Scor-date fra 28 novembre e 8 dicembre

28 novembre 1944: rivolta e strage a Thiaroyè

1 dicembre 1904: nascono i Konzentrationslager

5 dicembre 1484: sempre più potere agli inquisitori

6 dicembre 2007, vite bruciate alla Thyssenkrupp

7 dicembre 1937: killer in gara a Nanchino

8 dicembre: Immacolata concezione

Thiaroyè 1944 e oggi

In un libro di storia francese («Histoire de l’Afrique occidentale francaise» di Marcel Chailley) si liquida in poche righe il massacro di Thiaroyè in Senegal. Ecco come: “Sono da sottolineare i gravi incidenti avvenuti il 28, 29 e 30 novembre e il 1 dicembre 1944 a Thiaroye, in Senegal. Alcuni fucilieri rimpatriati si ammutinavano. Si trattava di ex prigionieri, probabilmente contaminati dalla propaganda tedesca e dal sovvertimento dell’ordine francese in quel periodo difficile. Tali incidenti, che non ebbero al momento serie ripercussioni, verranno sfruttati, 15 anni più tardi, dal Partito africano dell’indipendenza».

Un falso ignobile. Basta leggere altri libri («France and the Africans» dell’inglese Edward Mortimer) per sapere la verità.

I ribelli di Thiaroyè vengono massacrati all’alba del 1 dicembre 1944 nel sonno. Dormono dopo la festa: quella che credevano una vittoria era solo un vile inganno. Dopo aver combattuto con i francesi in vari fronti della seconda guerra mondiale, un centinaio (il numero esatto non è stato noto) di fucilieri africani, soprattutto senegalesi, sono finalmente rimpatriati. Nel campo di transito a Thiaroyè, presso Dakar, scoprono che il salario pattuito non verrà pagato per intero. Il furto e l’arroganza sono la goccia che fa traboccare il vaso: si ribellano, prendono in ostaggio il comandante francese del campo. Trattative concitate per tre giorni, poi l’accordo: otterranno tutto quello che era stato promesso. Ai soldati africani basta la “parola d’onore”: rilasciano subito l’alto ufficiale e la sera festeggiano quella piccola, grande vittoria. Poche ore dopo vengono sorpresi nel sonno e massacrati dalle truppe francesi. Avevano combattuto contro il nazismo in nome della libertà ma restavano truppe coloniali, servi, senza dignità o diritti.

La vicenda è stata narrata in un lungo film «Campo Thiaroyè» dello scrittore e regista senegalese Ousmane Sembene (straordinario anche il suo recente «Mooladè» sulle mutilazioni genitali) e di Thierno Faty Sow.(del Burkina faso). Se amate il cinema – e la storia moderna – recuperatelo dal catalogo Coe (coemilano@coeweb.org).

Un episodio storico che brucia ancora, tant’è vero che il festival di Cannes nel 1987 rifiutò il film. Nel «Morandini, dizionario dei film» viene inquadrato come «un episodio storico che i libri di storia omettono, un orrendo crimine del colonialismo francese…». Uno dei tanti. L’Italia democratica ha più scheletri negli armadi dei francesi; quanto a film o documentari storici censurati ne abbiamo un bel po’ anche noi.

Ma questo ricordo di Tharoyè può essere anche un collegamento con il presente. Ascoltate questa donna, Yayi Bayam Diouf, fondatrice di Coflec (Collettivo di donne senegalesi contro l’emigrazione clandestina). «Dobbiamo imparare a incontrarci noi africani e voi euopei» esordisce in un incontro a Imola dove presenta la sua associazione: «Gli Stati non lo fanno ma le persone, la società civile stanno tentando». Sottolinea che, pur fra molte differenze, le europee e le africane hanno molto in comune, più degli uomini. Un messaggio femminista particolarmente forte in un villaggio dove lei è la prima donna ammessa nel “consiglio dei saggi”. L’associazione di Yayi Bayam nasce a Thiaroyè sur mer – una frazione della città – nel 2006 dopo l’ennesima strage in mare (negli ultimi 10 anni sono sparite fra le onde oltre 150 persone). Lei perde l’unico figlio. Sfidano l’oceano con le piroghe anche per colpa degli accordi commerciali Senegal-Ue che danneggiano i piccoli pescatori: così i giovani, senza lavoro, vogliono partire. Troppo spesso vanno via per morire, essere incarcerati, qualche volta per fare in Europa una vita da schiavi, raramente per tornare ricchi (fra virgolette si intende). Se alle madri che hanno perduto i figli o alle vedove viene quasi data la colpa di quel che è successo – «perchè non li avete fermati?» è un ritornello che alcuni uomini provano a intonare – la risposta non può essere che organizzarsi per creare attività e relazioni sociali che diano valore al restare qui. Chi è stato a Thiaroyè sur mer (è il mio caso) può vedere cosa hanno inventato le donne di qui: lavori in batik, stoffe, vestiti, artigianato, conservazione e inscatolamento di pesce, un sapone quasi miracoloso ma anche alfabetizzazione, formazione al lavoro e uno straordinario gioco (creato da un medico senegalese) con biglie e figurine per insegnare a correttamente curarsi, evitare gravidanze pericolose, allattare, dar valore a bambine e bambini (che qui riempiono le strade ma non per delinquere e quasi mai per mendicare ma per regalare sorrisi). I piccoli-grandi miracoli delle donne… accompagnate da uomini che hanno il coraggio di aiutarle, finalmente riconoscendone l’autorevolezza di progettare e fare. Con il micro-credito (sostenuto da Spagna e altri Paesi) e con le tontines (reinvenzione africana di una vecchissima idea solidale nata a Napoli e sviluppata in Francia), il Coflec sostiene coltivatori, pescatori, cooperative di donne.

Il padre del cinema africano, Sembene Ousmane, è morto. Ma qualche giovane regista potrebbe forse girare una sorta di seguito a «Campo Thiaroye» per raccontare dei nuovi “servi” che vanno a morire in mare o fare gli schiavi in Europa ma anche delle donne di Thiaroyè sur mer che guidano il riscatto.

Konzentrationslager

«E’ un Paese che poche persone riuscirebbero a collocare su un mappamondo. Un Paese di cui non si parla quasi mai (…) E’ là tuttavia che tutto è cominciato, è là che il nazismo è nato molto prima del tempo, è là che sono stati sperimentati i primi campi di concentramento, molto prima della seconda guerra mondiale, è là che sono state gettate le basi della soluzione finale molto prima dell’avvento di Adolf Hitler. Questo Paese è la Namibia».

Così scrive l’ivoriano Serge Bilè, giornalista di France-3, in un libro di cui poi si dirà in dettaglio.

All’inizio del ‘900 la Namibia era l’Africa Sudorientale Tedesca, Qui il 12 gennaio 1904 scoppia la grande rivolta degli Herero, guidata da Samuel Maharero. I motivi? L’esproprio delle terre e lo sfruttamento quasi schiavistico dei neri. In agosto le truppe tedesche annientano i ribelli. Gli Herero sopravvissuti vengono spinti, su ordine del nuovo comandante tedesco Lothar von Trotha, verso il deserto di Omaheke dove ovviamente muoiono. Si calcola che le vittime dello sterminio siano state 60 mila, circa l’80 per cento della popolazione Herero.

La ribellione contro i tedeschi riprende a ottobre: stavolta sono i Nama, guidati da Hendrik Witbooi, un convertito al cristianesimo che all’inizio collabora con i colonialisti ma poi, di fronte ai lavori forzati e agli orrori senza fine, si ricrede. Anche i Nama saranno sconfitti ma nel frattempo i tedeschi – ancora von Trotha – inaugurano una nuova tecnica per “concentrare” i prigionieri: sono quelli che noi oggi chiamiamo campi di sterminio cioè Konzentrationslager. Sono allestiti nell’autunno 1904 e, a quanto pare, inaugurati il 1° dicembre: non ufficialmente certo perchè la Germania preferisce non vantarsi di questi “esperimenti” visto che, a livello internazionale, c’è una forte mobilitazione contro gli orrori del colonialismo belga.

Torniamo al documentatissimo libro di Bilè. Il governatore tedesco della ricca Namibia è Heinrich Goering, padre di quell’Hermann che sarà fra i capi nazisti. Come scrive Bilè, sono i suoi metodi brutali a scatenare la rivolta. Dalla Germania arrivano i rinforzi, guidati appunto da Lothar von Trotha, già noto per la sua brutalità che nell’ottobre 1904 firma un Vernichtungsbefehl, cioè un ordine di sterminio, che Bilè riporta per intero nel suo libro. La notizia dei massacri provoca qualche (timida) protesta persino in Germania. Così Von Trotha decide di lavorare… in modo più silenzioso: i 15mila Herero sopravvissuti (soprattutto donne) e poi altri ribellii vengono concentrati appunto. Il termine Konzentrationslager compare per la prima volta il 14 gennaio 1905, a quanto pare, in un telegramma della cancelleria tedesca. Ma i lager sono attivi almeno dal 1 dicembre.

Bilè racconta i numeri del massacro: nei Konzentrationslager muoiono almeno 7.862 Herero (la metà dei detenuti). «Ma il calvario non si ferma», i tedeschi approfittano di quei prigionieri per ogni tipo di esperimenti, come poi accadrà in Europa sotto Hitler. A guidare gli esprimenti è il dottor Eugen Fischer che avrà poi un assistente destinato a diventare tragicamente famoso, Josef Mengele.

Di tutto ciò che accade in Namibia qualcosa trapela ma i pochi che sanno spesso se ne disinteressano: in fondo sono cose che riguardano gli africani, non potrebbero mai succedere in Europa. Infatti.

Il libro di Bilè (tradotto nel 2006 dalla Emi) racconta il seguito della tragedia che iniziò in Namibia, appunto i lager hitheriani ma sotto un aspetto particolare cioè i «Neri nei campi nazisti» (questo il titolo italiano): africani, molti antillani, meticci, afro-tedeschi e poi i prigionieri senegalesi, ivoriani o afro-americani vennero rinchiusi e sottoposti alle peggiori sevizie. Anche questa è una pagina di storia dimenticata, forse non per caso. Il libro si chiude con il razzismo… dei «liberatori» cioè l’incontro fra le vittime dei lager e i soldati afro-americani che vivevano (non solo negli Stati del Sud) in condizioni di inferiorità a motivo della pelle. Ma ricordando che, 20 anni dopo, i neri americani vinceranno la loro lotta.

Per la cronaca solo il 14 gennaio 2004 la Germania ha presentato le sue «scuse» al popolo Herero. Ovviamente (come tutti i Paesi ex colonizzatori) rifiutando l’idea di un risarcimento finanziario agli eredi delle vittime.

Dal punto di vista storico va segnalato, nel periodo che intercorre fra il 1904 e la strategia hitleriana dei lager, un altro esperimento “interessante”, ancora una volta in Africa. Stavolta in Libia, all’inizio degli anni ’30. Nella parte di Von Trotha stavolta c’è Rodolfo Graziani che “perfeziona” quelle tecniche di raccolta e di silenzioso sterminio. Ma siccome noi italiani siamo «brava gente» questa è una storia che (nonostante i documentatissimi libri di Angelo Del Boca e pochi altri) si può al massimo sussurrare.

1484, più potere agli inquisitori

«Ci venne ultimamente all’orecchio, non senza nostro grave dolore, che in alcune parti, città, territori, località e diocesi della Germania Superiore […] numerose persone di ambo i sessi, immemori della propria salute e deviando dalla fede cattolica, hanno abusivi commerci con i demoni incubi e succubi e con i loro incantesimi, vaticini, scongiuri e con altri nefandi sortilegi, superstizioni, eccessi, delitti».

E’ un passaggio-chiave all’inizio della bolla papale «Summis desiderantes» che Innocenzo VIII rese nota il 5 dicembre 1484. Lo riprendo dalla traduzione di Fabio Troncarelli nel suo interessantissimo «Le streghe» che uscì (dall’editore Newton Compton) nel lontano 1983 ed è oggi purtroppo introvabile.

La bolla si dilunga sui misfatti, in Germania e altrove, sottolineando le continue soppressioni de «i parti delle donne, i feti degli animali, i frutti della terra», delitti che «rimangono impuniti non senza evidente danno delle anime e perdita dell’eterna salvezza». Proprio in relazione ai delitti e agli «eccessi» ecco cosa sentenzia il papa, parlando di sè al plurale come era (e tuttora è) in uso.

«Noi pertanto, in virtù della nostra apostolica autorità e mediante il contenuto delle presenti lettere apostoliche, decidiamo di rimuovere ogni specie di impedimento che possa in qualche modo ritardare la esecuzione dell’ufficio dei medesimi inquisitori».

Mano libera all’Inquisizione dunque con «sentenze di correzione, incarcerazione e punizione». Più avanti rivolgendosi al «nostro venerabile fratello il Vescovo d’Argentina» (in Francia) Innocenzo VIII ribadisce che bisogna colpire «coloro che oppongono molestie, impedimenti, contraddizioni e ribellioni»: proprio tutti, «di qualsiasi dignità, stato, grado, importanza, nobiltà ed eccellenza essi siano e da qualsiasi privilegio di esenzione possano essere muniti».

In coda la data: «nell’anno dell’incarnazione del Signore 1484, il 5 dicembre, anno primo del nostro pontificato».

Dovrebbe essere chiaro a ogni persona minimamente scolarizzata di cosa stiamo parlando: torture e roghi per secoli. Contro gli eretici e le donne che abortivano ma non solo.

Ecco cosa ha scritto (su «Alias-il manifesto» dell’11 settembre 2004) lo storico Adriano Petta: «Il pretesto che innescava le denunzie e i processi erano nella grande maggioranza dei casi le proprietà. Per appropriarsi dei beni della gente, la Chiesa, il Comune, la Città e lo Stato hanno accusato di eresia via via catari, valdesi, apostati, convertiti, apostolici, ebrei, ebrei neri, ebrei bianchi, musulmani, protestanti, marrani, nestoriani, induisti, blasfemi, sodomiti, streghe, illuse, illudenti, bigami, superstiziosi, anabattisti, criptogiudei, criptomusulmani, pagani, illuminati, scismatici, peccatori di magia (di sortilegi, divinazione, abuso di sacramenti, disprezzo delle Chiavi), studiosi, medici, alchimisti, atei, oppositori politici, filosofi, matematici, scienziati… e li mandavano al rogo».

I numeri sono contestati ma persino dai documenti vaticani – ricorda Petta – risulta che, solo nel Seicento, in Polonia «10mila creature accusate di stregoneria» furono bruciate vive «su una popolazione di 3 milioni e 400mila». Altrove andò peggio. Erano così tanti – ancora Petta – gli eretici da bruciare che a Siviglia inventarono 4 enormi forni che contenevano fino a 40 «dannati» per volta: loro soffrivano di più, si risparmiava legna e la macchina dell’Inquisizione funzionava meglio. Fu così per oltre tre secoli.

La partecipazione dei papi ai massacri dell’Inquisizione fu sempre convinta e totale: lo ricorda Petta, citando anche Adriano Prosperi, in un lungo elenco. Il 28 ottobre 1557, Paolo IV dispensò tutti i cardinali e gli inquisitori dal rispetto delle regole quando infliggevano «tortura reiterata» e sempre lui, il 5 novembre di quell’anno, «aveva reso solenne e consacrato il rogo che sarebbe avvenuto la domenica successiva» scrive Petta «concendendo l’indulgenza plenaria a tutti i fedeli che avrebbero assistito allo spettacolo». Casomai vi fosse sfuggito, recuperate il romanzo «Q» scritto dal fantomatico Luther Blissett (poi collettivo Wu Ming) nel 1999: la storia di Giovanni Pietro Carafa, salito al “Soglio” come Paolo IV, è tutta lì. L’invenzione letteraria di Luther Bilissett ne fa un indimenticabile genio del male ma dai documenti storici ricaviamo la certezza che fu molto peggio. E soprattutto fu solo un anello nella lunga catena di papi che torturano e uccisero milioni di persone «a maggior gloria di Dio».

2007, vite bruciate

Non si può certo dire che la strage alla Thyssenkrupp sia una data dimenticata. Ma è probabile che molte persone lo ritengano un evento eccezionale anzichè la normalità della bilancia capitalista; pesa molto più il profitto che qualche vita e così sempre sarà finchè a gestire la bilancia sarà una sola parte.

Per questo la tragedia della Thyssen viene qui raccontata in un’ottica particolare cioè attraverso la memoria critica di Daniele Biacchessi, giornalista e autore teatrale. Le citazioni sono prese dal suo libro «Teatro civile» ovvero «Nei luoghi della narrazione e dell’inchiesta» pubblicato l’anno scorso fra le inchieste di Verdenero, coraggiosa collana delle Edizioni Ambiente.

Il capitolo «nei luoghi della narrazione: il lavoro» del libro di Bianchessi si

colloca fra quelli su ambiente, memoria (storica) ritrovata, 6 guerre recenti e la lotta alle mafie. Nella introduzione ci si chiede se questo sia «un teatro civile per un Paese incivile».

Prima di arrivare al rogo della Thyssen, Bianchessi racconta di lavoro negato. E di vite vendute. Chiede conto a chi legge (o ascolta… se siamo in teatro) di un numero: 874.940. Di cosa stiamo parlando? E poi, si sa, le cifre sono fredde, di per sè raccontano poco. Ma è diverso «se ti dicessi invece 874.940 operai, impiegati, muratiri, carpentieri, attrezzisti, elettricisti, carrozzieri, meccanici, falegnami, contadini italiani portatio in ospedale in una giornata di ordinario lavoro». Ordinario.

Altro numero? 1200: «sono gli incidenti sul lavoro mortali in un anno». O per essere più precisi 1200 sono quelli registrati perchè, grazie a vari trucchi statistici, quel numero risulta inferiore alla verità.

La prima storia che Biacchessi racconta in questo suo libro è «La tuta di Celentano», una vicenda esemplare di emigrazione sud-nord negli anni Sessanta: al centro la fabbrica Innocenti. Subito dopo Biacchessi si sposta di pochi chilometri (da Milano a Gallarate) ma di molti anni per narrare la tragedia di Ion Cazacu: il 16 aprile 2000 l’operaio romeno muore in ospedale per ustioni. Dopo una lite, il suo padrone (italiano) lo ha cosparso di benzina e gli ha dato fuoco.

Dal rogo di Gallarate contro un operaio straniero a opera di un padroncino italiano all’incendio della Thyssenkrupp di Torino dove, per «colpevole negligenza» (cioè brama di profitto) di padroni tedeschi, muoiono operai italiani: Antonio Schiavone, Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marzo, Rosario Rodinò e Giuseppe Demasi.

Il viaggio di Biacchessi nel lavoro che uccide continua nel «triangolo degli schiavi» a Foggia dove i braccianti extracomunitari sono «sfruttati; alloggiati in luridi tuguri; massacrati di botte se protestano; uccisi e i loro corpi fatti sparire…».

Proprio nel 2010 Biacchessi mette in scena un suo monologo (con il cantautore Andrea Sigona) «Il lavoro rende liberi» che propone molte di queste vicende. Poi il libro «Teatro civile» racconta le storie operaie portate in scena da Ascanio Celestini, dal gruppo teatrale Alma Rosè e da Alberto Nicolini («Stirru-La discesa» sugli zolfatari) che divemtò poi anche un docu-film.

Saltando nel tempo e fra vari luoghi emerge che il rogo della Trhyssen e gli altri morti – omicidi in guanti bianchi – nascono dalla normalità dell’organizzazione capitalistica del lavoro.

Questa breve memoria di vite vendute e bruciate finisce come era iniziata, cioè con la frase «non si può certo dire che la strage alla Thyssenkrupp sia una data dimenticata». Bisogna però, per onestà, aggiungere che la memoria non basta: che il ricordo di tutti, il dolore di molti e lo sdegno di alcuni non sono sufficienti a mutare il mondo. Sarebbero serviti dopo quel 6 dicembre 2007 atti concreti per ridare valore alla vita di chi lavora nelle fabbriche (e più in generale sotto un padrone) ma che questi gesti siano arrivati non c’è chi possa dirlo in buona fede.

1937, gli orrori di Nanchino

L’articolo si intitola «Corsa serrata fra i sottotenenti in lizza per l’abbattimento di 100 cinesi». Esce il 7 dicembre 1937 sul «Japan Advertiser». Eccone un brano: «Il sottotenente Mukai Toshiaki e il sottotenente Noda Takashi, entrambi in forza all’unità Katagiri di Kuyunk, che si stanno affrontando in una gara amichevolr su chi riuscirà ad abbattere con la spada 100 nemici cinesi prima che le forze giapponesi occupino Nanchino, si trovano ormai alle fasi conclusive dell’incontro. Fino a domenica scorsa, secondo l’Ashai Shimbun, il punteggio era: sottotenente Mukai 89, sottotenente Noda 78». Quell’articolo viene ripreso, nel 1997, in un libro famoso «Lo stupro di Nanchino» (in italiano dall’editore Corbaccio) della cino-americana Iris Chang. Lo cita anche, nel 2009, Gian Antonio Stella nel suo «Negri, froci, giudei & co.» ricordando che ben pochi giapponesi hanno ammesso le loro responsabilità ma soprattutto che nei testi scolastici nipponici manca ogni riferimento al massacro di Nanchino, alla creazionedei bordelli-prigione o all’unità 731 diretta dal biologo Shiro Ishii, soprannominato «il dottor Mengele giapponese».

Nel 1937 Nanchino era la capitale cinese. Cade nelle mani giapponesi il 13 dicembre 1937: massacri, stupri e saccheggi vanno avanti per mesi. Secondo le stime del Tribunale militare internazionale per l’Estremo Oriente (una sorta di Norimberga giapponese che si svolse fra il 1946 e il 1948) sono oltre 200 mila i civili e prigionieri di guerra assassinati a Nanchino e nei dintorni, solo nelle prime 6 settimane di occupazione. Per molti studiosi (fra cui Iris Chang) la cifra più vicina al vero è 300mila. Nel dicembre 2007 alcuni documenti statunitensi (fino ad allora segreti) fanno salire il numero dei morti di Nanchino a mezzo milione. Se qualcuno si chiede come mai gli Usa furono così reticenti sui massacri nipponici (e anzi diedero asilo ad alcuni “scienzati” noti come criminali di guerra) bisogna ricordare che a pochissimi anni dalla fine della seconda guerra mondiale il Giappone divenne un tassello fondamentale nella strategia anti-cinese.

Il quadro storico nel quale avviene il massacro di Nanchino è la seconda guerra sino-giapponese. Dopo la battaglia di Shangai, il 6 agosto 1937 l’imperatore Hiro Hito ratifica la scelta di non rispettare i vincoli imposti dalle convenzioni internazionali per il trattamento dei prigionieri.

Quando la guerra si avvicina a Nanchino quasi tutti gli occidentali se ne vanno, Fra i pochi a rimanere il tedesco John Rabe, dirigente della Siemens che qualcuno definì assurdamente «il nazista buono». Più di recente, Rabe è stato ribattezzato «lo Schindler di Nanchino» perchè in quel periodo riuscì a salvare decine di migliaia di cinesi. Le sue proteste, inviate in Germania, contro quegli orrori gli costarono il richiamo in patria e soprattutto l’arresto.

Proprio il 7 dicembre 1937 l’esercito giapponese trasmette un dispaccio alle truppe avvisando che a Nanchino saccheggi, incendi, illegalità verranno puniti severamente. In realtà accade il contrario. Dopo un ultimatum, il 12 dicembre, le truppe cinesi si ritirano. I giapponesi entrano in città il giorno dopo, incontrando pochissima resistenza eppure si scatena ogni violenza persino con torture e teste mozzate. Vi sono molte testimonianze e persino il filmato di un missionario statunitense, John Magee, ma anche le confessioni – molti anni dopo – di alcuni veterani di guerra giapponesi fra i quali Shiro Azuma, Tominaga Sozo e il medico Nagatomi Hakudo.

Il Tribunale Militare Internazionale per l’Estremo Oriente ha stabilito che vennero stuprate (spesso in pubblico) almeno 20.000 donne fra le quali anche bambine e anziane, molte delle quali poi furono uccise o mutilate mentre le altre venivano mandate nei bordelli-prigione.

Ancor oggi il Giappone rifiuta di risarcire le vittime dei crimini di guerra e gli eredi delle cavie umane uccise dall’Unità 731 in Manciura. Ma fatica anche, al di là di qualche timida ammissione ufficiale, a fare i conti con gli orrori di Nanchino. Nel 2004 un’ondata nazionalista e militarista costringe una casa editrice di manga a ritirare il fumetto di Hiroshi Motomiya che ha trattato in modo “troppo” esplicito la strage di Nanchino. E intanto alcuni parlamentari giapponesi vanno a rendere omaggio al santuario di Yasukuniu dove sono seppelliti anche 7 criminali di guerra.

Fra i non molti libri in italiano che affrontano quell’orrore rimosso vale segnalare il saggio «Fotografia, memoria e giustizia: la strage di Nanchino nel 1937» di Robert Chi nel volume «Dopo la violenza: costruzioni di memoria nel mondo contemporaneo» pubblicato nel 2005 dall’editore L’ancora del Mediterraneo e che riprende gli atti di un convegno del 2002.

Trattando di memoria è d’obbligo un riferimento ai diversi modi nei quali i Paesi del patto “Roberto” (Roma, Berlino, Tokio) hanno affrontato nel dopoguerra i crimini di guerra. Quando uscì la traduzione italiana di «Lo stupro di Nanchino» il quotidiano «L’unità» diede ampio spazio al libro di Iris Chang e intervistò lo storico Gabriele Nissim chiedendogli, fra l’altro, se gli unici «vaccinati», cioè capaci di fare i conti con la propria stroria, fossero i tedeschi. E lui rispose di sì, ricordando come l’Italia ma anche l’Ungheria e la Bulgaria, Paesi alleati dei nazisti, o la Francia (per quel che riguarda la repubblica collaborazionista di Vicky) continuano, salvo poche eccezioni, a tacere e auto-assolversi.

Immacolata concezione

Ove mai vi assalisse la curiosità (che è sorella astuta dell’ignoranza) di sapere perché oggi è festa, magari ve ne andate su «Wikipedia, l’enciclopedia libera». Senza fatica lì trovate questa prima definizione.«L’Immacolata Concezione è un dogmacattolico, proclamato da papa Pio IX l’8 dicembre1854 con la bollaIneffabilis Deus, che sancisce come la Vergine Maria sia stata preservata immune dal peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento. Da non confondere con il concepimento verginale di Maria». Forse qualche dubbio vi assale sulla differenza fra concezione immacolata e concepimento verginale ma decidete di proseguire. «La Chiesa cattolica celebra la solennità dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria l’8 dicembre. Nella devozione cattolica l’Immacolata è collegata con le apparizioni di Lourdes (1858) e iconograficamente con le precedenti apparizioni di Rue du Bac a Parigi (1830)». Magari vi sfugge il collegamento con Lourdes ma proseguite in cerca di una spiegazione. Fate pure ovviamente ma io ve lo sconsiglio: non si capisce nulla, è un delirio di citazioni nel noto stile “cavoli a merenda”. Colpa di Wikipedia? Macchè, colpa del dogma. Che sia un po’ strano arrivare a questa definizione con 19 secoli di ritardo non lo sostiene solo qualche miscredente ma molti cristiani e persino qualche cattolico. Consiglio (in biblioteca o su bancarelle) «Verità e menzogne della Chiesa cattolica: come è stata manipolata la Bibbia» di Pepe Rodriguez, tradotto in italiano nel 2006.

Sul piano teologico questa concezione senza macchia significa che, dopo Adamo ed Eva, un solo essere umano è nato senza il peccato originale. Che è naturalmente un altro dogma ma scomodo per una parte dei cattolici che volentieri lo rimuovono mentre altri ne fanno un punto di forza e infatti (come dopo si vedrà) utilizzano l’8 dicembre come data per manifestazioni clamorose e persino aggressive.

E’ interessante come Piergiorgio Odifreddi (in «Perché non possiamo essere cristiani e meno che mai cattolici)» inquadra «la mitografia di Maria» nei vari passaggi storici sino a essere ripresa «inaspettatamente» negli ultimi due secoli con i dogmi mariani dell’Immacolata Concezione e poi (nel 1950) della «Assunzione in cielo». A parte il rovesciamento della precedente tradizione scolastica, Odifreddi ricorda che, prima di proclamare il dogma dell’Immacolata, Pio IX indisse (nel 1849) «un referendum tra i vescovi nel quale 570 prelati su 665 risposero positivamente al dilemma “se vi siano nella Sacra scrittura testimonianze che provino solidamente l’immacolato concepimento di Maria”». Poi Odifreddi si lascia scappare un ingenuo «varda la combinasiun» raccontando che «il Cielo si adegua alle decisioni del Vaticano visto che nel 1858, quattro soli anni dopo la proclamazione del dogma, la Madonna apparve 18 volte a Lourdes a una quattordicenne analfabeta di nome Bernadette Soubirous» e che «il 25 marzo, giorno dell’annunciazione (…) rivelò in dialetto: Que soy era Immaculada Conceptiou».

Resta da aggiungere che se questo dogma non convince neppure una parte dei cattolici entusiasma invece l’ala più reazionaria del Vaticano. Per citare un solo episodio è proprio l’8 dicembre (del 1989) il giorno scelto dal cardinal Biffi per definire la donna moderna «sostanzialmente squallida anche se esteriormente raffinata». Provate a pensare una buona traduzione italiana di questa frase… e forse vi capiterà di arrossire. Evidentemente offendere le donne (moderne) non è peccato.

UNA PICCOLA NOTA

Care e cari, da quando è nato Il Dirigibile (www.ildirigibile.eu) mi impegno – non da solo però – in una rubrica quotidiana (salvo sabato e domenica) di scor-date. Eccone alcune… se le avete perse; altre (mie e non) ne trovate lì, sul colonnino di sinistra alla voce «Circostanze». (db)

Redazione
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