Scor-data: tra febbraio e marzo 1886

Il processo per «La boje», i moti contadini del periodo ’84-86 (*)

Nel 1882 un’alluvione dell’Adige allagò oltre 87.000 ettari di campagna polesana distruggendo raccolti e inaridendo il terreno circostante e si ripropose all’attenzione pubblica la questione complessa di questa terra martoriata e della sua popolazione.

Ai disastri naturali si aggiunsero la crisi politica internazionale, l’aumento delle tasse, lo scarsissimo credito offerto dalle banche, ma soprattutto il crollo interno del prezzo dei cereali, causato dalle massicce importazioni granarie dalle pianure dell’Europa orientale e ancor di più dagli Stati americani, sotto costo rispetto ai valori nazionali. La concomitanza di tutti questi fattori ridusse la disponibilità di gran parte degli imprenditori agricoli, costringendoli a limitare le spese o a interrompere i lavori di miglioria avviati nelle campagne e provocò il tracollo finanziario di altri. Le conseguenze si fecero sentire proprio sulla parte più misera della popolazione.

Il notevole incremento demografico della provincia di Rovigo che dal 1861 al 1884 passò da circa 180.000 a 224.000 unità contribuiva a rendere sempre più insufficiente la proporzione fra il numero di coloro che erano stabilmente occupati e di chi doveva vivere alla giornata senza alcuna certezza.

Rimaneva per molti la speranza di lavorare nel periodo estivo durante il raccolto del frumento e del granoturco, colture molte estese nelle terre bonificate e in tutta la provincia in genere, tanto da coprire nel 1884 circa il 70% della superficie agraria polesana. Tuttavia l’accesso alle terre delle pesanti macchine agricole diminuiva la richiesta di manodopera e la percentuale di guadagno concessa ai lavoratori che per il frumento passò dal 17% al 9% netto.

Attività sussidiarie, quali spigolatura, lavori di sterro permisero di integrare il diminuito salario agrario. I braccianti si adattarono, sopportando le gravi ristrettezze, ma quando anche quelle scarseggiarono o cessarono completamente, reagirono con manifestazioni di violenta protesta, prima a livello locale, successivamente collegandosi mediante le organizzazioni e i circoli politico-assistenziali, già diffusi in molti centri del Polesine.

L’economia prettamente agricola, l’enorme percentuale di analfabeti, la vicinanza geografica ai centri di diffusione delle nuove ideologie, tutto aveva contribuito a fare della provincia di Rovigo l’ambiente adatto nel quale il proletariato poteva misurare e, per così dire, collaudare le proprie forze.

Sotto la continua propaganda repubblicana e socialista, le passioni a lungo trattenute e soffocate da interessi e da forze superiori, scoppiarono con furore nell’estate del 1884, manifestandosi sotto forma di sciopero, che suscitò da una parte speranze, dall’altra apprensioni, ma destò soprattutto l’interesse dell’opinione pubblica italiana.

Il 17 maggio 1884 la Società Democratica Adriese pubblicò un manifesto invitando la popolazione a un pubblico comizio per «far sentire la voce di tutti i lavoratori della terra, degli oppressi, che, se non ascoltata fino ad ora, perché non concorde, certo lo sarà per l’avvenire, e perché s’imponga con la forza a quanti tentano di opporre al diritto l’ingiustizia, alla ragione dei più l’errore… perché ciò che si reclama la legge lo vuole, lo giustifica la storia…».

Costituiva un primo appello all’unità delle forze contadine, che già da alcuni mesi erano in agitazione nelle grandi aziende agricole polesane, con astensioni dal lavoro, con riunioni dei propri rappresentanti, nel tentativo di coordinare le richieste e di preparare una piattaforma rivendicativa comune: in particolare puntavano a ottenere il 30% sul prodotto della mietitura dell’annata agraria in corso.

La tensione esplose ai primi di giugno, a Pezzoli di Ceregnano, dove due proprietari licenziarono alcuni braccianti. Il 7 giugno venne proclamato lo sciopero generale nelle campagne, chiedendo la solidarietà di tutta la provincia: gran parte dei lavoratori aderì e per riprendere il lavoro richiedeva il 30% del raccolto e la riassunzione degli operai licenziati.

Il fermento si allargò immediatamente con interesse anche da parte della stampa nazionale: comizi vennero indetti nel medio e alto Polesine, dove maggiore era il seguito popolare, a Fiesso Umbertiano, a Castelmassa, a Costa di Rovigo, a Polesella e a Rovigo.

Tra il 19 e il 22 giugno ventinove Comuni polesani si misero in sciopero, mentre agitazioni si manifestavano sporadicamente in tutte le grandi aziende di altri paesi, tanto che il Prefetto si vide costretto a richiedere ulteriori rinforzi di truppa per poter controllare tutti i focolai di lotta.

Dopo l’arresto di alcuni braccianti a Loreo, Cà Zen, Villadose e Pezzoli sembrò che gli scioperanti sospendessero la lotta e si adattassero a riprendere il lavoro, anche se non avevano ottenuto i benefici sperati, ma fu solo una breve pausa.

Dopo alcuni giorni i moti ripresero con maggiore intensità, estendendo il loro influsso anche ai paesi limitrofi di altre province, quali Padova, Verona e Mantova.

Notte e giorno le campagne erano percorse da squadre di uomini che al grido di «la boje!» (bolle! dal verbo bollire) imponevano di abbandonare il lavoro.

Intanto nelle campagne di Castelguglielmo, dove la coltura predominante era proprio il frumento, la tensione andava crescendo fra operai e grandi proprietari. Fallita ogni mediazione i contadini cessarono ogni attività e trascorrevano le giornate sulla piazza del paese a commentare amaramente l’esosità dei proprietari e a sollecitarsi l’un l’altro a resistere al grido martellante di «la boje! la boje!» oppure di «de boto la va de sora!» (quasi va sopra!) cui si rispondeva «lassa che’l croa!» (lascia che cada a terra!).

Verso i primi di luglio lo sciopero andò gradualmente e naturalmente esaurendosi: la maggior parte del frumento era andata perduta, molte stalle si erano svuotate, i lavori di miglioria nelle campagne erano sospesi o rinviati, varie famiglie provenienti da altre province avevano assunto terreni a mezzadria; il tutto con conseguenze disastrose per coloro che fidavano sul lavoro estivo o sul ricavato del raccolto.

Convocati a Rovigo, sotto l’arbitrato prefettizio, i rappresentanti degli agricoltori e dei lavoratori trovarono un accordo sulla concessione del 20% a lavoro completato, ben poco risultato per i braccianti che si assumevano il carico della lavorazione con la macchina e di tutte le altre operazioni necessarie fino al deposito in magazzino.

Lo sviluppo maggiore dell’agitazione si ebbe nel mantovano. Lo sciopero durò parecchi mesi e provocò molta paura fra gli agrari. Alla disperata resistenza degli agrari si aggiunse la pesante reazione governativa con l’intervento dell’esercito. Nel marzo 1885 lo sciopero venne soffocato: circa 200 persone vennero arrestate e 22 deferite all’autorità giudiziaria.

Il 16 febbraio 1886 iniziò alla Corte d’Assise di Venezia il processo intentato contro 22 lavoratori e organizzatori dei contadini ch’erano stati alla guida del grande sciopero agricolo che passò alla storia col nome “la boje”. Il processo si concluse il 27 marzo e tutti gli imputati furono assolti dopo che avevano subìto circa un anno di carcere preventivo. L’accusa era grave e assurda: erano stati accusati di «aver tra di loro e con la Società provinciale di Mutuo soccorso e la Federazione dei lavoratori di Mantova, sia con statuti, regolamenti e tariffe; sia con discorsi in adunanze ufficiali e con scritti; con eccitamenti e scioperi, attentato alla sicurezza interna dello Stato, mediante atti aventi per oggetto di portare devastazioni, strage e saccheggio in vari comuni della provincia di Mantova».

Quel processo rappresentò un capitolo importante della storia del movimento contadino e proletario del nostro Paese; in esso vennero registrati i primi passi di quel movimento che avrà in seguito prospettive e ruoli di notevole importanza nella nostra storia sociale. Fra questi lavoratori, specie nelle province di Rovigo, Mantova e Cremona, nacque il movimento proletario di resistenza e quello che era l’associazionismo mutualistico si diffuse anche nei piccoli villaggi rurali e i lavoratori impararono la solidarietà di classe.

Al processo il Collegio di difesa era composto da Giuseppe Ceneri, maestro di Diritto all’ateneo di Bologna, da Ettore Sacchi, deputato di Cremona della Democrazia radicale e futuro ministro e dal giovane Enrico Ferri, già noto giurista mantovano, non ancora socialista. Chi seguì tutto il processo fu l’onorevole Andrea Costa, il primo deputato socialista, inviato speciale del quotidiano «Il Messaggero» di Roma. I resoconti pubblicati sulla stampa nazionale, il dibattito in Parlamento e lo stesso svolgimento del processo, misero in chiaro quanto fosse mutata la coscienza dei contadini i quali, invece di andare ad assaltare i forni e i municipi come ai tempi della tassa sul macinato, andavano organizzandosi per chiedere migliori tariffe e giuste mercedi. Da queste constatazioni tutta l’impalcatura di una cospirazione alla luce del sole o di progetti anarchici o sovversivi – che se confermati avrebbero fatto condannare gli imputati ai lavori forzati a vita (articolo 157 Codice penale) – venne prima molto attenuata, poi crollò con la generale assoluzione. Il processo di Venezia rappresenta sicuramente un momento significativo nella storia della classe operaia in Italia.

(*) Liberamente tratto da un articolo di Andrea Sprocatti in «Studi Polesani, rassegna di studi e ricerche sulla storia, l’arte e le tradizioni del Polesine», Minelliana, associazione culturale (vol. III, 1978, pp. 34-41): elaborazione di Remo Agnoletto.

Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano. Dall’11 gennaio, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata», di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione la gente sedicente “per bene” ignora, preferisce dimenticare o rammenta “a rovescio”.

Molti i temi possibili. A esempio, nel mio babelico archivio, sul 6 marzo avevo ipotizzato: 1521: dopo 99 giorni Magellano tocca terra a «Los ladrones»; 1817: rivolta di Pernabuco; 1836: Alamo (storia di un falso); 1854: abolizione schiavitù in Ecuador; 1898: muore Felice Cavallotti; 1931: nasce Carla Lonzi; 1957: il Ghana è libero; 1967: marcia da Partanna a Palermo; 1986: muore Georgia O’ Keefe; 2002: la Francia restituisce, dopo due secoli, la «Venere nera» al Sudafrica; 2012: una donna è arrestata a Sacramento,durante «Occupy», per aver lanciato «petali di fiori». E chissà, a cercare, quante altre «scor-date» salterebbero fuori per ogni giorno.

Molte le firme e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevissimi, magari solo una citazione, un disegno o una foto. Se l’idea vi piace fate circolare le “scor-date” o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”. (db)

 

Remo Agnoletto

  • ove qualcuna/o si appassionasse a questa vicenda, magari più sul versante di Mantova, raccomando di cercare in biblioteca un vecchio, interessantissimo libretto. Si intitola propio “La boje” (sottotitolo: “processo dei contadini mantovani alla Corte d’assise di Venezia”) a cura di Rinaldo Salvadori; lo edtò la Biblioteca socialista delle Edizioni Avanti!, nel 1962, in una collana diretta dal grande Lelio Basso (prima o poi ne parleremo qui in blog)

  • Marco Pacifici

    …con la fornero piagnona li avrebbero fucilati a piazza paparazzi…ops…san pietro… devoluzione delle Coscienze. Condivido… con l’augurio di tornare indietro…

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