Scor-date, fra il 14 e il 30 settembre

 

Si parla qui di robacce dimenticate: Pavlov, due guerre libiche (1911 e 1931), violenza contro le donne e un pezzo di Sardegna che issò la bandiera statunitense (strisce e atomi).

14 settembre: Noi, cani di Pavlov

«Non sono il solo ad avere falsi ricordi» dice il protagonista di «Sindrome regressiva», un racconto (del 1965) di Philip Dick. Ma si possono creare, o meglio impiantare, falsi ricordi? In quel racconto Dick – un pochino schematizzando – la mette giù così: «E’ possibile dalla metà del XX secolo: tecniche del genere furono sperimentate all’istituto Pavlov di Mosca almeno dal 1940 e perfezionate al tempo della guerra di Corea. A un uomo si può far credere qualsiasi cosa».

Agli esseri umani si può far credere qualsiasi cosa. E persino suscitare suscitare falsi ricordi. Se tutta la “colpa” non può essere scaricata sulle spalle di Pavlov, certo il medico, psicologo ed etologo russo – e poi sovietico – ha messo le basi perché ciò divenisse fattibile.

Seguendo (per comodità) il filo di Wikipedia, scopriamo che Ivan Petrovic Pavlov nasce il 14 settembre 1849 a Rjazan. Dopo gli studi in seminario si iscrive a medicina nell’università di San Pietroburgo. Mentre prosegue gli studi, inizia a collaborare con la facoltà di veterinaria. Qui Pavlov inizia a farsi notare per ricerche sulla fisiologia dell’apparato circolatorio e della digestione. Nel 1878 viene pubblicato il suo primo lavoro sui conigli. La sua tesi di dottorato è sui «nervi centrifughi del cuore»: dopo molti studi su mammiferi (soprattutto cani) dichiara che le varie branche dei nervi del cuore , stimolate da corrente elettrica, sono in grado non solo di ritardare o accelerare i battiti del cuore, ma anche di aumentare o diminuire la loro forza. Ma è la scoperta dei riflessi «condizionati» (o associati) che porta Pavlov al Nobel.

Negli studi sulla regolazione delle ghiandole digestive, Pavlov nota che gli animali iniziano a salivare non appena si fa vedere il cibo.

Il famoso «cane di Pavlov» si può, in breve, raccontare così. Prima di dare cibo a un cane si suona un campanello. Il cane non saliva. Poi gli si dà il cibo. In seguito gli si dà ancora da mangiare mentre suona il campanello. Infine si fa suonare il campanello senza dargli il cibo ma basta quel suono per far salivare il cane; in termini popolari gli viene l’acquolina in bocca. In forme simili questo accade agli esseri umani. Queste ricerche in apparenza elementari lo portano a definire una vera e propria ricerca e metodologia che poi diventa la teoria del «riflesso condizionato» (o del condizionamento classico) che oggi viene chiamato pavloviano. Ciò dimostra che il cervello controlla i comportamenti non solo sociali ma anche fisiologici. A fine ‘800-inizio ‘900 questa scoperta ha del rivoluzionario e assetta un duro colpo all’idea che la nostra coscienza si basi su idee innate o su disegni (divini) prefissati.

Nel 1904, l’anno dopo l’annuncio della scoperta dei «riflessi condizionati», Pavlov riceve il premio Nobel per la Medicina.

Poco noti al grande pubblico – ma assai studiati da militari, dittatori e aspiranti manipolatori – sono invece gli esperimenti di Pavlov per indurre confusione crescente, sino alla schizofrenia, nei cani. Si mette l’animale di fronte a un cerchio o a un’ellisse, addestrandolo a premere un bottone se vuole ricevere cibo. Quando al cane si presentano figure simili è facile che sbagli e allora gli viene inflitta una scossa elettrica. Ma l’animale non è in grado di percepire la differenza fra un cerchio e una figura simile dunque sembra impazzire.

Pavlov fu uno dei pochi scienziati pre-rivoluzionari apprezzati dal nuovo regime e poté quindi continuare a fare ricerca in patria sin quasi alla morte (il 27 febbraio 1936). Il suo interesse si concentra – o viene indirizzato dal governo sovietico, secondo alcuni – sull’induzione delle nevrosi.

Le scoperte di Pavlov hanno avuto grande importanza in fisiologia, psicologia e psichiatria ma anche – più che un sospetto si tratta di una certezza – negli studi per ogni sorta di tortura psicologica che in Urss come negli Usa sono avvenute (in forma teorica) nelle università e in centri studi per essere poi “approfondite”, in maniera occulta, sulle cavie umane disponibili nei gulag oppure nelle tante prigioni stile Guantanamo o Abu Graib delle quali veniamo a sapere in ritardo e occasionalmente.

Se è possibile agire nella formazione dei riflessi condizionati sino a dirigerla, se dall’accumulo di questi «condizionamenti» nel subcosciente si può modificare anche la coscienza, ne deriva – almeno sul piano teorico – che sono pensabili quasi infinite applicazioni: nell’educazione di individui sani come nella cura di malati o di adolescenti “tendenzialmente criminali” (ma anche i dissidenti politici sono criminali per chi detiene il potere) che possono essere ri-condizionati. Sino a impiantare falsi ricordi e a farci credere ciò che non è vero, come teme Dick?

Non vorrei che sembrasse una battuta ma l’unica, breve e drammatica, risposta seria è «bau».

16 settembre 1931: ucciso il leone del deserto

Quanto fu infame l’Italia in Libia. Stragista 100 anni fa (fra pochi giorni cade il triste anniversario) e poi negli anni ’20-30. Infame fu anche l’Italia di Berlusconi-Frattini nelle settimane passate? Io suppongo di sì… ma per ora non ho prove, solo indizi.

Il 16 settembre di 80 anni fa viene ammazzato «il leone del deserto»: è una storia che i nostri governanti (di vario colore) ritengono non dovremmo conoscere, dunque io la racconto ogni volta che posso.

Omar Al Mukhtar ha 63 anni quando, nel 1923, diventa il capo della resistenza anti-italiana in Cirenaica, come allora veniva chiamata la Libia. Una vita da insegnante del Corano e poi gli ultimi anni da eroe e genio militare. Infinitamente superiori per numero (oltre 20 mila contro 2-3mila) e per armamento (aerei e gas tossici massicciamente usati) i fascisti ci misero un decennio per piegare la resistenza libica che dalla sua aveva solo l’appoggio della popolazione e la conoscenza del territorio.
A vincere fu il generale Rodolfo Graziani, con massacri e campi di concentramento. Fascisti certo. Ma anche il colonialismo di Giolitti fu sanguinario quando nel 1911 (su fortissime pressioni del Banco di Roma, legato a interessi vaticani) aggredì la Libia: repressione scientifica, deportazioni (migliaia tra Favignana, Ustica e Ventotene ma anche tantissimi schiavizzati nelle grandi fabbriche del Nord Italia) e massacri come quello di Sciara Sciat su cui calò la censura. «Tripoli, bel suol d’amore» si cantava: in realtà suolo di orrore. Fra il 1911 e il ’15 la popolazione della Cirenaica passa da 300mila a 120 mila. llora la sinistra italiana si opponeva al colonialismo. Forse perché una sinistra c’era.
Un salto avanti nel tempo. Fu dunque Graziani, un criminale di guerra al pari delle Ss, a sconfiggere Omar al Mukhtar. A esempio deportando circa 100mila libici in 13 campi di concentramento: in 40mila vi moriranno. Non erano guerriglieri ma avrebbero potuto dar cibo o rifugio ai nemici dell’Italia.

Nell’estate del ’31 «il leone del deserto» è con soli 700 uomini, pochi viveri e quasi zero munizioni. L’11 settembre è catturato e dopo un processo-farsa impiccato il 16 settembre. Ha 70 anni e sale al patibolo sereno. «Non ci arrenderemo, la prossima generazione combatterà e poi la successiva e la successiva ancora». Da uomo religioso aggiunge: «da Dio veniamo e a Dio torniamo».
Di tutto questo sapremmo in Italia zero se non fosse per il coraggio di Angelo Del Boca e di pochi altri storici. Come si sa, il fascismo non ebbe la sua Norimberga. Una serie di amnistie (assai discutibili e comunque applicate in modo scandaloso), poi procedimenti archiviati, documenti nascosti per anni negli “armadi della vergogna” consentirono la libertà sia agli anelli minori di quella catena criminale che fu il fascismo che ai peggiori assassini e ai capi, compresi boia confessi come Rodolfo Graziani o Valerio Borghese.

Quasi tutti in Italia, compreso Gianfranco Fini, hanno chiesto «scusa» – chi prima e chi molto dopo – agli ebrei per le persecuzioni ma le istituzioni non hanno ricordato e pianto quelli che siamo andati a massacrare in Africa. Anzi passano gli anni e i governi le imprese africane degli italiani – fascisti e non – restano nascoste.

Nei libri e persino nelle sale cinematografiche.

La censura – strisciante, mai dichiarata ma netta – colpisce dagli anni ‘80 sino a oggiIl leone del desertodi Moustapha Akkad, un campione d’incasso in molti Paesi. Un filmone tipico di Hollywood, con tutti i pregi e i difetti delle grandi produzioni, con ottimi attori (Anthony Quinn, Oliver Reed, Rod Steiger, Irene Papas, John Gielgud… ) e nessun falso storico anti-italiano; anzi, notò Del Boca, facciamo miglior figura che nella realtà: nel film alcuni italiani si ribellano a Graziani il che purtroppo non accadde (avvenne invece in Etiopia e in Somalia, pochi anni dopo). Quel film non lo si vide e tuttora non si può vedere. Questioni burocratiche pare; no anzi, è “vilipendio”; rettifica “manca il visto”; anzi no “è il distributore che preferisce non farlo girare”; in ogni modo qua e là arriva la Digos a sequestrarlo; passa solo in un paio di festival minori e in qualche cineclub coraggioso.

Il motivo della censura è che Akkad mostra, in modo documentato, gli orrori italiani in Libia. Il «leone» del titolo era appunto Omar Al Muktar, tuttora notissimo in tutta l’Africa (in ogni grande città si trova una via a lui intitolata).

Per riparare a tanta viltà si potrebbe chiedere adesso al nostro ministro della Pubblica istruzione di aprire il prossimo anno scolastico con questo film. Scusate, avevo dimenticato che abbiamo sì una ministra ma senza scuola pubblica.

19 settembre 2006: uomini (pochi) controcorrente

Due quotidiani italiani non certo fra i più venduti («Il manifesto» e «Liberazione») il 19 settembre 2006 pubblicano l’appello che trovate qui sotto: il silenzio successivo è tristemente prevedibile. Vale ripubblicarlo integralmente… anche perchè dopo cinque anni la sua urgenza purtroppo resta immutata.

La violenza contro le donne ci riguarda: prendiamo la parola come uomini
Assistiamo a un ritorno quotidiano della violenza esercitata da uomini sulle donne. Con dati allarmanti anche nei paesi “evoluti” dell’Occidente democratico. Violenze che vanno dalle forme più barbare dell’omicidio e dello stupro, delle percosse, alla costrizione e alla negazione della libertà negli ambiti familiari, sino alle manifestazioni di disprezzo del corpo femminile. Una recente ricerca del Consiglio d’Europa afferma che l’aggressività maschile è la prima causa di morte violenta e di invalidità permanente per le donne fra i 16 e i 44 anni in tutto il mondo. E tale violenza si consuma soprattutto tra le pareti domestiche.


Siamo di fronte a una recrudescenza quantitativa di queste violenze? Oppure a un aumento delle denunce da parte delle donne? Resta il fatto che esiste ormai un’opinione pubblica e un senso comune, che non tollera più queste manifestazioni estreme della sessualità e della prevaricazione maschile.
Chi lavora nella scuola e nei servizi sociali sul territorio denuncia poi una situazione spesso molto critica nei comportamenti degli adolescenti maschi, più inclini delle loro coetanee femmine a comportamenti violenti, individuali e di gruppo.

Forse il tramonto delle vecchie relazioni tra i sessi basate su una indiscussa supremazia maschile provoca una crisi e uno spaesamento negli uomini che richiedono una nuova capacità di riflessione, di autocoscienza, una ricerca approfondita sulle dinamiche della propria sessualità e sulla natura delle relazioni con le donne e con gli altri uomini.

La rivoluzione femminile che abbiamo conosciuto dalla seconda metà del secolo scorso ha cambiato radicalmente il mondo.

Sono mutate prima di tutto le nostre vite, le relazioni familiari, l’amicizia e l’amore tra uomini e donne, il rapporto con figlie e figli. Sono cambiate consuetudini e modi di sentire. Anche le norme scritte della nostra convivenza registrano, sia pure a fatica, questo cambiamento.

L’affermarsi della libertà femminile non è una realtà delle sole società occidentali. Il moto di emancipazione e liberazione delle donne si è esteso, con molte forme, modalità e sensibilità diverse, in tutto il mondo.
La condizione della donna torna in modo frequente nelle polemiche sullo “scontro di civiltà” che sarebbe in atto nel mondo. Noi pensiamo che la logica della guerra e dello “scontro di civiltà” può essere vinta solo con un “cambio di civiltà” fondato in tutto il mondo su una nuova qualità del rapporto tra gli uomini e le donne.

Oggi attraversiamo una fase contraddittoria, in cui sembra manifestarsi una larga e violenta “reazione” contraria al mutamento prodotto dalla rivoluzione femminile. La violenza fisica contro le donne può essere interpretata in termini di continuità, osservando il permanere di un’antica attitudine maschile che forse per la prima volta viene sottoposta a una critica sociale così alta, ma anche in termini di novità, come una “risposta” nel quotidiano alle mutate relazioni tra i sessi.

Un altro sintomo inquietante è il proliferare di mentalità e comportamenti ispirati da fondamentalismi di varia natura religiosa, etnica e politica, che si accompagnano sistematicamente a una visione autoritaria e maschilista del ruolo della donna. Queste stesse tendenze sono però attualmente sottoposte a una critica sempre più vasta, soprattutto – ma non esclusivamente – da parte femminile.


La recente cronaca italiana ci ha offerto alcuni casi drammatici, eclatanti che rivelano anche modi diversi di accanirsi sul corpo e sulla mente femminile.

Una ragazza incinta viene seppellita viva dall’amante, che non vuole affrontare il probabile scandalo. Un fratello insegue e uccide la sorella, rea di non aver obbedito al diktat matrimoniale della famiglia. Un immigrato pakistano uccide la figlia, aiutato da altri parenti maschi, perché non segue i costumi sessuali etnici e religiosi della comunità. In alcune città si susseguono episodi di stupro da parte di giovani immigrati ma anche di maschi italiani. Sono italiani gli stupratori di una ragazza lesbica a Torre del Lago. Italiano l’assassino che a Parma ha ucciso con otto coltellate la ex fidanzata, che perseguitava da qualche anno. Ultimo caso di una lunga scia di delitti commessi in questi ultimi anni in Italia da uomini contro le ex mogli o fidanzate, o contro compagne in procinto di lasciarli.

Il clamore e lo scandalo sono alti. In un contesto di insicurezza (in parte reale, in parte enfatizzata dai media e da settori della politica), di continua emergenza e paura per le azioni del terrorismo di matrice islamica e per le contraddizioni prodotte dalla nuova dimensione dei flussi di immigrazione, nel dibattito pubblico la matrice della violenza patriarcale e sessuale è stata spesso riferita a culture e religioni diverse dalla nostra.

Molte voci però hanno insistito giustamente sul fatto che anche la nostra società occidentale non è stata e non è a tutt’oggi immune da questo tipo di violenza. E’ anzi possibile che il rilievo mediatico attribuito alla violenza sessuale che viene dallo “straniero” risponda a un meccanismo inconscio di rimozione e di falsa coscienza rispetto all’esistenza di questo stesso tipo di violenza, anche se in diversi contesti culturali, nei comportamenti di noi maschi occidentali.

Si è parlato dell’esigenza di un maggiore ruolo delle istituzioni pubbliche, sino alla costituzione come parti civili degli enti locali e dello stato nei processi per violenze contro le donne. Si è persino messo sotto accusa un ipotetico “silenzio del femminismo” di fronte alla moltiplicazione dei casi di violenza.


Noi pensiamo che sia giunto il momento, prima di tutto, di una chiara presa di parola pubblica e di assunzione di responsabilità da parte maschile. In questi anni non sono mancati singoli uomini e gruppi maschili che hanno cercato di riflettere sulla crisi dell’ordine patriarcale.
Ma oggi è necessario un salto di qualità, una presa di coscienza collettiva.


La violenza è l’emergenza più drammatica.

Una forte presenza pubblica maschile contro la violenza degli uomini potrebbe assumere valore simbolico rilevante. Anche convocando nelle città manifestazioni, incontri, assemblee, per provocare un confronto reale.
Siamo poi convinti che un filo unico leghi fenomeni anche molto distanti tra loro ma riconducibili alla sempre più insopportabile resistenza con cui la parte maschile della società reagisce alla volontà che le donne hanno di decidere della propria vita, di significare e di agire la loro nuova libertà.

Il corpo femminile è negato con la violenza. Ma viene anche disprezzato e considerato un mero oggetto di scambio (come ha dimostrato il recente scandalo sulle prestazioni sessuali chieste da uomini di potere in cambio di apparizioni in programmi tv ecc.). Viene rimosso da ambiti decisivi per il potere: nella politica, nell’accademia, nell’informazione, nell’impresa.
Lo sguardo maschile – pensiamo anche alle organizzazioni sindacali – non vede ancora adeguatamente la grande trasformazione delle nostre società prodotta negli ultimi decenni dal massiccio ingresso delle donne nel mercato del lavoro.

Chiediamo che si apra finalmente una riflessione pubblica tra gli uomini, nelle famiglie, nelle scuole e nelle università, nei luoghi della politica e dell’informazione, nel mondo del lavoro. Una riflessione comune capace di determinare una sempre più riconoscibile svolta nei comportamenti concreti di ciascuno di noi.

I primi firmatari di quell’appello erano Sandro Bellassai, Stefano Ciccone, Marco Deriu, Massimo Michele Greco, Alberto Leiss, Jones Mannino, Claudio Vedovati. Il riferimento era alla rete «Maschile plurale» che da allora ha dato vita a molte iniziative e riflessioni, regolarmente snobbate dai media (presunti) grandi.

«Maschile plurale» su Facebook si presenta così.


L’Associazione Nazionale Maschile Plurale è nata alcuni anni fa su iniziativa di un gruppo di uomini, di diverso orientamento sessuale, appartenenti a gruppi formali e informali diffusi sul territorio nazionale, accomunati dall’impegno, la riflessione e la messa in discussione dei paradigmi tradizionali dell’<<essere maschi>>; uomini provenienti da differenti percorsi politici e culturali, che hanno deciso di reagire ai terribili fatti di violenza alle donne che le cronache hanno riportato alla nostra attenzione negli ultimi tempi.


Alcuni vengono da esperienze politiche tradizionali, altri vengono da movimenti studenteschi, pacifisti e ambientalisti, altri ancora hanno cominciato a riflettere su questi temi a partire da relazioni affettive o di amicizia o da scambi con il movimento delle donne.


Esistono attualmente in Italia gruppi di uomini di questo genere in diverse città, ma quello che ci preme sottolineare è che noi uomini, che stiamo attraversando queste esperienze, non rivendichiamo una sorta di estraneità rispetto alla Storia a cui apparteniamo e certo non cerchiamo rivincite riesumando vecchi trofei e valori patriarcali.


Quella che viviamo è una occasione per ripensarci e ripensare il proprio rapporto con il potere, una occasione per interrogarci e scoprire cose nuove su noi stessi.


Noi stiamo promuovendo una riflessione individuale e collettiva tra gli uomini di tutte le età e condizioni, perché noi vogliamo determinare e facilitare una svolta nei comportamenti concreti di ciascuno, con le proprie diverse soggettività, nelle relazioni interpersonali, nelle famiglie, nel mondo del lavoro, nelle scuole, nei luoghi della politica e dell’informazione, nonché nelle diverse occasioni di socialità e di svago.

E poi dal 2006, con il primo appello di uomini in Italia, in cui si chiedeva ad altri uomini di prendere posizione contro la violenza sulle donne, ci stiamo impegnando pubblicamente e personalmente per l’eliminazione di ogni forma di violenza di genere, fisica e psicologica.

Sul sito www.maschileplurale.it sono rintracciabili documenti, luoghi di incontro, proposte, riflessioni.

Una rubrica come le «scor-date» fa evidentemente i conti con le rimozioni (pubbliche e private) di carattere sia politico che psicoanalitico: entrambi questi rimossi hanno a che fare con i rapporti di potere. Molti di noi – il noi si riferisce agli esseri umani in generale – preferiscono dimenticare ciò che ci fa star male, che non ci sentiamo in grado di risolvere, che ci costringerebbe a cambiamenti radicali dei quali abbiamo paura. E’ un errore: giocare allo struzzo fa incancrenire i problemi, non ci indirizza verso i mutamenti che – pur faticosi – possono farci migliorare. Con ogni evidenza se avessimo sempre ragionato così staremmo ancora a prenderci a randellate nelle grotte e a buttar giù dalle rupi ogni Prometeo, Ipazia o Galileo. Così pur di non fare i conti con la diffusa (permanente o crescente è difficile a dirsi, certo non in calo) violenza maschile contro le donne che riguarda se non direttamente ognuno di noi certamente amici, parenti, colleghi e l’intera struttura socio-economica nella quale noi viviamo… preferiamo – il noi stavolta è riferito al mio esser parte della metà del mondo maschile – chiudere gli occhi.

A dir poco è complicità.

In altri Paesi esistono gruppi e reti come «Maschile plurale» che, se pure non sono riusciti a trasformare radicalmente la società, continuano un faticoso ma proficuo lavoro trovando – come è giusto sia – ascolto anche nei media. La perdurante sordità italiana si spiega benissimo. Sì certo con quel signore che a tempo perso fa il presidente del Consiglio e i suoi tanti complici. Ma sarebbe troppo comodo cavarsela così. Il più grande poeta italiano del Novecento (non Quasimodo o Montale ma Fabrizio De Andrè) ci ricordava «anche se voi vi credete assolti siete per sempre coinvolti»

21 settembre 1972: i segreti della Maddalena

Fu un accordo segreto, nel 1972, fra Giulio Andreotti e zio Sam a regalare la base di Santo Stefano (alla Maddalena) ai sommergibili nucleari. Sardegna, cittadine/i, Parlamento italiano furono tagliati fuori al punto che sulla base sventolò tranquillamente la bandiera a stelle e strisce. Un vessillo che un po’ prima, all’epoca dell’assalto Usa alle Filippine, Mark Twain propose di modificare: teschi al posto delle stelle. Visto l’alto numero di tumori intorno a La Maddalena forse la bandiera proposta da Twain non sarebbe fuori luogo. In alternativa si potrebbe cambiare il classico vessillo sardo: i 4 mori andrebbero anche imbavagliati e/o ammanettati oppure marchiati in fronte col simbolino dell’atomo.

Talmente segreto quell’accordo che è persino arduo stabilire se il regalo a zio Sam è datato 11 agosto o 21 settembre. In ogni modo, 33 anni dopo arriva – a sorpresa – l’annuncio: i sommergibili statunitensi di Santo Stefano saranno trasferiti fuori dal territorio nazionale «secondo tempi e modi che dovranno essere definiti più avanti». Così concordò nel 2005 il ministro della Difesa Antonio Martino con il collega Donald Rumsfeld. All’epoca Martino ringraziò (di che?) probabilmente auspicando altri 33 anni di silenzio sui tumori, sulle servitù militari e sul modello di guerra della “nuova” Nato. Nel frattempo La Maddalena è finita sui media per appalti, sprechi e ruberie di un G8 che non vi fu. I segreti restano: non si sa e non si deve sapere neppure quanti incidenti nucleari vi sono stati nelle acque sarde.

Aspettando almeno la verità sui tumori, vale la pena riprendere in mano un bel libro di Marco Mostallino, «L’Italia radioattiva» (sotto-titolo di ironia classicheggiante: «L’atomo, le armi, le scorie e il potere») pubblicato da Cuec nel 2004.

Mostallino ricorda l’articolo 11 della Costituzione e racconta, nel terzo capitolo, di bugie, pericoli, complicità, resistenze, di pochi mass media coraggiosi e di molti silenti. Riprende dal comitato sardo «Gettiamo le basi» l’elenco di «50 atomiche sotto il mare» ovvero dei principali incidenti ai sottomarini nucleari. Sardi e italiani son troppo giovani e ingenui per sapere queste storiacce nuke ma chi ha studiato l’inglese può avere qualche conferma persino dai documenti “de-classificati” della Us Navy e da siti ufficiali statunitensi.

Ove mai vogliate approfondire su www.reporterassociati.orgtrovate un ricco dossier di Salvatore Sanna. Lì vi sono i riferimenti all’Accordo segreto del ’72 che modifica altri accordi segreti del 1954 ma anche le novità del 1978 e poi del 1983 per garantire più libertà d’azione nel Mediterraneo e un migliore armamento (a esempio un’apposita versione dei missili Cruise). Notizie rintracciabili nei documenti del Congresso degli Usa e dell’Assemblea Atlantica, citati dalla letteratura specializzata in questioni militari ma “ignote” ai politici italiani. Si ricorda che i sub nuke vengono impiegati anche “contro terra”: nel 1986 contro la Libia e nelle campagne Desert storm ed Enduring Freedom. Si ricorda infine che i maddalenini hanno atteso invano un atto o un decreto che tutelasse (o almeno monitorasse seriamente) la loro salute.

Forse qualcuno pensa che la vicenda di Santo Stefano sia solo un’anomalia “sarda”. E’ bene allora ricordare che «unità navali a propulsione nucleare» transitano anche ad Augusta, Brindisi, Cagliari, Gaeta, La Spezia, Livorno, Napoli, Taranto, Trieste e Venezia.

Italia, amate (o armate?) sponde. Con chiare, fresche, plutoniche acque.

27 settembre (ma del 1911): sciopero generale contro la guerra libica

Oh come è comoda Wikipedia. Ma ooooooooooooooooooooooooh come è omissiva, monca, reticente, asettica, soprattutto occidentalcentrica Wikipedia.

Prendiamo la guerra italo-turca (nota come campagnadi Libia)

combattuta fra il regno d’Italia e quel che restava dell’impero ottomano per impossessarsi di Tripolitania e Cirenaica, ovvero l’essenza dell’attuale Libia (si vedrà se domani sarà smembrata in un paio di vecchi-nuovi regni petroliferi).

Secondo Wikipedia si combatte fra il 28 settembre 1911 e il 18 ottobre 1912, quasi una guerra lampo. Stando al calendario è quasi esatto ma già qui c’è una dimenticanza (o censura?): la vigorosa opposizione alla guerra che in Italia porta a scioperi, scontri, boicottaggi e quasi alla crisi di governo. C’è molto altro.

Prima però vediamo, in sintesi, Wikipedia.

«Le ambizioni coloniali spinsero l’Italia ad impadronirsi delle due province ottomane, che assieme al Fezzan, nel 1934, avrebbero costituito la Libia, dapprima come colonia italiana, in seguito come Stato indipendente. Durante il conflitto fu occupato anche l’arcipelago del Dodecaneso, nel Mar Egeo; quest’ultimo avrebbe dovuto essere restituito ai turchi alla fine della guerra, ma rimase sotto l’amministrazione provvisoria dell’Italia fino a quando – con la firma del Trattato di Losanna nel 1923 – la Turchia rinunciò ad ogni rivendicazione e riconobbe ufficialmente la sovranità italiana sui territori perduti […] Pure se minore, questo evento bellico fu un importante precursore della prima guerra mondiale perché contribuì al risveglio del nazionalismo nei Balcani. Osservando la facilità con cui gli Italiani avevano sconfitto i disorganizzati Turchi ottomani, i membri della Lega Balcanica attaccarono l’impero prima del termine del conflitto con l’Italia.Durante la guerra, si registrarono numerosi progressi tecnologici nell’arte militare, tra cui, in particolare, l’impiego dell’aeroplano (furono schierati in totale 9 apparecchi sia come mezzo offensivo che di ricognizione. Il 23 ottobre1911, un pilota italiano (il capitano Carlo Maria Piazza) sorvolò le linee turche in missione di ricognizione, e il 1º novembre
dello stesso anno, l’aviatore Giulio Gavotti lanciò a mano la prima bomba aerea (grande come un’arancia) sulle truppe turche di stanza in Libia. Altrettanto significativo fu l’impiego della radio con l’allestimento del primo servizio regolare di radiotelegrafia campale militare su larga scala organizzato dall’arma del genio sotto la guida del comandante della compagnia R.T. Luigi Sacco e con la collaborazione dello stesso Guglielmo Marconi. Infine, il conflitto libico registrò il primo impiego nella storia di automobili in una guerra, da parte delle truppe italiane dotate di autovetture Fiat Tipo 2».

Pulito, anzi asettico. Da questo riassunto sono omessi i massacri (come Sciara Sciat), i bombardamenti aerei vengono ribattezzati «progressi tecnologici nell’arte militare». Arte, una cugina di poesia o scultura. La parola «aggressione» (al popolo libico) non è contemplata. Il colonialismo è un’ambizione, un po’ come avere una laurea o la seconda casa.

I nostri testi scolastici sono (salvo rarissime eccezioni) ancor peggio. A leggerla sui libri di Angelo Del Boca andò diversamente. Non prendiamo il poderoso «Gli italiani in Libia» (Laterza) o la monumentale opera «Gli italiani in Africa orientale» (prima Laterza poi Oscar Mondadori) ma il recente e agile «Italiani, brava gente?» – occhio al punto interrogativo – uscito da Neri Pozza nel 2005. Il capitolo sulla “impresa” libica si intitola «Sciara Sciat: stragi e deportazioni». Racconta di una volontà di rapina, di bugie, di impiccagioni collettive, di razzismo, di elogio della forca, di una opposizione che denuncia l’infamia e sputa sul patriottismo dei massacratori, di rivoltosi e di «domiciliati coatti» (cioè deportati) in Italia… in alcun documento ufficiale è dato sapere quanti fossero. Molti di loro finirono schiavizzati nelle grandi fabbriche italiane, altra storia che si è cercato di cancellare. Del Boca ricorda che l’esercito italiano, ben più potente, non riuscì a vincere e già il 28 novembre 1914 con l’attacco alla Gahra di Sebha ha inizio «quella che poi sarebbe stata chiamata la grande rivolta araba, che avrebbe incendiato l’intera Libia e respinto gli italiani al mare». Ecco le ultime parole del capitolo: «Così finiva, nel sangue e nella vergogna, il primo tentativo di occupare la Libia. Era durato quattro anni. Per raggiungere l’occupazione integrale della “quarta sponda” sarebbero occorsi altri 17 anni e l’annientamento, in combattimento e nei campi di sterminio, di un ottavo della popolazione libica».

Un altro dei rari libri che esce dalla retorica patriottarda e razzista è «Storia del colonialismo italiano» (Datanews ediz) di Alessandro Aruffo. La sezione dedicata alla conquista della Libia racconta bene l’intreccio fra nazionalismo, affari e una crociata anti-musulmana come auspicava il Vaticano. I costi furono alti (un miliardo di lire, 100 mila uomini) e la guerra fu, come sempre, tutta diversa da come la raccontarono giornalisti compiacenti che riuscirono a tacere non solo sulla repressione scientifica della popolazione o sui raccapriccianti episodi che «indussero Ferdinando Martini – al dicastero delle Colonie – ad aprire un’inchiesta» ma persino su episodi minori quanto scomodi come la farina avariata data ai bersaglieri. Del tutto sparito nei giornali dell’epoca il «genocidio nell’oasi» come lo chiamano sia Lino Dal Fra nel suo libro «Sciara Sciat» (ancora Datanews) che Eric Salerno in «Genocidio in Libia: le atrocità nascoste dell’avventura coloniale» (fortunatamente ristampato nel 2005 da manifesto-libri)

Altro che «Tripoli bel suol d’amore». Molto più veritiero della canzonetta un allor celebre “contrasto”, cioè una improvvisazione in ottava rima (un po’ come oggi in certe gare di rap o meglio di «free style») che divenne popolare col titolo «Contrasto fra l’aristocratica e la plebea sulla guerra di Tripoli» e che così si conclude: « Chi ama la guerra sono òmini tristi / privi di scienza e di cuore cattivo; / fossero stati invece i socialisti / il mio figlio sarebbe ancora vivo. / La guerra è bella pe’ capitalisti / perché ritrovan sempre il loro attivo / dalle imposte che tengono impiegate / dicon sempre: Armiamoci e andate». E’ lo stesso sentimento popolare che spinge un disegnatore esordiente, Giuseppe Scalarini, a pubblicare sull’«Avanti» alcune illustrazioni che faranno storia, come l’albero di Natale a Tripoli adornato con gli impiccati. Ma c’è anche il giornalista Paolo Valera a battersi contro gli orrori libici: il suo opuscolo «Le giornate di Sciara Sciat fotografate» fu allora diffuso in 100mila copie. Mai più ristampato purtroppo.

Ed è per questa convinzione (anticapitalista e antimilitarista) che si arriva il 27 settembre allo sciopero generale contro la guerra, preceduto da scioperi spontanei nei giorni precedenti a Milano, a Forlì, a Venezia e in molti altri luoghi. Lo raccontò, senza enfasi ma col rigore dei documenti, Maurizio Degl’Innocenti in «Il socialismo italiano e la guerra di Libia» (pubblicato da Editori Riuniti nel 1976). A seguire boicottaggi, blocchi stradali, ancora scioperi mille episodi di resistenza popolare quotidiana contro la guerra.

Inevitabile ricordare che oggi i presunti eredi di quei socialisti votano ogni avventura militare (anche in Libia) e, persino in tempi di grave crisi, neanche osano chiedere una diminuzione delle spese militari. Le sedicenti sinistre oggi parlano come l’aristocratica del “contrasto” sopra citato: «E’ sempre costumato guerreggiare / e in oggi ce lo impone più che mai / chi per voler le terre conquistare / e chi per dar lavoro agli operai / Intanto quei malvagi, piano piano / un po’ di educazione la impareranno / tralasceranno i rei costumi suoi / diverranno educati come noi». Se si sostituisce democrazia a educazione non vi sembra di ascoltare un bel dibattito nel Parlamento d’oggi?

UNA PICCOLA NOTA

Care e cari, da quando è nato Il Dirigibile (www.ildirigibile.eu) mi impegno – non da solo però – in una rubrica quotidiana (salvo sabato e domenica) di scor-date. Ecco alcune delle mie … se ve le siete perse lì. Ve ne potrebbero essere molte altre…. A esempio queste.

Punti di vista. La resa del Giappone, il 2 settembre 1945, è la «folle notte» in cui s’incontrano i protagonisti del film New York, New York e, dall’altro capo dell’oceano, il giorno in cui 200 mila soldati si tolgono la vita, facendo harakiri per il disonore.

7171 giorni dopo. «Il fatto non sussiste» e «non aver commesso il fatto»: con queste formule giudiziarie il 6 settembre 2001 fu scagionato Luigi Scricciolo, arrestato il 4 febbraio 1982 (era allora dirigente della Uil) per terrorismo e spionaggio. Ha raccontato la sua storia in 20 anni in attesa di giustizia (edizioni Memori, Roma 2006) che è passato sotto un silenzio tanto grande quanto fu rumoroso quell’arresto. Su codesto blog se n’è parlato (anche a proposito d’un romanzo di Enrico Pili).

Sincretismi? È conosciuta la grande venerazione in Sicilia per santa Rosalia, meno noto è che da qualche anno il 7 settembre sia festeggiato dai cinquemila Tamil (un’etnia dello Sri Lanka) immigrati nell’isola.

10 settembre, una corsa. Il 1960 è l’anno in cui l’Africa sembra iniziare a liberarsi (fu solo un’illusione?) dal colonialismo. Molti ne vedono la conferma alle Olimpiadi di Roma quando l’etiope Abebe Bikila vince – scalzo – la maratona, la più simbolica delle gare. Trionfa proprio nel Paese che in un (cupo) ventennio aveva invaso l’ultimo Stato africano indipendente. Bikila fa il bis olimpico – con le scarpe – nel ‘64. Poco tempo dopo un terribile incidente d’auto lo inchioda su una sedia a rotelle: come se un fato razzista non gli perdonasse l’affronto alla bianchezza delle Olimpiadi e al breve impero di Mussolini & Savoia. Anche invalido, Bikila non si arrese. La sua storia è narrata in un bel libro: «Un sogno a Roma, storia di Abebe Bikila» (si può chiedere all’Acsi, 06.6990498) di Giorgio Lo Giudice e Valerio Piccioni.

Dieci anni fa l’attacco alle Due Torri. Qualche 11 settembre prima il decisivo aiuto degli Usa ai golpisti cileni.

Altri punti di vista. La cattiva notizia è che, nonostante la sconfitta dei turchi alle porte di Vienna – il 12 settembre 1683 – continua la guerra con gli europei; la buona notizia è che nell’andarsene i turchi lasciano grani di caffé che così fa il suo ingresso trionfale in Occidente.

Black Consciousness. «Port Elizabeth tempo bello / attività normale al posto di polizia 619». Inizia così Biko, cantata da Peter Gabriel per ricordare l’assassinio, il 12 settembre 1977, del sudafricano Steve Biko, leader del movimento «Consapevolezza nera».

Con un secolo (e più) di ritardo una legge italiana definisce la mafia «un’organizzazione criminale»: è il 13 settembre 1982. Ritardi che si ripeteranno, vedi il 26 settembre, in molte occasioni.

Segreti di Stato. Si scoprirà solo nel 1990 che in Italia, il 16 settembre 1956, nasceva l’organizzazione golpista Gladio. Uno dei molti misfatti ai quali prese parte Kossiga.

Indagava sulla mafia e in particolare sui suoi legami con il fascista-golpista Junio Valerio Borghese: il 16 settembre 1970 a Palermo il giornalista Mauro De Mauro scompare per sempre.

Infamie. Il patto Molotov-Ribentropp, il17 settembre 1939, divide e cancella la Polonia: poco dopo 22 mila polacchi sono arrestati, deportati e uccisi nelle foreste di Katyn. Il grande regista Andrej Waijda (che perse il padre nell’eccidio) ha realizzato un film che in Italia quasi non si è visto… ma voi cercatelo lo stesso.

Un segretario dell’Onu morì in un incidente aereo ma pochi se ne ricordano (chissà perchè): stava volando sul Congo, il 17 settembre 1961,si chiamava Dag Hammarskjold e si era deciso a fermare la guerra scatenata dalle compagnie minerarie contro il Congo appena divenuto indipendente.

La marcia fra Perugia e Assisi nasce il 24 settembre 1961. Un’idea di Aldo Capitini, il Gandhi italiano.

San Bernardino tiene a Perugia una predica contro chi gioca a dadi, carte, scacchi «e simili cose»: è il 23 settembre 1425. Per la cronaca, solo nel 1609 la Chiesa toglierà la «condanna» degli scacchi.

«Canto general». Proprio in quei giorni i golpisti cileni stanno arrestando, uccidendo e… bruciando i suoi libri: il 23 settembre 1973 muore a Isla Negra Ricardo Neftali Reyes Basoalto (cioè Pablo Neruda), fra i più grandi cantori dell’amore terreno e della libertà.

Bugie di Stato. Solo nel 2009 la magistratura «scopre» quel che tutti sanno: a uccidere Mauro Rostagno, il 26 settembre 1988, fu la mafia; vedi anche in data 13 settembre.

La ciminiera velenosa. Su Manfredonia, in particolare sul quartiere Monticchio, cadono 32 tonnellate di anidride arseniosa: è il 27 settembre 1976. Negli anni successivi decine di morti e la catena alimentare contaminata. Eppure pochi ne scriveranno, fra loro Giulio Di Luzio nel libro I fantasmi dell’Enichem (Baldini Castoldi Dalai, 2003).

8 anni fa. Per una notte l’Italia rimase senza tv, semafori, telefonini, lampioni… Accadde il 28 settembre 2003. Perché? Date un’occhiata a Paura del buio: le ragioni del black out e le alternative energetiche di Emilio Novati, Pietro Raitano e Stefano Magnoni (Altreconomia, Milano 2004).

E mi fermo qui. Ci rivediamo con le “Scor-date” del prossimo mese. (db)

Redazione
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