimento anarchico vicentino, ricordo Claudio Muraro, Rino Refosco, i fratelli Anna ed Enrico Za, Laura Fornezza, Stefano Crestanello, Guido Bertacco, Alberto Pento, Gianni Cadorin… che nello stesso periodo difendevano la dignità di altri “marginali”, i reclusi dell’ospedale psichiatrico. Con il sostegno del compianto Sergio Caneva, medico e partigiano.

    ** Per saperne di più vedi: “Nomadi e scomodi” su A, rivista anarchica n. 187, dicembre 1991 e anche “la morte di tarzan” sempre su A, Rivista anarchica n. 206, febbraio 1994

    *** L’autore di un discutibile articolo sulla morte di Paolo (Gianni Nizzero, un ex di Lotta Continua, poi transitato brevemente per l’anarchismo) pubblicato dal Giornale di Vicenza non aveva gradito di essere stato “messo in discussione” nel volantino.

  • Gianni Sartori

    VICENZA: ALTRO CHE LE NUTRIE!
    NUOVA BASE AMERICANA E ALLUVIONI
    Con una tecnica del “capro espiatorio” da manuale, sindaci e assessori leghisti (sostenuti dalle associazioni dei cacciatori) hanno elaborato una versione moderna del “gatto nero” medioevale (o di altre povere bestie criminalizzate e sterminate nel corso dei secoli: lupi, salamandre, rapaci notturni…). Stavolta è toccato alla pacifica e vegetariana nutria, cugina del castoro, accusata di aver provocato con le sue tane il crollo degli argini (in particolare quelli del del Timonchio e del Bacchiglione un paio di anni fa e più recentemente quelli del Retrone).
    Altri presunti colpevoli, i tassi (praticamente scomparsi nelle campagne, sopravvivono solo sui Colli Euganei e Berici!) e le volpi. Per il momento nessuno ha ancora tirato in ballo le tane del martin pescatore. Tra le soluzioni proposte, rifornire di “buoni -benzina” (sarebbero già stati stanziati 13mila euro dalla Provincia) un migliaio di cacciatori vicentini (a cui finora venivano date solo munizioni) che potranno agire indisturbati contro i poveri roditori.
    Se “la domesticazione degli animali ha posto le basi del pensiero gerarchico e fornito un modello e l’ispirazione per lo schiavismo” (“Un’eterna Treblinka. Il massacro degli animali e l’Olocausto” Charles Patterson, Editori Riuniti – 2003), questo atteggiamento spietatamente specista evoca i metodi delle pulizie etniche.
    Quella delle nutrie è una balla. Gli argini si trovano a parecchi metri dalle rive e le poche nutrie rimaste in circolazione (quelle sfuggite alla campagna di sterminio iniziata già da qualche anno) preferiscono avere una tana sulle sponde, con facile e immediato accesso all’acqua.
    Il Coordinamento protezionista vicentino aveva condotto una propria indagine nelle zone colpite dall’alluvione verificando come “l’acqua abbia rotto esclusivamente in zone dove di recente erano stati effettuati interventi”. Per esempio il Timonchio (un torrente a fondo sassoso dove non si segnalano nutrie) “ha trascinato a valle imponenti lavori di consolidamento e imbrigliamento realizzati a Molina di Malo da pochi mesi”. Questo per quanto riguarda Caldogno e Cresole. In altre zone l’acqua ha semplicemente esondato, superando le barriere a muro esistenti (a Vicenza, Debba, Montegalda…).
    Sicuramente una delle cause principali delle devastanti alluvioni è la quasi totale cementificazione di una provincia dove il terreno non è più in grado di assorbire. Ormai si vorrebbe costruire zone artigianali e villette a schiera anche nel greto dei torrenti. In pochi anni il colore del territorio vicentino è passato decisamente dal verde dei campi al grigio dei capannoni. Chi in questi anni ha espresso allarme per il rischio inondazioni è stato, nella migliore delle ipotesi, tacciato di essere una “Cassandra” (dimenticando che, purtroppo per i Troiani, Cassandra aveva visto giusto). La situazione rischia di diventare ulteriormente drammatica nel Basso Vicentino, un’area a sud di Vicenza appena sopra il livello del mare, ricca d’acqua e destinata a diventare, grazie alla nuova autostrada in costruzione, un’immensa teoria di capannoni e depositi (nuove zone industriali tra Longare e Noventa, momentaneamente sospeso il progetto della Despar che avrebbe ricoperto un’area corrispondente a duecento campi, il nuovo poligono di tiro ad Albettone, oltre ad una infinità di caselli, raccordi, strade di collegamento, rotatorie, distributori…). Lo spettacolo lacustre di Montegalda, Montegaldella e Cervarese in seguito alla penultima alluvione dovrebbe aver mostrato cosa ci riserva il futuro se si continua a cementificare.
    Per Vicenza e Caldogno (uno dei paesi più devastati a nord della città), dove l’acqua aveva toccato livelli mai raggiunti, appariva evidente che un elemento decisivo era rappresentato dalla nuova base americana Dal Molin. Per chi non conosce la zona, va ricordato che alcuni fiumi a carattere torrentizio scendono dalle alte montagne (Carega, Sengio Alto, Pasubio, Novegno, Pria Forà. Summano…) al confine tra la provincia di Vicenza e quella di Trento raccogliendo acque copiose provenienti dalle piogge e dalle nevi. Tra questi il Leogra, l’Orolo, il Timonchio e l’Astico (quello che poi confluisce nel Tesina). Le acque scorrono anche in profondità, attraverso i depositi di ghiaia, tornando in superficie nelle risorgive come il Bacchiglioncello che sgorga a Novoledo. Diventa poi Bacchiglione prima di entrare a Vicenza dove riceve l’Astichello e, dopo Porta Monte, il Retrone e la roggia Riello. Dopo pochi chilometri, a San Piero Intrigogna, incontra il Tesina dove è appena confluita la roggia Caveggiara. Insomma. un ambiente dove l’acqua non manca, anche per la presenza di una falda acquifera tra le più grandi d’Europa. Forse non è stato un caso che gli Usa abbiano tanto insistito (come confermano documenti divulgati da Wiki Leaks) per appropriarsi del Dal Molin che “poggia” (galleggia?) sulla falda stessa.
    I lavori al Dal Molin (attorno a cui scorre il Bacchiglione alimentando, insieme alle piogge, la falda) hanno comportato, oltre alla cementificazione di una vasta area, uno spostamento del fiume, l’ampliamento dell’argine sul lato della base e l’inserimento nel suolo di un enorme quantità di pali in cemento (vere e proprie palafitte, stile Venezia) che, molto probabilmente, hanno funzionato come una “diga” sotterranea costringendo l’acqua a fuoriuscire. Con i risultati che sappiamo.
    In origine i pali (mezzo metro di diametro) dovevano essere solo ottocento, ma alla fine ne sono stati utilizzati circa tremila. Piantati fino a18 metri di profondità.
    Sembra che inizialmente i pali non reggessero proprio per la presenza della falda acquifera. Sarebbe interessante scoprire in che modo siano riusciti poi a piantarli.
    Un’altra considerazione sulla nuova autostrada a sud di Vicenza (A31, Valdastico Sud), costruita in quattro e quattro-otto, dopo anni di polemiche e contenziosi, nonostante i vincoli paesaggistici. Osservando una carta topografica salta agli occhi come sia destinata a diventare un ottimo raccordo tra le varie basi statunitensi. Se la Ederle era già prossima al casello di Vicenza Est, la nuova base Dal Molin è comodissima alla Valdastico Nord. Restava defilata solo la base Pluto, a Longare, ma qui ora sorgerà un casello. Un altro casello verrà costruito ad Albettone, dove è previsto un poligono di tiro che utilizzeranno soprattutto i militari.
    Altra ipotesi. Si sa che l’autostrada finisce in provincia di Rovigo, praticamente nel nulla. Però in quel “nulla” c’è una vecchia base militare abbandonata. Scommettiamo che non resterà tale per molto? Tra cementificazione, militarizzazione, sterminio di animali…tutto si tiene.
    Parafrando quanto viene attribuito a Seattle “quando avrete ammazzato l’ultima nutria, sradicato l’ultima siesa (siepe, in veneto), ricoperto di cemento l’ultima prato, vi accorgerete di non poter mangiare il denaro e affogherete (profetico! ndr) nei vostri rifiuti”.
    Gianni Sartori

  • Gianni Sartori

    “Sono sempre più convinto che ricordare sia una forma di Resistenza. Invio questo contributo in memoria dei compagni di MRTA assassinati dalle teste di cuoio peruviane al servizio dell’imperialismo

    “E TU ORA COSA PENSI?…”
    – un incontro con Isaac e Norma Velazco-

    Un anno fa, il 17 dicembre 1996, un gruppo di guerriglieri del MRTA (Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru) occupava l’ambasciata giapponese a Lima, come estrema forma di protesta contro il sistema carcerario peruviano, per la liberazione dei prigionieri politici uccisi lentamente, giorno per giorno, nelle prigioni di Fujimori. L’occupazione finì quattro mesi dopo con l’intervento delle teste di cuoio peruviane, addestrate da istruttori americani. I guerriglieri vennero giustiziati e fatti letteralmente a pezzi (alcuni decapitati). Nei comunicati del MRTA si sostiene che “come gran parte del Sud del mondo, il Perù si trova sotto il tallone del neoliberismo e il suo sviluppo economico avviene a scapito delle masse popolari, in particolare delle popolazioni indigene”. Da questo punto di vista l’azione per quanto estrema del MRTA è stata vista anche come “una risposta alla violenza del sistema politico ed economico, un tentativo di riaffermare la dignità umana”.
    Ne abbiamo parlato con Isaac Velazco, intervenuto con la moglie Norma in quanto rappresentati del MRTA, ad un incontro-dibattito tenutosi a Vicenza, presso Villa Lattes, il 15 dicembre. Isaac porta i segni indelebili delle torture cui è stato sottoposto, torture che comunque non hanno potuto scalfire il profondo senso di dignità che traspare dai suoi gesti e dalle sue parole, testimonianza vivente dei milioni di Indios massacrati e perseguitati dai colonizzatori europei.

    Che cosa intendi sottolineare dell’attuale situazione in America Latina e in particolare nel Perù?
    Vorrei ricordare cosa rappresenta l’attuale modello neoliberista per i popoli dell’America Latina, dell’Asia, dell’Africa… i cosiddetti popoli sottosviluppati. Sono questi popoli che hanno reso possibile, subendo uno sfruttamento durato ormai 500 anni, lo sviluppo industriale e le attuali condizioni materiali di vita di coloro che ancora ci opprimono, i paesi sviluppati.

    Come si è concretizzato tutto questo nei territori che costituiscono l’attuale Perù?
    I diritti del nostro popolo non sono mai stati rispettati. Ci è stato impedito di parlare la nostra lingua e ci è stata imposta quella dei conquistatori; la nostra cultura è stata proibita. Abbiamo dovuto subire un modello economico portato dall’Europa e le nostre terre comuni sono diventate terre dei conquistatori. Con violenza ci hanno tolto la libertà e ci hanno trasformato in servi e schiavi, obbligandoci a lavorare quelle terre che erano state nostre, a scendere nelle profondità della terra per estrarre l’oro, insieme al denaro unico vero Dio dei conquistatori. Quell’oro estratto dai nostri avi servì per l’accumulazione originaria del capitale che permise lo sviluppo industriale in Europa. Ricordo che anche ai nostri giorni circa diecimila tonnellate di oro estratto in Perù prendono ogni anno la via dell’Europa e degli Stati Uniti. Per cinquecento anni tutto il continente denominato America Latina ha sopportato il saccheggio delle risorse naturali. Più di 13 milioni di indigeni in Perù, e 64 milioni in tutta l’America Latina, furono assassinati nel più grande genocidio mai registrato dalla storia dell’umanità e di cui quasi nessuno ha il coraggio di parlare.

    Come vivevano gli indigeni prima dell’arrivo dei conquistatori?
    Nel continente sudamericano si erano sviluppate culture autoctone che avevano fornito soluzioni molto positive alle necessità delle popolazioni. L’economia non si basava sulla proprietà privata ma sul lavoro comunitario e, grazie ad un complesso sistema di opere idrauliche, l’agricoltura era ben sviluppata. Gli indigeni non conoscevano la fame e vivevano in un buon rapporto con la natura. La colonizzazione bloccò lo sviluppo di queste culture e il nostro popolo subì la violenza di un nuovo modo di concepire l’organizzazione sociale -quello dei conquistatori- basato sull’oro, il denaro, la proprietà privata e il possesso di servi e schiavi. Era la visione del mondo dell’Europa feudale, monarchica, dove già esisteva la proprietà privata delle terre e per imporla anche nel nostro continente si ricorse al genocidio.

    Cosa sta accadendo ai nostri giorni in Perù, e in genere nell’America Latina, con il Nuovo Ordine Mondiale?
    Il colonialismo ha ceduto il passo al neocolonialismo e questo al neoliberismo che costituisce il vero e proprio imperialismo della nostra epoca, in grado di soddisfare la bramosia e l’avarizia dei pochi maggiori proprietari di capitali del mondo. Il capitalismo selvaggio attualmente applicato in Perù ha comportato la privatizzazione delle imprese statali, il fallimento di molte industrie e, come conseguenza, il licenziamento e la disoccupazione di migliaia e migliaia di lavoratori. Attualmente in Perù il 75% della popolazione attiva è senza lavoro o sottoccupata e questo si riflette anche a livello delle organizzazioni dei lavoratori. Nel 1990 gli operai iscritti al sindacato erano due milioni; oggi soltanto 600.000. Ovviamente il modello neoliberista favorisce condizioni che garantiscono un maggior sfruttamento dei lavoratori. Il diritto alla sindacalizzazione viene conculcato, oltre che con la repressione, attraverso contratti di lavoro precario, senza stabilità lavorativa, soprattutto per i giovani. In questo contesto si assiste ad un aumento della povertà; attualmente almeno 12 milioni di peruviani sono in condizioni di autentica miseria. Secondo i dati della Banca Mondiale, il Perù si trova al 10° posto come indice di povertà. Il 40% della popolazione sopravvive con meno di un dollaro al giorno.

    Qual è, in questo tragico scenario che hai delineato, la situazione dell’infanzia?
    Ovviamente le principali vittime di questa situazione sono i soggetti più deboli, come appunto i bambini. Molti bambini cercano di alimentarsi rovistando tra le immondizie e chiedendo l’elemosina. Molti sono costretti a lavorare, sottopagati, in età giovanissima, altri si trasformano in mercanzia sessuale. È normale incontrare bambini tra i 9 e i 14 anni che si prostituiscono nelle zone residenziali. I giovani che non trovano lavoro sono spinti a rubare per sopravvivere. Attualmente le carceri sono piene di questi giovani cui il modello neoliberale non offre un futuro.Eppure il Perù è molto esteso e
    relativamente poco popolato con i suoi 23 milioni di abitanti. Inoltre è ricco di risorse naturali che potrebbero garantire una vita dignitosa a tutti i suoi abitanti…

    Il vostro movimento riconosce un ruolo particolare alle culture indigene?
    Attualmente il Perù costituisce una società pluriculturale, sia dal punto di vista etnico che linguistico. Come MRTA riconosciamo questa realtà e la incorporiamo nel nostro processo di trasformazione e liberazione sociale. Noi lottiamo affinché le popolazioni indigene, assieme a tutto il popolo peruviano, vengano rivalutate in quanto esseri umani. In particolare riconosciamo nella cultura tradizionale indigena un elemento molto importante per la costruzione di una società basata sulla dignità umana: la comunità andina, una forma di produzione e di organizzazione sociale che ha come base il lavoro solidale e la proprietà comunitaria. La comunità andina implica la partecipazione di tutti i membri della comunità in quanto comuneros all’organizzazione sociale; le autorità vengono scelte da tutti, in modo democratico, diretto e partecipativo. Quando i rappresentanti non corrispondono alle esigenze della comunità vengono immediatamente revocati. Il prodotto del lavoro solidale viene distribuito tra tutti i membri della comunità. A questa tradizione india noi facciamo riferimento per il nostro modello di società.

    Un’ultima domanda. Come giustifichi l’azione compiuta a Lima dal vostro gruppo nella residenza dell’ambasciatore giapponese e conclusasi tragicamente?
    Non ho niente da giustificare. Il nostro popolo è stato vittima di ogni violenza per più di 500 anni. Anche adesso la violenza è un elemento strutturale della società peruviana e lo Stato la applica sistematicamente contro la popolazione. È una vera e propria azione di sterminio contro chi si ribella ad un sistema economico che lo condanna a morire di fame. Penso che un popolo ha il diritto di difendersi. Come può la Comunità internazionale considerare democratico un governo che tra il ‘92 e il ‘95 ha incarcerato 10.000 prigionieri politici, che ha torturato quasi 100mila persone (soprattutto con scariche elettriche sulla lingua, sui genitali…) per ottenere informazioni, per far loro confessare azioni che non avevano commesso? Sono centinaia le donne violentate e le comunità indigene sterminate dall’esercito. I nostri compagni sono entrati nella residenza per denunciare la guerra non dichiarata del neoliberismo contro l’umanità, per mostrare a tutti come in questo paese solo pochi privilegiati possono vivere al livello del primo mondo, a prezzo della vita di milioni di diseredati. Eppure, anche se molti dei presenti nell’ambasciata erano complici della barbarie delle multinazionali e del governo, sono sempre stati trattati come esseri umani dal MRTA (i guerriglieri liberarono anche la madre di Fujimori ndr). La maggior parte dei media ha definito l’azione del MRTA un atto terrorista. E tu ora cosa ne pensi? E cosa credi penseranno quelli che leggeranno le mie dichiarazioni?
    Gianni Sartori (1997)

    PS Onore ai compagni caduti di MRTA

  • Gianni Sartori

    Invio quest’ultimo e definitivo contributo alle “cause perse” (ma sostanzialmente giuste) ringraziando per l’ospitalità
    adieu
    GS

    DONNE CURDE
    (di Gianni Sartori)

    La difficile situazione del popolo curdo, una “nazione senza stato” sottoposta a feroce repressione (soprattutto in Turchia, ma non solo), rischia periodicamente di venire oscurata dai drammatici eventi mediorientali. In particolare non sempre viene adeguatamente riconosciuto il fondamentale ruolo ricoperto dalle donne nei movimenti di liberazione curdi. Inizialmente, a causa di una atavica subalternità che per secoli ha seminato paura nelle donne curde, non veniva presa in considerazione la loro possibilità di integrarsi nella guerriglia, combattere sulle montagne. Ma in seguito le cose erano cambiate. “Al nostro interno, mi riferisco al PKK ed alle organizzazioni collegate, non ci sono discriminazioni – ci spiegava ancora nel 1996 Ahmet Yaman, all’epoca portavoce dell’Eniya Rizgariya Netewa Kurdistan (Fronte di Liberazione Nazionale del Kurdistan)- e lottiamo anche perché questo tipo di mentalità diventi patrimonio comune di tutto il nostro popolo. Pensa solo ai cambiamenti che si vedevano già dopo tre-quattro anni di lotta armata, grazie anche alla grande determinazione delle donne. Sempre più spesso i genitori lasciano che le loro figlie vadano a combattere, quando fino a poco tempo fa non sarebbe stato permesso loro neanche di uscire di casa! Ora (1996 nda) ci sono più di 5mila guerrigliere sulle montagne”. Sempre negli anni ’90, era sorta un’organizzazione che operava sia in Turchia che in Europa, il “Movimento Indipendente delle Donne Curde”. Nel momento di maggiore espansione contava circa 10mila militanti. Oltre che per difendere l’identità e i diritti negati del popolo curdo, si batteva per “un ruolo di primo piano della donna nella società”.
 Nello stesso periodo venne creata una divisione dell’esercito guerrigliero esclusivamente femminile. Un modo esplicito per rompere con le strutture di stampo feudale e con la mentalità che vedeva le donne subordinate. Stando alle testimonianze rese successivamente da un gran numero di militanti, le donne partecipavano a tutte le decisioni e sicuramente il loro impegno è stato fondamentale per portare avanti la causa curda.

    Va collocata in questo contesto di forte presenza delle donne nella resistenza, la drammatica azione di protesta di due militanti curde (Beriwan e Ronaxi) che si erano date fuoco a Mannheim, in Germania, per protestare contro il governo tedesco che aveva messo fuorilegge il PKK e l’ERNK.


    Il 30 giugno 1996, Zeynep Kinaci, una guerrigliera ventiquattrenne dell’ARGK, si gettò su una parata militare nella città di Tunceli (Dersim) facendo esplodere una bomba nascosta sotto i vestiti e uccidendo nove soldati turchi. Per spiegare il suo gesto estremo lasciava alcune lettere, una delle quali indirizzata al presidente del PKK, Abdullah Ocalan.
 Qualche mese dopo, il 25 ottobre 1996, Leyla Kaplan, una ragazza curda di 17 anni, nascondendo una bomba in modo da sembrare incinta, ha ucciso quattro poliziotti in un attacco suicida alla stazione di polizia della città di Adana per protestare contro le atrocità commesse dall’esercito turco. Eventi estremi, sicuramente, non sempre comprensibili. Ma non si può giudicare tanta disperata determinazione senza tener conto di quale sia stata per molte donne curde l’esperienza del carcere, della tortura e degli stupri subiti dagli aguzzini in divisa della polizia e dell’esercito turchi. Arrestata perché cantava in curdo, Hevi Dilara (questo il suo nome curdo, ma sui documenti risultava come “Bengin Aksun”, dato che i nomi dei curdi venivano forzatamente turchizzati) venne ripetutamente torturata. “Mi portavano davanti a mio padre svestito, con gli occhi bendati -ha raccontato – torturavano me e minacciavano di uccidere mio padre; poi torturavano lui davanti ai miei occhi e dicevano che dovevamo pentirci perché avevamo cantato in curdo. Poi, viceversa, svestivano me, bendavano i miei occhi quando c’era mio padre davanti a me, mi torturavano con il manganello facendo delle cose molto brutte, delle cose che non si possono nemmeno raccontare…Soprattutto quando mio padre era davanti a me, mi torturavano con getti d’acqua intensa o corrente elettrica alle dita e alle parti intime del corpo: tutto questo è durato quindici giorni…”.

    Allo scopo di far conoscere, almeno parzialmente, quale sia stato e sia il ruolo delle donne curde nella lotta di liberazione ripropongo due mie interviste (risalenti rispettivamente al 2007 e al 2008, ma la situazione non sembra sostanzialmente cambiata) a Hevi Dilara e Leyla Zana.

    INTERVISTA A HEVI DILARA, esponente di Uiki (4 novembre 2007)

    Hevi Dilara, rifugiata politica curda ed esponente di Uiki (Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia), è nata a Urfa. Da circa dieci anni vive in Italia. In passato è stata detenuta nelle prigioni turche, subendo la tortura per la sua militanza.

    Rimane alta la preoccupazione per quanto sta avvenendo (novembre 2007 nda) alle frontiere fra Turchia e Iraq nell’eventualità di altre operazioni militari contro le basi del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan). Ci si occupa meno, invece, delle ragioni del popolo curdo e di quello che continua a subire.
    Da trent’anni ormai c’è una lotta di liberazione da parte del popolo curdo, che è stato costretto a prendere le armi per difendere i suoi diritti. Dal 1993 in poi, il PKK ha offerto varie tregue unilaterali per una soluzione politica, chiedendo il riconoscimento della propria identità e di poter partecipare a un processo di democratizzazione della Turchia. In particolare, ha chiesto di applicare nella zona curda una forma di autonomia analoga a quella dell’Alto Adige in Italia o dei Paesi Baschi in Spagna. I turchi sembrano non voler riconoscere l’identità curda, sia culturalmente che fisicamente, quindi non riconoscono nemmeno il movimento curdo.

    Il PKK era nato come movimento studentesco nonviolento. Un insieme di cause (la repressione, le impiccagioni, le torture subite dai militanti…) lo ha poi portato alla scelta armata (da segnalare l’analogia con quanto avvenne in Sudafrica nell’ANC nel 1960, dopo la strage di Sharpeville nda). Sicuramente ha influito anche il fatto che il Kurdistan è rimasto un’area sottosviluppata. E’ un territorio ricco di risorse, però la popolazione è molto povera. Come popolo abbiamo ben conosciuto lo sciovinismo turco che vorrebbe annientare la nostra identità. Da bambina non potevo parlare la mia lingua in pubblico, a scuola…

    Perfino la musica curda era proibita. Sono stata arrestata anche per aver cantato nella mia lingua. Lo Stato turco ha praticato l’assimilazione nei confronti delle diverse etnie (assiri, armeni…) e la discriminazione religiosa. Esiste, per esempio, una piccola percentuale di curdi che sono rimasti zoroastriani, ma non possono manifestarlo. La necessità di difenderci ha portato alla nascita del PKK, ma sempre con l’idea di lasciare le armi, di trovare una soluzione politica per il conflitto. Inoltre il PKK condanna le azioni contro i civili, com’è scritto anche nel suo statuto.

    Come ha risposto lo Stato turco alle proposte di tregua?
    La risposta di Ankara è sempre stato “no”. Di fronte ai numerosi “cessate il fuoco” del PKK, la Turchia ha reagito con altre operazioni militari. Dal 1993 a oggi sono entrati in Iraq ventiquattro volte (questa è la venticinquesima) e sempre sono stati respinti dai guerriglieri. Nell’ottobre 2006 c’è stato un importante “cessate il fuoco”. La risposta turca è venuta con le bombe dei servizi segreti e con la “guerra sporca”. Sono state colpite famiglie curde e sono rimasti uccisi anche alcuni bambini. Inoltre vi sono stati nuovi casi di desaparecidos. In quella circostanza alcuni militari turchi di alto grado hanno affermato pubblicamente “la vita di un soldato turco vale quella di dieci curdi”. Da parte sua il PKK ha dichiarato che è legittimo difendersi.

    Quindi la presenza dell’esercito turco in Iraq non è una novità.
    In Iraq i militari turchi c’erano già. Anche prima della mozione votata il 17 ottobre 2007 in Parlamento, in varie occasioni avevano bombardato i villaggi curdi dell’Iraq. Ma il loro obiettivo non è soltanto il PKK. Dietro questa ennesima operazione si può vedere una costante della politica di Ankara, l’idea di una “Grande Turchia” fino a Kirkuk. Inoltre, la Turchia si è resa conto che la zona curda irachena sta diventando veramente autonoma, con un proprio esercito, l’università curda, le risorse autogestite dai curdi…E questo naturalmente potrebbe contagiare anche i curdi dei territori sotto l’amministrazione turca.

    D. Significa che la creazione nel Nord dell’Iraq di un’area autonoma rappresenta una possibilità anche per i curdi di Turchia, Siria e Iran?

    E’ sicuramente una cosa molto positiva. La nostra terra è attualmente divisa in quattro parti e tutti i curdi hanno subito violenza dai vari stati. Coloro che hanno potuto visitare la zona autonoma del Nord dell’Iraq hanno detto: “Adesso almeno una parte della nostra terra è libera”. Soprattutto ha favorito la solidarietà tra curdi, ha permesso il superamento di vecchie ostilità per esempio tra il PKK, il PUK (Unione patriottica del Kurdistan) di Talabani e il PDK (Partito democratico curdo) di Barzani.

    D. Quali sono le conseguenze delle operazioni militari turche contro i villaggi curdi? Dietro questo accanimento ci sono anche ragioni di interesse economico?

    I villaggi curdi distrutti in Turchia sono stati circa quattromila. Attualmente i “profughi interni” sono cinque milioni. Alcuni sono fuggiti in Iraq, altri in Europa. Quanto alle ragioni di interesse economico, è evidente che la Turchia vuole poter gestire le risorse del Kurdistan. Oltre al petrolio, ricordo che qui nascono due fiumi molto importanti, il Tigri e l’Eufrate. La Turchia sta utilizzando sia economicamente che politicamente tali risorse, indispensabili per conservare un ruolo strategico nella regione. Questo spiega le alleanze con altri paesi come la Siria e l’Iran, dove vivono popolazioni curde. Prima della mozione che autorizzava l’intervento militare in Iraq, iraniani e turchi avevano firmato accordi per attacchi congiunti alle basi del PKK. Il giorno prima del voto del Parlamento turco, il capo del governo siriano, Assad, si trovava in Turchia e aveva dato la sua disponibilità alla lotta comune contro i curdi . Poi, tornato a Damasco, ha smentito. La Siria collabora con la Turchia fin da quando ha scacciato Ocalan. Lo fa soprattutto per paura di perdere i rifornimenti di acqua controllati da Ankara (ovviamente si parla del 2007; attualmente i rapporti tra Ankara e Damasco sono di ben altro tenore nda).

    D. L’opinione pubblica in Turchia ha reagito molto duramente contro il PKK per il rapimento da parte della guerriglia curda di otto soldati turchi dopo l’attacco al ponte di Hakkari in cui ne erano morti altri diciassette. Un suo commento…

    In un primo tempo, l’esercito turco aveva negato che ci fossero prigionieri. Aveva parlato di “guerra psicologica” della guerriglia. Successivamente aveva insinuato che forse i soldati si erano consegnati spontaneamente, disertando, e avevano cominciato a chiamarli “traditori”. Poi la televisione curda ha trasmesso le immagini che confermavano i comunicati del PKK. Ricordo che questi avvenimenti sono accaduti nel corso di un’operazione dell’esercito. In una operazione analoga di poco tempo fa sono stati usati anche i gas e undici guerriglieri sono rimasti uccisi. I familiari non hanno ancora potuto riavere le salme per impedire che vengano riconosciuti gli effetti dei gas. Chi ha visto i cadaveri ha detto che apparivano come bruciati. La reazione in Turchia ai fatti di Hakkari è stata una manifestazione di sciovinismo. Tutta la stampa e molti scrittori hanno attaccato indistintamente i curdi. Sono stati assaliti sedi, ristoranti, librerie…In questo momento molti curdi non osano uscire di casa; dovunque sentono dire continuamente che “bisogna bombardare i curdi”. Lo Stato turco ha saputo alimentare lo sciovinismo (una “mobilitazione reazionaria delle masse” da manuale nda) e siamo di fronte al rischio di uno scontro tra le due popolazioni, non solo in Kurdistan. Infatti, tantissimi curdi, generalmente profughi, vivono a Istanbul, ad Ankara. Proprio a Istanbul recentemente il Comune ha fatto scacciare i curdi di una baraccopoli, abbattendo le loro povere case perché “imbruttivano la città”. La maggior parte dei profughi sono poverissimi e, in quanto curdi, hanno molte difficoltà a trovare lavoro.

    D. Scioperi della fame contro le celle “F”, rivolte dei prigionieri, esecuzioni extragiudiziali e tortura. Sicuramente la situazione dei diritti umani in Turchia suscita parecchie preoccupazioni. Da questo punto di vista, come giudica l’eventuale ingresso della Turchia in Europa?

    Ritengo che l’entrata della Turchia in Europa non sia un fatto negativo, ma bisognerebbe capire “quale Turchia”. Sicuramente non la Turchia che viola i diritti umani di un terzo della sua popolazione, i curdi. In questi ultimi tempi ci sono stati tentativi di adeguarsi alle richieste europee di una maggiore democratizzazione. I turchi hanno liberato Leyla Zana, sospeso la pena di morte, concesso una mezzora giornaliera di trasmissioni televisive in lingua curda. Tuttavia chi parla curdo dal palco (in occasione di comizi, concerto ecc.) o si richiama alle tradizioni curde, viene censurato. Non si può parlare curdo negli uffici pubblici. Addirittura gli anziani, che parlano solo la loro lingua, non possono portare un interprete. Tra il 2004 e il 2005 erano stati rilasciati anche molti prigionieri politici, passando da 12mila a circa 5mila. Ma da un anno a questa parte sono di nuovo aumentati, almeno 10mila. Gli ultimi arresti sono il risultato delle azioni della polizia contro insegnanti, giornalisti e militanti del “Partito democratico della società”. Questo partito è presente in Parlamento con ventidue deputati, gli unici che abbiano votato contro l’invasione dell’Iraq. La maggior parte dei prigionieri curdi è appunto rinchiusa nelle famigerate celle “F” in totale isolamento, senza poter mai uscire, nemmeno per la prevista ora giornaliera, senza radio, senza poter telefonare. Rimane poi molto grave, anche dal punto di vista della salute, la situazione del presidente Ocalan. Contro questo stato di cose anche recentemente ci sono state proteste e scioperi della fame. Anche Leyla Zana è nuovamente sotto processo per aver difeso l’identità curda. Lo stesso sta accadendo a molti sindaci di località curde. Recentemente il sindaco di Diyarbakir è stato condannato a sei mesi per un saluto in curdo. Una Turchia così diventerebbe un problema per l’Unione europea. Forse alla fine prevarranno soltanto gli interessi economici, ma sarebbe un peccato che i Paesi europei, fondati sulla democrazia, accettassero questa Turchia. Potrebbero invece presentare un “pacchetto di proposte” per risolvere democraticamente la questione curda. Una Turchia che rispettasse le minoranze, etniche e religiose, rappresenterebbe una ricchezza per l’Europa. (

    (Gianni Sartori – 4 novembre 2007)

    INTERVISTA A LEYLA ZANA, LA VOCE DEI CURDI (30 ottobre 2008)

    L’8 dicembre 1994 veniva pronunciata la sentenza di condanna contro otto parlamentari curdi, sette dei quali membri del Partito democratico, DEP, messo fuorilegge. Accusati di collaborazione con il PKK e di “attentato all’integrità dello stato”, cinque imputati, tra cui Leyla Zana, furono condannati a 15 anni di carcere. Gli altri a 3 anni e sei mesi. La corte aveva lasciato cadere le accuse di “alto tradimento” evitando quindi ai condannati la pena di morte. Presumibilmente grazie alle pressioni internazionali – tra cui un appello dal presidente francese Mitterand – esercitate sul governo di Tansu Ciller (“donna dell’anno” 1993 secondo i telespettatori di Euronews). E intanto proseguivano le attività anti-curde, sia quelle ufficiali ( secondo l’agenzia Anatolia l’ultima offensiva dell’esercito nella provincia di Tunceli aveva causato la morte di una cinquantina di presunti guerriglieri) che quelle “coperte”: qualche giorno prima era stato colpito il giornale Ozgur Ulke, un morto e una ventina di feriti. Nel 1995 il Parlamento Europeo assegnava a Leyla Zana il premio Sakharov per la libertà di espressione; nel 1996 ha ricevuto il premio internazionale Rose dell’organizzazione del movimento operaio danese per la difesa dei diritti umani. Mentre era ancora detenuta nel carcere speciale di Uculanlar (Ankara) le è stata accordata la cittadinanza onoraria di Roma. Per molti anni l’ex prigioniera politica è stata la “bestia nera” delle unità speciali turche, responsabili di una durissima repressione nei territori curdi. La sua immagine veniva usata come bersaglio nei poligoni di tiro. A Leyla Zana stava per essere attribuito anche il premio Nobel per la Pace, ma poi la candidatura venne accantonata per le proteste della Turchia.

    Giovedì 30 ottobre 2008, presso l’Ateneo Veneto di Venezia, si è svolto un incontro-dibattito con Leyla Zana. Vi hanno preso parte anche Hevi Dilara, Tiziana Agostini, Orsola Casagrande, Baykar Sivazliyan e Luana Zanella. Un’occasione per conoscere “non solo la sua storia di donna curda, ma la storia di una comunità, di una nazione senza stato” ha commentato Tiziana Agostini. I curdi sono un popolo che “dall’antica Mesopotamia hanno saputo arrivare fino ai nostri giorni per la loro forte identità, forza morale, generosità”. Attualmente smembrato in quattro stati, il Kurdistan “galleggia” su un mare di petrolio. Nel Kurdistan “iracheno” (Kurdistan Sud) i bombardamenti ordinati da Saddam – sulla città di Halabja e sui villaggi del Nord-est – sono stati un disastro per un popolo in buona parte di agricoltori. Il cianuro è penetrato nel terreno e gli effetti durano ancora a venti anni di distanza. Se qui oggi i curdi possono parlare la loro lingua, altrove il “diritto alla parola” viene ancora negato. In particolare nel Kurdistan “turco” (Kurdistan Nord, 20-25 milioni di curdi) dove le tensioni sono maggiori. La giornalista Orsola Casagrande ha ricordato che “sono ormai passati diciotto anni da quando Leyla Zana venne eletta pronunciando poi nell’aula del Parlamento parole di pace e speranza in lingua curda. Successivamente arrestata e condannata per separatismo, ha trascorso 11 anni in carcere e decine di altri processi nei suoi confronti restano ancora aperti”.
    “Nel Kurdistan “turco” c’è la guerra –ha continuato Casagrande- e anche in questi giorni proseguono i bombardamenti da parte dell’esercito e dell’aviazione. Inoltre la Turchia si è arrogata il diritto di bombardare il Kurdistan “iracheno”. Per aver tradotto in curdo (oltre che in inglese, tedesco, francese…) gli opuscoli turistici, alcuni sindaci sono ora sotto processo. Nelle scuole la lingua ufficiale è quella turca. Si può scegliere di studiare l’inglese o il tedesco come lingua straniera, ma non il curdo. Quest’anno lo stand dei curdi a Francoforte è stato assalito da estremisti turchi per aver esposto la bandiera del Kurdistan e le emittenti curde in Europa sono minacciate di chiusura”. Un panorama desolante. Baykar Sivazliyan, autore del recente libro Ospiti silenziosi. I curdi in Italia, ha ricordato che “ormai un quarto di secolo fa l’Ateneo Veneto aveva organizzato a Venezia, insieme alla Fondazione Lelio Basso e alla Lega per i diritti e la liberazione dei popoli, un incontro analogo dedicato al genocidio armeno di cui oggi almeno si comincia a parlare anche in Turchia”. Una nazione moderna, coraggiosa dovrebbe affrontare alcune questioni come il fatto che “in Turchia non esistono solo turchi, quasi un terzo della popolazione è costituito da curdi”. Per la prima volta in Italia, Leyla Zana racconta che “quando ieri sera sono arrivata a Venezia era buio, ma oggi non riuscivo a staccare gli occhi dalle infinite bellezze della città”. In mattinata c’era stato l’incontro con il sindaco Massimo Cacciari e con l’assessora alla cultura Luana Zanella che ha paragonato la situazione dei curdi a quella del Tibet. Leyla Zana ha ringraziato soprattutto “Tiziana e Orsola per aver raccontato quello che sta subendo il mio popolo”.

    In Turchia per il vostro popolo la situazione resta difficile. Rifiuto da parte del governo di riconoscere l’identità curda e dura repressione. Ce ne può parlare?
    Penso che nessun popolo al mondo altrettanto numeroso come i curdi (circa 40 milioni nda)
    sia rimasto senza un proprio stato. Quando venne fondata la Repubblica di Turchia i parlamentari curdi eletti sono andati nel Parlamento, ma poco tempo dopo molti furono impiccati. Eppure Mustafa Kemal, Ataturk, aveva detto che era “la repubblica dei turchi e dei curdi”. Anche nel 1991 siamo stati eletti come curdi, 22 maschi e io, la prima donna eletta dal mio popolo a cui avevo promesso “sarò la vostra lingua”. Ho giurato in curdo, nella mia madre lingua e quasi tutti i parlamentari mi hanno attaccato. Io dicevo: perché non ascoltate le mie parole che parlano di pace? Loro sostenevano che dovevo parlare in turco, ma noi siamo nati curdi, abbiamo la nostra cultura, storia, lingua. Noi vogliamo convivere con voi, dicevo, ma voi dovete accettare la nostra identità. Ma per loro noi siamo “i turchi rimasti sulle montagne” e così ci hanno incarcerato per molti anni. Oggi, a causa della lotta di liberazione, riconoscono l’esistenza dei curdi, ma non i loro diritti. E tutto il mondo sembra ascoltare il governo turco quando dichiara che non sta violando i diritti umani. Ovviamente gli stati fanno i loro interessi e chiudono gli occhi sulla condizione dei curdi. Noi non siamo contro i rapporti economici, ma chi vende armi alla Turchia dovrebbe sapere che verranno usate contro i villaggi curdi. Molti curdi sono venuti in Europa, anche qui a Venezia. Però vorrei precisare che il mio popolo non è scappato per un pezzo di pane. Se avessero potuto continuare a vivere nella loro terra, a lavorare nella loro terra, i curdi non sarebbero venuti all’estero. Il Kurdistan non è ricco soltanto di petrolio e giacimenti minerari, ma anche di acqua, la principale fonte di vita. Se si avviasse un dialogo la ricchezza della nostra terra ci basterebbe per vivere.

    D. Vien da chiedersi come possano i curdi continuare a vivere in questa situazione…
    Vivono male infatti. Nel Nord Kurdistan più di 3500 villaggi sono stati evacuati. Molti curdi sono fuggiti in Europa, altri nelle metropoli turche. Soprattutto questi ultimi incontrano grandi difficoltà, il loro tasso di disoccupazione è altissimo. Nelle città turche i bambini curdi di sei-sette anni vendono fazzoletti e altri oggetti per la strada, mentre i loro coetanei vanno a scuola, fanno sport, imparano altre lingue. Molti bambini curdi figli di sfollati devono lottare per un pezzo di pane. Noi diciamo che “il peso della vita gli ha bloccato la schiena”. Nel mio caso, anche la mia famiglia è spezzata in quattro, come il mio popolo.

    D. Esiste qualche Stato disposto a riconoscere l’indipendenza del Kurdistan?
    Il Kurdistan è diviso in quattro stati, due arabi, uno persiano e uno turco che hanno stretto alleanze per non riconoscere uno stato curdo. Dopo la caduta di Saddam la repressione è aumentata sia in Iran (dove molti curdi sono stati impiccati) che in Siria, dove attualmente i curdi non hanno diritti. Ogni volta che i curdi, divisi dalle frontiere statali, riprendono a dialogare tra loro, gli stati intervengono attaccandoli, creando difficoltà. Da quando nel Kurdistan Sud (la parte “irachena”) esiste una certa autonomia, la Turchia attacca militarmente perché non accetta questa realtà. Nessun governo aiuta i curdi. Naturalmente noi non chiediamo aiuti agli stati; ci basterebbe che almeno non sostenessero quelli che ci bombardano. Ogni popolo ottiene la libertà con le proprie mani, ma l’amicizia tra i popoli può avvicinare questo momento.
    (Gianni Sartori – ottobre 2008)

    PS. Poco tempo dopo questa intervista, il 4 dicembre 2008, Leyla Zana veniva nuovamente condannata a dieci anni di carcere dalla corte di Diyarbakir. La sua “colpa”, aver espresso durante conferenze e manifestazioni, sostegno al PKK e al suo fondatore Ocalan. Per il momento la condanna è sospesa.

    ESECUZIONE DI RUE LA FAYETTE: FORSE UN “EFFETTO COLLATERALE” DEI MUTAMENTI IN ATTO NELLO SCACCHIERE MEDIORIENTALE?

    Questo intervento sul ruolo delle donne curde nella lotta per l’autodeterminazione risulterebbe monco se non ci occupassimo anche dei tragici eventi dell’anno scorso (9 gennaio 2013) a Parigi, nella sede del Centro d’informazione del Kurdistan in rue La Fayette.
    Non è forse del tutto casuale che l’assassinio delle tre militanti sia avvenuto in momento di significativi interventi francesi nello scacchiere mediorientale (in senso lato). Mentre l’esercito francese interveniva sia nel Mali che in Somalia, il presidente Hollande si preoccupava di portare in Francia alcune centinaia di interpreti afgani che in patria rischiavano di subire ritorsioni in quanto “collaborazionisti”.
    E anche gli omicidi di rue La Fayette proiettavano l’ombra dei conflitti medio-orientali nel cuore dell’Europa. In un primo momento la triplice esecuzione delle esponenti curde legate al PKK ha rischiato di far saltare le trattative tra il governo turco e il prigioniero politico Abdullah Ocalan, leader del Partito dei lavoratori curdi. Oltre al capo dei servizi segreti segreti Hakan Fidan, agli incontri avevano partecipato anche esponenti del Partito per la pace e la democrazia (BDP, talvolta considerato la “vetrina legale” del PKK). Particolare inquietante, l’uccisione di Sakine Cansiz, Fidan Dogan e Leyla Soylemez è avvenuta appena due giorni dopo le rivelazioni del giornale turco Radikal sull’esistenza di trattative per porre termine al conflitto iniziato nel 1984. In particolare Ocalan aveva richiesto ai combattenti un nuovo cessate-il-fuoco e ottenuto dai militanti curdi in carcere la sospensione dello sciopero della fame iniziato un mese prima. Tra le ipotesi inizialmente più accreditate, quella di un’azione dei “Lupi Grigi” (estrema destra nazionalista turca), in combutta con settori dell’esercito contrari alla soluzione politica. Questa sembrava essere l’opinione anche di Zubeyir Aydar che aveva definito il triplice omicidio “un attacco diretto contro i negoziati sull’isola di Imrali (dove Ocalan è rinchiuso dal 1999 nda)”. L’alto responsabile in Europa del PKK aveva quindi accusato “forze oscure legate allo Stato profondo turco”. Alcuni osservatori evocavano invece un possibile intervento dei servizi segreti siriani che avrebbero visto con favore la ripresa della guerriglia curda in quanto destabilizzante nei confronti della Turchia. Scontate le dichiarazioni di Erdogan e del vice-primo ministro Bulent Arinc. Per i due esponenti dell’AKP si trattava di “un regolamento di conti interno al PKK”. Una tesi non facilmente sostenibile pensando al ruolo delle tre militanti assassinate. Particolarmente amata dalla resistenza curda, Sakine Cansiz era stata una delle fondatrici del PKK e aveva trascorso molti anni in prigione dove aveva subito la tortura. Fidan Dogan, 32 anni, era la responsabile del Centro d’informazione del Kurdistan dove è avvenuto il massacro. La più giovane, Leyla Soylemez di 24 anni, dirigeva l’organizzazione giovanile. Tra le persone indagate, un giovane turco che da qualche tempo collaborava con il Centro di informazione del Kurdistan di Parigi.
    Gianni Sartori

    *Dal gennaio di quest’anno i sospetti su Omer Guney si sono rafforzati. L’uomo potrebbe essere stato un esecutore di ordini provenienti dai servizi segreti turchi. Dal suo passaporto, rimasto a lungo nascosto nell’auto, è stato possibile scoprire che si era recato varie volte a Istanbul e Ankara, in particolare nel dicembre 2012, poco prima della triplice esecuzione. Dal suo telefono portatile si è potuto scoprire che l’8 gennaio 2013, il giorno prima degli omicidi, tra le 4,23 e le 5,33 del mattino, era entrato di nascosto nella sede dell’associazione curda a Villiers-le-Bel per fotografare 329 tessere di aderenti. Due giorni prima aveva ugualmente fotografato altri documenti non pubblici. Alcuni suoi amici, rintracciati in Germania da vari giornalisti, hanno dichiarato che quando Guney viveva in Germania (tra il 2003 e il 2011) era considerato “un turco di estrema destra, simpatizzante del partito nazionalista MHP, i Lupi Grigi”. La polizia francese sta ancora indagando sul gran numero di telefonate verso numeri definiti “atipici, tecnici la cui funzione o origine non può essere individuata”. Anche i documenti pubblicati recentemente dalla stampa turca di sinistra, sembrano confermare che Omer Guney agiva su ordine del MIT, i servizi segreti turchi. In una registrazione pubblicata in Internet si sente una persona, presentata come Omer Guney, spiegare dettagliatamente il suo piano per eliminare Sakine Cansiz. Nella conversazione si parla poi di altri possibili bersagli curdi, in particolare di Nedim Seven. Mentre la polizia francese sta ancora indagando per identificare la voce in questione, per le associazioni curde e per le persone che lo hanno conosciuto non ci sarebbero dubbi. Quella è la voce di Guney, riconoscibile per alcuni caratteristici tic linguistici. Convinto che quello di rue La Fayette sia “un assassinio ordinato dalla Turchia” anche Gulten Kisanak, co-presidente del Partito per la Pace e la democrazia. Incarcerato a Fresnes, Omer Guney continua a proclamare la sua innocenza. Non ha però saputo nemmeno spiegare perché lui, un turco, si spacciasse per rifugiato curdo da quando era arrivato in Francia.
    Il quotidiano “Sol Gazete” ha invece pubblicato un documento, definito “un rapporto del MIT” e datato 18 novembre 2012, dove si parla di un finanziamento di 6mila euro per una “fonte” allo scopo di “procurarsi l’equipaggiamento necessario per il lavoro da compiere” e di ulteriori istruzioni per “passare alla fase finale”.
    Se i sospetti dovessero essere confermate saremmo di fronte all’ennesimo omicidio di Stato (gs)

  • 1944-2014: a settanta anni di distanza, un ricordo di
    SARA CHE NON VOLEVA MORIRE…

    (Gianni Sartori)

    Ci sono storie che insegui inconsapevolmente per anni, o forse sono quelle storie che ti inseguono…
    Una prima volta ne avevo sentito parlare circa trenta anni fa. Un giro in bici, una sosta nella piazzetta di un paese mai visto prima, un casuale incontro con un’anziana che aveva assistito ai fatti di persona. Mi parlò di un evento all’epoca poco conosciuto (“obliterato”), su cui poco pietosamente veniva steso un velo di silenzio: la deportazione in una antica villa padronale di Vò Vecchio (Villa Contarini-Venier) di un gruppo di ebrei rastrellati nel Ghetto di Padova (dicembre 1943). E mi accennò ad un episodio ancora più inquietante, il tentativo di una bambina (forse spinta dalla madre) di nascondersi in una barchessa per evitare la definitiva deportazione (luglio 1944).
    Qualche anno dopo (sempre casualmente) raccolsi altri particolari da una parente, forse una nipote, dell’anziana ormai scomparsa. La bambina sarebbe stata riportata ai tedeschi il giorno dopo, forse per timore di rappresaglie. Fatto sta che emerse nel racconto una precisa responsabilità delle Suore Elisabettiane (incaricate di occuparsi della cucina del campo di concentramento) nel “restituire” Sara agli aguzzini. Ricordo che il controllo del campo di Vò Vecchio, uno dei circa 30 istituiti dalla R.S.I. di Mussolini, era affidato a personale di polizia italiano (presenti anche alcuni carabinieri). Invece la lapide sulla facciata della villa in memoria di quanto non ritornarono (posta soltanto nel 2001) ne parla come di un evento avvenuto “durante l’occupazione tedesca” senza un accenno alle responsabilità del fascismo italiano.
    Il tragitto dei 43 Ebrei da Vò Vecchio verso la soluzione finale è ormai noto e ben documentato. La macchina burocratica funzionava alla perfezione e la pratica di ognuno dei deportati proseguì regolarmente grazie a decine di anonimi complici, esecutori senza volto.
    Fatti salire su due camion, vennero prima richiusi nelle carceri Padova e poi inviati a Trieste, nella Risiera di San Sabba. Tappa definitiva, Auschwitz.
    Quanto alla bimba, si chiamava Sara Gesses (doveva avere sei o sette anni, ma alcune fonti parlano di dieci) e, questo l’ho saputo solo recentemente, venne riportata a Padova con la corriera (quella di linea) dal comandante del campo in persona, Lepore (in alcuni scritti viene definito “più umano” rispetto al suo predecessore). Anche al momento di salire sulla corriera Sara si sarebbe ribellata, avrebbe pianto, gridato, forse scalciato. Vien da chiedersi come il zelante funzionario abbia poi potuto convivere con il ricordo di questa creatura condotta al macello. Ma in fondo Lepore non era altro che una delle tante indispensabili rotelline dell’ingranaggio, un cane da guardia addomesticato, servo docile incapace di un gesto sia di ribellione che di compassione. Pare che un maldestro tentativo di giustificarsi sia poi venuto da parte delle suore che dissero di aver agito in quel modo “per riportarla insieme alla mamma”. L’ipocrisia a braccetto con la falsa coscienza.
    In precedenza, insieme ai genitori, la bambina era stata catturata vicino al confine con la Svizzera durante un tentativo di fuga e quindi riportata nel padovano. Sembra anche che la madre riuscisse a farla scivolar fuori dal finestrino di un’altra corriera, quella che dal carcere di Padova stava portando i prigionieri a Trieste. Purtroppo invano. Sara venne immediatamente ripresa dagli sgherri nazifascisti.
    In Polonia la maggior parte dei 47 deportati (tra cui Sara) venne immediatamente “selezionata” per le camere a gas. Solo una decina venne momentaneamente risparmiata e di questi solo tre sopravvissero.
    Sara che non aveva incontrato nessun “giusto” sul suo cammino venne avviata alla camera a gas appena scesa dal convoglio 33T sulla rampa di Birkenau, nella notte tra il 3 e il 4 agosto agosto 1944.
    La sua “morte piccina” (come quella della bambina di Sidone cantata da De André) rimane un delitto senza possibile redenzione, ma di cui dobbiamo almeno conservare la memoria.
    Gianni Sartori
    (settembre 2014)

  • Gianni Sartori

    segnalo in rete:
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    I curdi, da Ocalan ai peshmerga
    By Gianni Sartori del 22/09/2014
    Venticinque anni di ricerche, interviste, analisi geopolitiche e testimonianze dirette: un saggio fondamentale per capire le vicende di questo popolo leggendario

  • IN MEMORIA DI GUIDO BERTACCO

    (Gianni Sartori – 2015)

    Ho rinviato a lungo prima di scrivere questo ricordo del compagno Guido Bertacco scomparso già da alcuni mesi (marzo 2015). Aspettavo forse che qualche altro sopravvissuto del MAV (Movimento AnarchicoVicentino) prendesse l’iniziativa? Difficile, dato che ormai in giro non è rimasto nessuno o quasi, almeno per quanto riguarda la militanza. Oltre a Guido, nel corso degli anni se ne sono andati per sempre Anna Za, Laura Fornezza, Mario Seganfredo, Patrizia Grillo, Nico Natoli….E vorrei qui ricordare anche Giorgio Fortuna, sicuramente un libertario, presente fino alla fine alle iniziative contro il Dal Molin.
    Qualcuno che aveva conosciuto le dure galere di stato per militanza ha poi cercato altrove un posto dove ricominciare a vivere; altri ancora sono semplicemente invecchiati…
    Guido (assieme a Claudio Muraro e Rino Refosco, se non ricordo male) aveva partecipato all’esperienza milanese della Casa dello Studente e del Lavoratore. Un breve riepilogo: nell’aprile del 1969 gli studenti occupavano l’Università Statale di Milano in via Festa del Perdono. Quasi contemporaneamente veniva occupato un vecchio albergo a Piazza Fontana. Qui venne applicata una rigorosa autogestione e l’ex albergo ora denominato “Casa dello Studente e del Lavoratore” subirà presto sia gli attacchi dei fascisti (con il lancio di alcune molotov) che una indegna campagna di stampa criminalizzante. Lo sgombero per mano della polizia scatterà all’alba, come da manuale, per concludersi con numerosi arresti. In un libro fotografico di Uliano Lucas c’è l’immagine del processo ad alcuni anarchici in cui si riconoscono un paio dei sopracitati vicentini; in qualità di pubblico rumoreggiante, a pugno chiuso, per il momento non ancora imputati. Secondo una leggenda locale Guido sarebbe partito da Vicenza ancora m-l per ritornarvi anarchico. A Vicenza comunque i tre fondarono immediatamente il MAV e aprirono in Contrà Porti una sede, destinata ad essere perquisita spesso, soprattutto dopo gli eventi del 12 dicembre. I visitatori venivano accolti da uno striscione un pochettino situazionista “Date a Cesare quel che è di Cesare: 23 pugnalate!”. Del resto era questo il clima dell’epoca.

    Di tutto l’impegno di una quindicina di compagni (più o meno sempre gli stessi con qualche abbandono e qualche rientro in corso d’opera) tra la fine degli anni sessanta e i settanta resta poco. Forse i reperti più consistenti (entrambi gelosamente conservati dal sottoscritto) sono una bandiera rossa con A cerchiata nera (non proprio ortodossa, ma ha sventolato ai funerali del Borela, ardito del popolo di Schio) e un pacco di volantini di cui credo non esistano altre copie. Sono quelli distribuiti nel corso di un paio d’anni (1971-1972), regolarmente, almeno uno ogni 15 giorni, davanti al locale manicomio (così era chiamato, senza eufemismi) in epoca pre-Basaglia; quasi una lotta d’avanguardia per chi aveva letto, se non “La maggioranza deviante”, almeno”Morire di classe”. Denunciavamo le violenze, i ricoveri coatti (una sorta di TSO di massa) nei confronti di soggetti scomodi (“disadattati” secondo l’ideologia dominante) improduttivi, sostanzialmente non addomesticati. Dall’interno c’era chi ci sosteneva, informava, guidava: il compianto medico Sergio Caneva, fedele alla sua giovinezza partigiana, destinato a morire proprio mentre teneva una conferenza sulla Resistenza.
    Il lavoro del MAV era stato apprezzato dai compagni del Germinal di Carrara
    (da non confondere con l’omonimo gruppo anarchico -e giornale- di Trieste con cui comunque si era in contatto) dove avevamo mandato copia dei volantini e degli articoli comparsi sulla stampa locale. Alfonso Failla, per anni direttore di Umanità Nova e Umberto Marzocchi (volontario in Spagna nelle Brigate Internazionali con Camillo Berneri; toccò a lui nel maggio 1937 riconoscerne il corpo dopo che era stato assassinato dagli stalinisti) ci invitarono per prendere contatti ed eventualmente allargare il discorso contro le istituzioni totali. Partimmo in quattro nel novembre del 1972. Oltre a me e Guido (l’unico con la patente e l’auto, gli altri tre eravamo tutti motociclisti) facevano parte della delegazione Stefano Crestanello e Mario Seganfredo (detto Mario cavejo per evidenti motivi) che quattro anni dopo perì in un incidente stradale. Dopo aver deciso di cogliere l’occasione per visitare anche altri gruppi lungo la strada, ci stipammo nell’auto di Guido. Prima tappa Reggio Emilia (o era Parma?) dove, nella biblioteca del locale gruppo anarchico, ci accolse un incredibile compagno ottantenne. Aveva fatto tutto: l’ardito del popolo, la Spagna, la Resistenza, l’USI…
    Conservo il ricordo di un intenso abbraccio tra lui e Guido, quasi un passaggio di testimone. Alla notte, dopo aver fatto la conta, Guido e Mario dormirono in macchina (dove c’era posto per due), io e Stefano all’addiaccio nel sacco a pelo. In seguito ci demmo il cambio, credo.
    Il giorno dopo, sosta in un bar sulla sommità di un passo appenninico dove percepii una sensazione da “confine del mondo”. Ricordo delle rocce rossastre, color ruggine (erano forse le Metallifere del mistico ribelle Lazzareti?) e Mario suonò un pezzo rock (suscitando qualche sguardo perplesso negli avventori, peraltro cordiali) sul vecchio pianoforte che completava l’arredo. Poi Carrara: due giorni a parlare, discutere, nella mitica sede del Germinal con Failla e Marzocchi, combattenti inesausti.
    Alla parete la risoluzione di Kronstadt (quella del 1921) e un’immagine di Rosa Luxemburg.
    Dopo una discussione, amichevole ma tesa, su CHE Guevara (che io comunque difendevo a spada tratta, con spirito ecumenico), Marzocchi mi regalò un libro su Malatesta. A Genova pernottammo da un amico di Guido, un musicista. Dopo Milano Mario scese nel cuore della notte proseguendo per Bologna, dove aveva una morosa, in autostop. La nostra scorribanda si concluse a Peschiera. Giungemmo in tempo per partecipare alla manifestazione davanti al carcere militare che in quel periodo ospitava soprattutto obiettori totali, in maggioranza testimoni di geova e anarchici (tra cui un nostro compagno vicentino, Alberto P.). Ci fu anche una carica dei carabinieri. Da Carrara portammo a Vicenza un pacco di manifesti (poi denunciati e sequestrati) per Franco Serantini, il compagno assassinato a Pisa qualche mese prima (maggio 1972).
    Che altro dire di Guido? Forse di quella volta che lo incontrai in corso Palladio con un paio di bastoni diretto al liceo dove il giorno prima i fascisti avevano sprangato alcuni compagni (in particolare, il futuro storico Emilio Franzina e Alberto Gallo, figlio del noto avvocato, figura di spicco della Resistenza vicentina). Mi invitò a partecipare alla sua “spedizione punitiva” e sinceramente non me la sentii di lasciarlo andare da solo “incontro al nemico”, ma in cuor mio sperai ardentemente che quel giorno i fasci si fossero presi un giorno di ferie (anche perché qualche giorno prima era toccato anche a me di partecipare ad uno scontro dove me la ero cavata con qualche legnata, in parte restituita). Ma se penso a Guido lo rivedo in piedi, in tuta da imbianchino, barba e capelli lunghi, aspettare la figlioletta all’uscita dalla scuola elementare di via Riello. Immancabilmente, ogni giorno. Proletario, ribelle e rivoluzionario, senza mai perdere la tenerezza.
    Ci mancherà.

    Gianni Sartori

  • Dimenticavo: se non ricordo male Guido nel 1972 aderì alle “celebrazioni” di Saint-Imier (Svizzera) per il centenario del famoso Congresso anarchico.
    GS

  • nda: Una breve precisazione. Come mi ha fatto notare Franco Pianalto (vecchio militante operaio degli anni sessanta, passato dal PCI ai marxisti-leninisti e in seguito anche per Lotta comunista; oltre che amico di Bertacco) nell’articolo su Guido avevo dimenticato il ruolo fondamentale svolto nel lavoro di controinformazione sul manicomio di Vicenza di un altro CANEVA, Sante (quasi omonimo del medico Sergio Caneva, ma non parente). Provenivano direttamente da lui gran parte delle informazioni sulla vergognosa situazione in cui versavano i reclusi e per il suo impegno subì angherie e vere e proprie persecuzioni che contribuirono, nel corso degli anni successivi, ad avvelenargli non poco la vita. Ancora negli anni sessanta, in collaborazione con un altro sindacalista e socialista, un Sartori, aveva denunciato l’assurda situazione per cui i reclusi vennero in pratica costretti per quasi due anni a “mangiare con le mani” in quanto i due medici che dirigevano il lager, pardon il manicomio, non trovavano un accordo sui cucchiai. Mentre per uno dovevano essere di legno, per l’altro di stagno. Non è una barzelletta; perfino il Giornale di Vicenza dovette occuparsene con un articolo carico di, per quanto moderata, indignazione. Questa era la realtà delle istituzioni totali prima del tanto vituperato “68”!
    A entrambi i due Caneva (Sante e Sergio) rendiamo quindi il dovuto onore.
    GS

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